I ritornanti bosniaci lasciano in silenzio le proprie case (II)
A ridosso dell’importante scadenza elettorale del primo ottobre prossimo, un’inchiesta critica i dati delle agenzie internazionali relativi ai ritorni di profughi e sfollati in Bosnia Erzegovina. La pulizia etnica undici anni dopo Dayton. Seconda parte dell’inchiesta, nostra traduzione
Di Nidzara Ahmetasevic*, per BIRN, Balkan Insight, 31 agosto 2006 (titolo originale: "Bosnian Returnees Quietly Quit Regained Homes)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall’Asta
Omogeneizzazione
A Sarajevo, dove il processo dei ritorni si è ormai completato, la composizione della popolazione è mutata drammaticamente. I dati disponibili per il cantone di Sarajevo suggeriscono che circa l’80 per cento della popolazione è costituita da bosgnacchi, l’11 per cento da serbi, mentre il 6 per cento sono croati.
Il cambiamento è radicale rispetto al censimento del 1991, in cui i bosgnacchi rappresentavano solo il 49 per cento della popolazione di Sarajevo, rispetto ad un 29 per cento di serbi e ad un 7 per cento di croati. Circa il 19 per cento dei cittadini si definiva jugoslavo.
Nella Republika Srpska (RS, una delle due entità in cui è divisa la Bosnia Erzegovina, ndc) si stima che il 90 per cento della popolazione attuale sia composto da persone di etnìa serba. Prima della guerra le stime mostrano che la maggioranza della popolazione era bosgnacca.
Il difensore civico (ombudsman) della Federazione ritiene che il processo della restituzione delle case ai proprietari prebellici sia pressoché completo, cosicché ci sono ora poche speranze di invertire il processo che ha fatto sì che la Bosnia ed Erzegovina si dividesse in tre territori etnicamente omogenei.
Marinko Krajina, sindaco di Gornji Vakuf-Uskoplje, dice che ormai è improbabile che le divisioni che segnano la città cambino.
"Direi che gli spostamenti e le migrazioni sono finiti", ha detto. "Questa non è una situazione normale. Ma dobbiamo tenere presente che qui abbiamo avuto una guerra, e che la situazione attuale è molto migliore di quella di allora".
Gli ostacoli che si frappongono al ritorno non sono sempre quelli più ovvii, derivanti da ostilità vere e proprie tra gli opposti gruppi etnici. Sono cruciali anche le opportunità economiche – o la loro mancanza.
L’impossibilità di esercitare il proprio diritto al lavoro e la discriminazione su basi etniche nell’impiego stanno in cima alla lista dei problemi che molti profughi sostengono di trovarsi di fronte.
La costituzione della Bosnia ed Erzegovina prevede una rappresentanza proporzionale dei gruppi etnici, basata sul censimento del 1991, in tutti gli organismi di governo e delle istituzioni pubbliche, ma questo dettato rimane lettera morta.
Le prospettive di lavoro nel settore pubblico riguardano direttamente i ritornanti, che sono nella stragrande maggioranza poveri, e a cui mancano i mezzi per avviare attività in proprio. Secondo il ministero per i Profughi ed i diritti umani, circa l’80 per cento dei ritornati non ha un impiego stabile e dipende perciò da questi posti di lavoro.
Circa 5.000 persone avevano un posto di lavoro a Gornji Vakuf-Uskoplje prima della guerra. Oggi questo numero è sceso a 2.000. "Purtroppo un gran numero di giovani sta lasciando la municipalità a causa della difficile situazione economica e sociale", sostiene il sindaco. "Circa 3.300 persone sono iscritte come disoccupate presso il locale Centro per l’impiego".
Economie separate
L’economia è in larga misura a scomparti chiusi. Solo un’azienda a Gornji Vakuf-Uskoplje dà lavoro sia a bosgnacchi che a croati.
Alcuni esperti internazionali ora sostengono che per incoraggiare la gente a tornare veramente si dovrebbe garantire ben più del solo diritto a riottenere le proprietà.
"Se si parla delle leggi che regolano la restituzione dei beni ai proprietari prebellici, ogni cosa è stata fatta correttamente, e questo è stato un grande successo", ha detto a Balkan Insight un ufficiale internazionale che si occupa dei ritorni.
"Ma altre leggi non sono state messe in linea con questa normativa. La situazione peggiore è nelle politiche dell’impiego, dove non c’è una legge che invogli i datori di lavoro ad assumere o riassumere i ritornanti dei gruppi etnici di minoranza in quell’area".
Le discriminazioni etniche nell’impiego sono state il soggetto di un rapporto di Amnesty International intitolato "Bosnia ed Erzegovina: dietro porte chiuse. La discriminazione etnica nell’impiego", pubblicato in gennaio.
L’organismo internazionale per i diritti umani ha evidenziato che questa forma di discriminazione era uno degli ostacoli più seri al ritorno sostenibile di profughi e sfollati.
Nel rapporto si individuavano aree in cui "la discriminazione su base etnica" era "più sistematica e feroce", inclusa l’area di Prijedor/Banja Luka, la parte orientale della RS ed alcune zone sotto controllo bosniaco-croato.
Mirhunisa Zukic ha citato l’esempio particolarmente negativo della municipalità di Prijedor, nella RS, che ha visto 30.000 ritornanti, il numero maggiore di tutto il Paese se riferito ad una singola municipalità. La "Alleanza per i profughi" sostiene che, di questi 30.000, 12.000 sono ancora disoccupati.
Un altro esempio è Bosanski Novi, nella RS, che ha 6.000 ritornanti – la maggior parte dei quali bosgnacchi – ma dove solo tre bosgnacchi lavorano nel governo locale.
A Srebrenica, nella parte orientale della RS, il numero di bosgnacchi che lavorano nel governo locale è superiore, ma all’interno della polizia essi costituiscono solo il 10 per cento. Secondo l’ultimo censimento, il 72,9 per cento della popolazione era bosgnacca, un dato che dovrebbe riflettersi negli attuali numeri dell’impiego presso le autorità locali.
A Doboj, nella Bosnia settentrionale, anch’essa nella RS, i serbi costituiscono il 100 per cento degli insegnanti locali, anche se secondo l’ultimo censimento il 40 per cento della popolazione era bosgnacco, il 39 per cento serbo ed il 13 per cento croato.
Solo un bosgnacco lavora come insegnante nella municipalità di Foca, nel Sud-est della Bosnia. Prima della guerra, la città era popolata da un 51,58 per cento di bosgnacchi e da un 45,27 per cento di serbi.
Su 180 funzionari civili a Zvornik, nella Bosnia orientale, solo tre sono bosgnacchi. Stando al censimento del 1991, il 59,43 per cento della popolazione era bosgnacca ed il 38 per cento serba.
Il problema è grave soprattutto nella RS, ma non è limitato alle aree sotto controllo serbo. Nella roccaforte bosniaco-croata di Capljina, solo un bosgnacco lavora presso le autorità locali. E a Sarajevo, città a prevalenza bosgnacca, 185 dei 211 fuzionari civili della municipalità di Novi Grad sono bosgnacchi.
Anche il sistema educativo è stato diviso tra i tre gruppi etnici, incoraggiando la segregazione fin dalla più tenera età.
Gornji Vakuf-Uskoplje, per esempio, ha due scuole primarie separate – una per i bosgnacchi ed un’altra per i croati, mentre le due scuole secondarie, bosgnacca e croata, operano sotto lo stesso tetto.
Alla scuola secondaria i bambini usano perfino ingressi separati. Dzevad Dedic, un operatore del centro sanitario, dice: "Le pause tra i diversi corsi non sono concomitanti, cosicché gli studenti non si possono incontrare. Non c’è modo che possano fare amicizia".
Dedic dice che anche la sanità è divisa a Gornji Vakuf-Uskoplje, con due centri sanitari che assistono separatamente bosgnacchi e croati
Il rapporto di Amnesty International ha fatto riferimento a problemi riguardanti la possibilità di accesso, da parte dei gruppi di minoranza, all’assistenza sanitaria e sociale, e alle pensioni. I funzionari del ministero per i Profughi ed i diritti umani hanno anche riferito violazioni del diritto locale ed internazionale, per quanto concerne l’accesso alle cure sanitarie e alle agevolazioni assistenziali. Molti ritornanti non hanno accesso a nessun tipo di sussidio o ad altre agevolazioni. Alcuni tuttora non sono riusciti ad ottenere l’allacciamento all’elettricità.
In alcuni posti la sicurezza personale rimane uno dei principali problemi. Fadil Banjanovic, capo della comunità di Kozluk, vicino a Zvornik, ha dichiarato recentemente ai media che la paura, ed i timori per la propria incolumità erano un serio problema per i ritornanti.
"La gente ha ancora paura, perché i criminali di guerra qui camminano liberamente per le strade", ha detto. "In questa parte della Bosnia nessun processo per crimini di guerra è in corso".
Un nuovo censimento nel 2011?
Tutte queste sono le ragioni che ostacolano un ritorno sostenibile. Quante persone siano ritornate esattamente è comunque impossibile da sapere, finché non verrà fatto un nuovo censimento. L’ufficio federale di statistica dice che questo avrà luogo nel 2011.
Ma non c’è accordo nemmeno su questo. Mentre alcuni sostengono che un nuovo censimento è doveroso, altri sostengono che esso potrebbe dare un avallo alla pulizia etnica che ha avuto luogo.
Senad Slatina, direttore del Centro per le strategie di integrazione europea, con sede a Sarajevo, sostiene che il censimento è principalmente "una scelta politica anziché economica".
"Questo perché molti, e rilevanti, dettati costituzionali prescrivono una rappresentanza proporzionale nelle istituzioni pubbliche, basata sui dati del censimento più recente", ha detto Slatina a Balkan Insight.
Slatina concorda che il ritorno dei profughi e degli sfollati è indissolubilmente legato al tema delle opportunità di impiego, e che i più grandi datori di lavoro sono le istituzioni pubbliche.
"Le attuali disposizioni costituzionali – benché in modo formale e inefficace – prescrivono alle istituzioni governative di assumere i ritornanti, nel tentativo di ripristinare una composizione etnica mista perfino in quei luoghi che hanno visto dilagare i crimini a sfondo etnico", ha aggiunto.
Dieci anni dopo, è difficile dire chi sia responsabile per il fatto che non ci sia un ritorno sostenibile.
Il Comitato Helsinki sostiene che siano ugualmente colpevoli sia le autorità locali che la comunità internazionale.
"L’intento della comunità internazionale, di presentare il processo del ritorno come un qualcosa che si avvia ad un pieno compimento, o forse come qualcosa che si è già concluso, è chiaramente avvertibile", si dice nel rapporto del Comitato Helsinki sui diritti umani in Bosnia ed Erzegovina.
"L’Accordo di pace di Dayton prescriveva bene tutto questo, ma l’implementazione è stata ostacolata", dice Mirhunisa Zukic.
"Ma noi siamo ottimisti, e non è troppo tardi. La gente ha delle speranze. Quelli che si occupano di agricoltura resteranno nelle loro case. Il problema è nelle città. Abbiamo bisogno di una ripresa economica".
Alcuni giovani di Gornji Vakuf-Uskoplje, però, non vogliono arrendersi. Il Centro della gioventù, una locale ONG, da diverso tempo lavora per fare incontrare giovani di entrambe le parti. Benché questo proposito suoni semplice ed innocente, essi sostengono che si tratta di un lavoro duro.
Un progetto prevede l’organizzazione di viaggi-vacanza di gruppi etnicamente misti di bambini. "Quando li portiamo fuori da questo ambiente i bambini sono felici", dice Adnan Gavranovic, uno degli educatori. "Giocano insieme, sono molto vicini gli uni agli altri; ma già durante il viaggio di ritorno sembrano assumere un atteggiamento diverso, e tendono a separarsi".
Adnan e Sead Masetic, entrambi poco più che ventenni, dicono di essere cresciuti col Centro della gioventù , che li ha aiutati a sviluppare un approccio positivo verso la vita. Ma, secondo loro, in città le persone più vecchie trasmettono i loro pregiudizi ai figli.
Ma né Adnan né Sead effettivamente vivono a Gornji Vakuf – Uskoplje. Adnan studia e vive in Austria, mentre Sead studia a Zenica. Entrambi tornano nella loro città natale per le vacanze estive.
"Ogni volta che vengo qui, mi lascio prendere dallo sconforto", dice Sead. "Ti aspetti che le cose cambino, ma questo accade con una lentezza penosa. Non ricordo più quando è stata l’ultima volta che qualcuno mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto restare qui".
(II – fine Vai alla prima parte dell’inchiesta)
*Nidzara Ahmetasevic è corrispondente di Balkan Insight. Balkan Insight è la pubblicazione online di BIRN