I visti, la Serbia e la fortezza Europa

Era stata una boccata d’aria fresca la notizia, tre anni fa, dell’eliminazione dei visti per viaggiare nell’UE. Ora, però, a causa delle numerose richieste di asilo, i Balcani occidentali si trovano di fronte alla minaccia di una revoca. Il caso Serbia, tra richiedenti asilo e riammissioni

23/10/2012, Federico Sicurella - Belgrado

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La fortezza di Königstein, 1758, Bernardo Bellotto

“Gli zingari danno fastidio ai paesi occidentali, è per questo che vogliono rimettere i visti alla Serbia”, spiega un adolescente a un suo coetaneo su un autobus di Belgrado. La spiegazione è rudimentale e “politicamente scorretta” nel linguaggio, ma dolorosamente corretta nella sostanza.

Poco meno di tre anni fa i cittadini e le cittadine di Serbia, Montenegro e Macedonia accoglievano, con gioia mista a sospetto, la notizia dell’eliminazione dei visti per viaggiare in Europa. Per tanti questo ha voluto dire finalmente “potersi prendere un caffè a Trieste”. Ma per altre decine di migliaia di persone, costrette a vivere in condizioni di povertà ed emarginazione, l’ingresso nella “lista bianca” di Schengen ha significato carta bianca per emigrare in Europa occidentale in cerca di un futuro migliore. Non sorprende sapere che si tratta soprattutto di persone di etnia rom e, in misura minore, di altre comunità discriminate. Ma poter viaggiare in Europa, si sa, non è sinonimo di potersi fermare. Ed è così che una volta giunti in uno dei paesi Schengen, nella speranza di potervi rimanere, molti hanno fatto – e fanno ancora oggi – richiesta di asilo politico.

Secondo la Convenzione dell’ONU relativa allo status dei rifugiati (1951) l’asilo politico è concesso sulla base di una paura motivata di persecuzione su base politica, religiosa, razziale o etnica nel paese di origine. Durante le guerre degli anni ‘90 queste condizioni erano diffuse e facilmente verificabili. Ma oggi che le guerre sono finite da un pezzo ottenere l’asilo sulla base del “semplice” disagio socio-economico è quasi impossibile. Eppure ogni anno il numero di richieste di asilo da parte di cittadini balcanici si aggira intorno a 20.000. Questo succede perché anche sapendo di non possedere le qualifiche necessarie per l’asilo, farne richiesta vale comunque la pena: il richiedente asilo infatti ha diritto di restare nel paese fino al termine della procedura obbligatoria di verifica, la quale può durare anche alcuni mesi. E così, ad esempio, accade che centinaia di rom serbi ogni anno a settembre (ovvero al termine della stagione agricola e dei lavori edilizi) vadano a “svernare” nei paesi dell’Unione europea, come rivela il rapporto del 2012 dell’ONG Grupa 484 .

I “falsi asilanti” dalla Serbia e la risposta dell’UE

Nei primi otto mesi del 2012 il numero di richieste di asilo da parte di cittadini balcanici ha superato quota 14.000. Più della metà di esse riguardano cittadini della Serbia, in prevalenza di etnia rom. I paesi europei maggiormente interessati sono la Germania, la Svezia, la Svizzera e la Danimarca. Ed è proprio su pressione del governo tedesco che l’UE ha cominciato ad occuparsi della questione dei “falsi asilanti”, come vengono chiamati con un certo disdegno. Già da tempo i suoi rappresentanti lamentano che le migliaia di richieste di asilo ingolfano gli uffici delle autorità preposte, e che le spese che ne conseguono gravano in modo significativo sui bilanci statali. I “falsi asilanti” sono così diventati un problema europeo.

L’UE non si è limitata a denunciare il problema, ma ha iniziato a condurre incontri serrati con le autorità serbe competenti allo scopo di elaborare efficaci misure di contrasto. Ma a metà ottobre pareva che la gravità del problema, complice anche l’arrivo dell’inverno, fosse tale da giustificare la sospensione della Serbia dalla “lista bianca” di Schengen . La nefasta ipotesi della reintroduzione dei visti ha ovviamente tenuto in fibrillazione l’opinione pubblica serba per giorni, fino a spingere il primo ministro Dačić a offrirsi di coprire le spese relative ai “falsi asilanti” pur di evitarla. Alla fine il ritorno dei visti è stato scongiurato, almeno per il momento.

Sollevare lo spauracchio dei visti non è stato però un capriccio momentaneo dell’UE, ma l’espressione più eclatante della fitta rete di meccanismi legali e amministrativi che nel corso degli anni l’Unione ha tessuto con i paesi vicini (l’Europa orientale del post-1989) al fine di controllarne i flussi migratori. La possibilità di sospendere il regime di esenzione dai visti per i paesi i cui cittadini ne avessero abusato, ad esempio, era già stata contemplata a maggio del 2011 dalla stessa Commissione europea. Il principale imperativo che l’UE pone ai paesi ammessi nella “lista bianca” è quello di combattere le migrazioni illegali. In particolare attraverso due strumenti: l’inasprimento dei regimi dei visti con i paesi africani, arabi e asiatici, e la ratifica di accordi per la “riammissione” dei cittadini di paesi terzi che risiedano illegalmente nel territorio dell’UE. In questa categoria rientrano anche i “falsi asilanti”.

Il problema dei “riammessi”

La Serbia ha sottoscritto tale accordo per la “riammissione” con l’UE nel settembre del 2007. Dal 2009, anno in cui è stato eliminato l’obbligo di visto, il governo serbo ha ricevuto dai paesi UE quasi 12.000 richieste di riammissione per altrettanti cittadini serbi non in regola. La maggior parte di loro è rientrata nel paese volontariamente, mentre chi si è opposto è stato deportato con la forza. Nel 2011 questa è stata la sorte di almeno 1.900 persone (circa 1.300 i rom, di cui metà minorenni), che sono state imbarcate su voli charter diretti all’aeroporto Nikola Tesla di Belgrado.

Questi dati provengono dalla Cancelleria per la riammissione , che ha sede presso l’aeroporto e che è l’unica istituzione che registra il transito dei “riammessi”. Questo significa che chi rientra in Serbia via terra, ad esempio, non viene schedato. Ma il vero problema è che i “riammessi” restano una categoria fantasma, dal momento che spesso rifiutano di registrarsi presso le autorità locali dei luoghi in cui ritornano, per paura che la polizia proibisca loro di lasciare nuovamente la Serbia. E questo, a sua volta, rende difficile per le autorità locali implementare programmi di reinserimento sociale.

Come ricorda il rapporto di Grupa 848 (vedi sopra), il problema è ancora più acuto nel caso dei “riammessi” che hanno trascorso molti anni nei paesi occidentali, per i quali il ritorno forzato in Serbia è spesso un evento traumatico. Basti pensare che tra essi ci sono molti bambini i quali, cresciuti in occidente, spesso neanche parlano bene il serbo. I problemi più gravi che affliggono questa categoria di persone riguardano l’accesso ai documenti personali, alla tutela sanitaria e sociale, all’educazione, all’alloggio e al mercato del lavoro.

I drammi legati alle severe politiche migratorie dell’Unione europea, e in particolare al fenomeno delle deportazioni, hanno ispirato il lavoro del regista Želimir Žilnik. La sua ultima trilogia cinematografica celebra “la solidarietà fuori dai muri della fortezza Europa” attraverso il racconto della vita di Kenedi Hasani, un rom sagace e maestro nell’arte di arrangiarsi che, scappato in Europa occidentale durante la guerra, nel 2002 viene deportato in Serbia con la sua famiglia.

L’Europa delle libertà e dei privilegi

Di recente, Adriano Sofri ha scritto : “L’Europa, che festeggia oggi il suo Nobel, con qualche piccola distrazione (la ex-Jugoslavia, per esempio, che nella geografia dei commenti non ne faceva parte), ha un grande vantaggio sugli altri continenti, ed è il diritto ad attraversarne i confini senza controlli: diritto che si muta troppo facilmente in un privilegio esclusivo”. In questo senso, “falsi asilanti” e “riammessi” sono tragici eufemismi che (mal)celano il lato nascosto della storia, il costo sommerso di quel privilegio.

Ne è convinto anche lo scrittore tedesco Stefan Hebel, che dalle pagine del Frankfurter Rundschau intima all’Unione europea di restituire il premio Nobel. Macché pace, riconciliazione, democrazia e diritti umani, tuona Hebel – l’UE sa benissimo in che condizioni vive la minoranza rom in Serbia e Macedonia, eppure non fa molto per cambiare le cose, ma anzi chiude la porta proprio ai più bisognosi. E così facendo perde l’occasione di farsi davvero motore di pace e integrazione.

Il giudizio di Hebel è severo, forse troppo. Ma resta il fatto che nelle dichiarazioni dei rappresentanti dell’UE in merito alla questione la parola “rom” non compare quasi mai. Ed è lecito chiedersi se questo sia sintomo di prudenza politica (per non alimentare ostilità nei confronti della già bistrattata comunità) o di un tentativo maldestro di camuffare la vera essenza del problema. Che comunque sembra non sfuggire neanche al ragazzino dell’autobus.

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