I testimoni muti di Zandel
Nato in un campo profughi nel ’48, figlio di genitori fiumani fuggiti dall’Istria, lo scrittore Diego Zandel racconta la sua personale esperienza nel nuovo romanzo “I testimoni muti”. Vittime delle pratiche repressive dei nazionalismi del Novecento. Nostra intervista
Che cosa l’ha spinta a scrivere un libro sulla sua esperienza personale?
Innanzitutto desidero portare una testimonianza di quella generazione nata in esilio subito dopo la guerra ma che, vivendo in una comunità di profughi, ha fatto proprio il dolore e la nostalgia per le terre perdute. In secondo luogo, volevo raccontare la storia di un ragazzo che si libera di molte scorie nazionalistiche presenti nell’ambiente in cui è cresciuto per privilegiare il dialogo e la collaborazione con le nuove generazioni cresciute nei territori lasciati dalla sua gente.
Chi sono i testimoni muti del suo romanzo?
Le vittime tutte, testimoni di politiche e pratiche aggressive dei nazionalismi del Novecento presenti nella regione, prima quello fascista, poi quello comunista; sono testimoni muti perché uccisi, violentati, eliminati. Il mio io narrante, uscito da un lungo percorso di formazione umana e politica, ha voluto dare voce a queste vittime, in nome del diritto di ciascuno di vivere sulla propria terra indipendentemente dall’appartenenza etnica, linguistica, credo politico e fede religiosa.
Ci racconta il suo primo viaggio in Istria?
Avevo nove mesi quando mia madre, malata di tubercolosi, ha dovuto lasciarmi per ricoverarsi in un sanatorio. Passai così alle cure di mia nonna, la madre di mio padre, di etnia croata che sapeva appena parlare l’italiano. Era un’istriana dell’albonese. Tornai con lei a rivedere la sua terra e la sua famiglia, che parlava po nase, cioè «alla nostra maniera», un croato čakavo, appena inframmezzato da parole italiane. E capii che la cosiddetta “Istria italianissima”, come la chiamavano i profughi, era un’esagerazione. L’Istria, in realtà, era multietnica e multilinguistica.
E la prima volta a Fiume?
Ero molto piccolo. Mia madre tornava ad abbracciare la sua famiglia dopo sette anni. Mi stupivo della penuria dei prodotti primi, la poca scelta alimentare, a cominciare dal pane, ne esisteva solo uno, nero, da noi chiamato struza. Mi stupivo della retorica dei monumenti inneggianti a Tito e alla lotta popolare che incontravo un po’ ovunque.
Nel romanzo lei parla di «una Fiume nuova»…
La Fiume che ho conosciuto io non era più la Fiume dei miei genitori. Di anno in anno assistevo all’arrivo di jugoslavi provenienti da ogni parte dell’allora Federazione. La villa abitata dai miei nonni fu trasformata in bifamiliare e a viverci venne una famiglia composta dal marito montenegrino e la moglie serba, più una figlia. A un certo momento, quando l’afflusso migratorio divenne particolarmente intenso, i nonni si trovarono nella necessità di subaffittare una stanza della casa. Intanto, la gente che parlava ancora italiano era sempre meno, anche perché, come accaduto in famiglia, gli zii e le cugine si sono poi sposati con degli slavi, così cambiando i connotati tradizionali. Oggi Fiume è decisamente Rijeka.
Nella sua vita il mare occupa un ruolo primario
Il mare è molto presente nella nostra famiglia; è la tomba di mio nonno, che ha navigato per oltre trent’anni, morendoci. Mio padre e suo fratello lavoravano per compagnie di navigazione, così da trovarci sempre in mezzo alle navi.
A proposito del mare, ci racconta l’impresa eroica di Lino?
Era il 1955. Lino Zandel, un cugino di papà, fece una cosa straordinaria. Con altri tre amici comprò una barca da pesca; uscivano ogni giorno dal porto di Pola lasciando credere alla milizia jugoslava che fosse, appunto, per pescare. Quando arrivò il momento, tirarono dritto verso l’Italia. Una nave italiana li raccolse e al comandante chiesero asilo politico. Visse per un po’ con noi al Villaggio, poi emigrò in Francia e quindi in Australia.
Che cos’è per lei il senso di appartenenza?
Credo che il senso di appartenenza nasca non da motivi strettamente di sangue, ma da fattori ambientali e culturali. Ciò appare evidente soprattutto in un contesto multietnico e multilinguistico come quello dell’Istria. Cito l’esempio della mia famiglia, che ha inizio con una ragazza madre, Maria Zandl, senza la “e”, austriaca, giunta a Trieste dove diede alla luce il mio bisnonno, Carlo, per poi lasciarlo all’ospedale maggiore. Il bisnonno, divenuto nel frattempo Zandel, per il nome mutato secondo la prassi degli orfanotrofi, arrivò in Istria, adottato da una famiglia di Albona. Ora noi Zandel siamo italiani per quella parte che è venuta in Italia dopo la guerra, e croati per quella parte rimasta a casa. Questo è il senso di appartenenza che intendo, che non ha niente a che fare con il sangue come vorrebbero i nazionalisti.
Quanto la politica ha influenzato le opinioni degli esuli?
Tantissimo, anche perché sono stati sottoposti a una propaganda politica della destra che voleva, contro la sinistra che naturalmente ha le sue colpe, appropriarsi del nostro dramma, mentre io credo che esso riguardi tutti gli italiani senza distinzione. I giuliani sono gli unici che hanno pagato per una guerra persa da tutti gli italiani, voluta dal fascismo, che ci ha resi alleati della Germania.
Qual è stato il suo percorso riguardo alla libertà di giudizio?
L’ambiente in cui sono nato e cresciuto ce l’aveva giustamente con Tito e i comunisti, considerati la causa del loro esodo. Ce l’avevano anche con i comunisti italiani che sentivano complici dell’espansionismo jugoslavo. Però non consideravano, tranne alcuni, i danni provocati dal fascismo, e soprattutto il fatto che noi profughi pagavamo per una guerra voluta da Mussolini. Poi, date le circostanze, Tito ha fatto la sua parte. Ma è venuto dopo. I profughi sembrano, o sembravano, dimenticare il prima. Alcuni, addirittura, ripetevano a pappagallo gli slogan dell’Istria italianissima, degli slavi barbari, dimentichi della realtà storica, multietnica e linguistica della regione. Uscire da questi condizionamenti è stato un percorso che mi ha portato oggi a considerare ogni nazionalismo deleterio.
Nel volume cita l’umaghese Fulvio Tomizza: quanto ha inciso lo scrittore nella sua formazione?
Tantissimo. I suoi primi romanzi, da “Materada” fino a “La miglior vita” sono fonti alle quali mi sono abbeverato. È contata, naturalmente, anche la nostra amicizia che ha visto in lui un fratello maggiore.
Un altro istriano, Bepi Nider, compare nel libro. Ci racconta il suo rapporto con l’artista?
Mi ha influenzato più l’uomo che l’artista. In fondo egli, artisticamente parlando, era un dilettante, anche se di cuore. Ho trascorso con lui molte ore per ragioni di studio scolastico; i discorsi toccavano diversi argomenti. Fu tra i primi profughi a farmi presente i danni provocati dal fascismo, senza giustificare affatto il comunismo, che condannava altrettanto duramente.
Nel libro lei cita anche una frase di Boris Pahor
L’epigrafe, all’inizio del capitolo sull’inaugurazione di Via Martiri delle foibe a Servigliano, in realtà è polemica. Pahor scrive in “Necropoli” che sebbene, loro, gli sloveni internati nei campi nazisti, fossero contraddistinti da una “I” maiuscola, che stava per “italiani”, affermavano «ostinatamente di essere jugoslavi». Io affermo, viceversa, il nostro sentirci ostinatamente italiani; ovviamente italiani – e qui sta il senso di tutto il mio libro – non dalla parte dei fascisti, ma di quelli che hanno sempre lottato contro il fascismo, per la libertà e la democrazia, pagando con la morte, il carcere e i campi di concentramento. Ciò che ripudio è la generalizzazione. Per questo nel mio libro ho voluto ricordare la figura, decisiva per la mia formazione politica libertaria, di una partigiana jugoslava, Nada Pausk, bosniaca, ebrea, comunista, che ha saputo dire no al partito quando questo abbandonava i principi di libertà e uguaglianza insiti nell’idea stessa di socialismo.
Dopo 56 anni è tornato a Servigliano per inaugurare Via Martiri delle foibe. Che cosa le è rimasto impresso rivedendo il posto in cui è nato?
Il muro in mattoni. L’unica cosa che è rimasta. Ho provato una forte emozione pensando alla mia vita e a quella dei miei genitori dentro quel muro.
Quale messaggio intende trasmettere con questo libro?
Quello di guardare al passato non per coltivare i nostri livori, ma per costruire un futuro migliore.
Ha in progetto altre storie su esuli e rimasti?
Mi piacerebbe scrivere una saga famigliare, che abbia come perno la figura di mia nonna, una contadina istriana, di etnia croata, che nasce in un piccolo paese dell’albonese, Piculi Turini, si sposa, va a Fiume, fa sette figli, quattro dei quali moriranno tragicamente, resta vedova, e, seguendo i suoi affetti immediati, si ritrova profuga in Italia per poi morire a 77 anni a Roma. Il senso che vorrei dare al racconto è quanto le vicende politiche, espressione dei giochi di potere ed economici di una classe dirigente, incidano pesantemente sul destino delle singole persone.