Il 51 per cento
La questione di genere in Turchia. Un commento ai risultati della ricerca dell’Università Hacettepe di Ankara su vita, lavoro, istruzione di oltre metà della popolazione turca. Il problema della protezione delle donne vittime di violenza domestica
L’Istituto di studi sulla popolazione dell’Università Hacettepe di Ankara, lo scorso ottobre, ha reso noti i risultati di un sondaggio sulla maternità condotto nel 2008 (TNSA-2008) su un campione di 7.405 donne. Alle interessate, comprese in una fascia d’età tra i 15 e i 49 anni, era stato chiesto di esprimersi su questioni di genere, sull’istruzione dei propri figli e sui ruoli da rivestire all’interno della famiglia, nella società e nella vita politica.
Secondo il sondaggio, per la maggior parte delle intervistate l’autorità maschile resta determinante per la propria vita domestica, sessuale e sociale. Infatti, sebbene solo il 17,2% delle donne intervistate concordi con l’affermazione che "le decisioni importanti in famiglia devono essere prese solo dalle componenti maschili", il 41% è unanime nell’affermare di "non dover discutere con il coniuge anche se si trova in disaccordo". Il 69,4% ritiene poi che le donne non debbano andare in alcun posto senza il consenso del marito, e l’80% sostiene l’opinione secondo cui le "donne devono arrivare vergini al momento del matrimonio".
Per quanto riguarda il lavoro fuori dalle mura domestiche, le percentuali indicano una posizione favorevole delle intervistate con solo l’8,1% concorde con l’espressione "le donne non dovrebbero lavorare". Resta bassa tuttavia la considerazione dell’importanza delle donne in politica – concorda con l’espressione "ci dovrebbero essere più donne in politica" solo il 20,4% delle intervistate – ma è alto il numero di quelle che non considerano l’istruzione del figlio più importante di quello della figlia (così l’87,7% delle interpellate).
In Turchia le donne costituiscono circa il 51% di una popolazione totale di 72 milioni di persone. Questo studio, realizzato ogni 5 anni, sottolinea anche che oggi le donne in età fertile risultano essere più istruite rispetto a 10 anni fa. Il 21% delle donne intervistate ha almeno una licenza superiore, ma il 52% ha compiuto solo i primi 5 anni del ciclo di istruzione primaria, e il livello di istruzione risulta più basso in contesti rurali e nei nuclei familiari con maggiore difficoltà economica.
Un altro dato che il sondaggio mette in evidenza riguarda il problema della violenza domestica sulle donne, e della sua percezione. Risulta infatti che una donna su quattro ritiene l’uso della violenza del marito nei propri confronti giustificato in almeno una delle motivazioni da lui avanzate, come ad esempio spendere inutilmente soldi o trascurare la cura dei figli.
Le associazioni di donne, in Turchia, hanno ottenuto negli ultimi anni importanti conquiste con le loro battaglie soprattutto sulla questione della violenza e degli abusi sessuali. Lo stupro commesso all’interno delle mura domestiche, per esempio, è diventato perseguibile in base alla legge penale. È stata modificata la legge che per liberare la propria famiglia dalla vergogna, e il violentatore dalla colpa, incitava la donna stuprata a sposare il proprio aggressore. Si è ottenuto che a livello legislativo non ci fosse più differenza tra lo stupro perpetuato su una donna sposata – considerato precedentemente reato più grave perché anche il marito veniva indirettamente danneggiato – e su di una donna nubile o vergine.
Le stesse associazioni di donne ritengono che ci sia ancora molto da fare e che la collaborazione con lo Stato e le sue istituzioni sia imprescindibile. Come però ha dichiarato Nazik Işık della fondazione – Casa d’accoglienza per donne "Mor Çatı", sulla rivista femminista "Amargi", "lo Stato a volte ha un atteggiamento ostacolante nei confronti delle associazioni di donne, altre volte le vede come ‘manodopera gratuita’". Un’autocritica è rivolta dall’attivista anche alle stesse associazioni che "non sono riuscite a creare una visione e una linea comune sui rapporti da intrattenere con lo Stato".
Un esempio di quello che può essere un nuovo inizio di collaborazione tra le istituzioni e le associazioni di donne è il protocollo firmato lo corso mese tra il ministero per le Politiche della donna e della famiglia e il ministero dell’Interno. Si tratterebbe in pratica dell’introduzione di un modulo "di registrazione della violenza domestica" che obbliga la verbalizzazione dell’arrivo della vittima – donne o bambini – al comando di polizia. L’agente di turno è tenuto a compilare i propri dati assieme a quelli della vittima, prendendone esplicitamente la responsabilità. Il sistema prevede di costituire anche una banca dati sugli episodi di violenza e, conseguentemente, di sviluppare apposite politiche di lotta alla violenza e di realizzare una comunicazione 7 giorni su 7 e 24 ore su 24 tra i centri di accoglienza della donna offrendo un’assistenza coordinata.
Il protocollo è considerato dalle attiviste dei diritti delle donne come un passo in avanti importante, che si sarebbe dovuto realizzare molto prima. L’avvocato Habibe Yılmaz Kayar, ricordando che l’obiettivo fondamentale resta quello di prevenire la violenza, afferma che il progetto è destinato a restare un buon proposito isolato finché i tribunali della famiglia, che sono le autorità competenti per accordare alle vittime di violenza una protezione, e le case d’accoglienza, non diventeranno a loro volta attive 24 ore su 24.
L’altra piaga del sistema è costituita dalla mancanza di personale con un’apposita formazione. "Ci sono casi in cui le donne sono picchiate a sangue nei posti di polizia, e la cosa viene spiegata dicendo che la donna ha opposto resistenza", afferma l’avvocato Canan Arın, co-fondatrice di "Mor Çatı". "Considerato il livello di questo gruppo di persone a disposizione, mi chiedo come si riuscirà ad applicare un simile protocollo. Per lo meno, in questo modo, si costringe la polizia ad assumersi una responsabilità".
"Fino a oggi, se non risultava esserci stata una violenza particolarmente seria o non vi era richiesta di asilo, non venivano redatti verbali", afferma Gökçe Kartaler, volontaria della stessa fondazione. "Capitava che la polizia ci chiamasse e ci domandasse dove avrebbero dovuto indirizzare le donne che si rivolgevano a loro. Bisogna dare una formazione apposita alla polizia. Non è sufficiente che nel verbale compaia la violenza subita. Cosa se ne può fare poi se non ci sono centri d’accoglienza sufficienti?"
Un problema serio resta infatti il numero esiguo dei centri di accoglienza presenti nel territorio nazionale, nonostante un’apposita legge, introdotta nel 2005 assieme ad altre misure di adeguamento agli standard dell’UE, obblighi ciascun comune con più di 50mila abitanti a istituirne uno. La realizzazione concreta dei centri resta vincolata da alcune clausole come "la disponibilità di fondi sufficienti" o "in casi di urgenza". Le caratteristiche di "urgenza" di certo non mancano, visto che come ricorda Canan Arın "è una donna su tre a subire violenza, e i fondi se si vuole si possono trovare". Intanto, però, nei fatti ci sono in totale solo 34 centri di accoglienza, di cui solo 6 o 7 gestiti dal comune, quando secondo la legge ce ne dovrebbero essere circa tremila.
A tutto ciò va aggiunta la difficoltà che si riscontra ad accedere ad una di queste case d’accoglienza. La trafila burocratica è lunga: è necessario fare domanda scritta corredata di carta d’identità e dati anagrafici alla Direzione provinciale dei servizi sociali, aggiungerci un rapporto medico che certifichi il proprio stato di buona salute fisica e psichica e, se si è in compagnia dei figli, anche i loro documenti d’identità. Se la donna è sposata va allegato il certificato di matrimonio, e se è divorziata sono necessari i documenti attestanti il divorzio. Nel caso in cui la donna sia stata vittima di violenza, serve anche il verbale della polizia. Il lavoro da fare, per le associazioni, è ancora molto.