I rifugiati e Belgrado sull’acqua

Lo scorso 11 maggio sono state bruscamente sgomberate le baracche retrostanti alla stazione ferroviaria di Belgrado dove vivevano centinaia di rifugiati bloccati lungo la rotta balcanica. Una panoramica

25/05/2017, Massimo Moratti - Belgrado

I-rifugiati-e-Belgrado-sull-acqua

Belgrado sull'acqua in costruzione - Foto Silvia Maraone

Le baracche di Belgrado dove viveva una folta comunità di rifugiati non ci sono più. Poco più di due settimane fa, le autorità serbe, con un preavviso di pochi giorni, hanno provveduto al loro sgombero e alla successiva demolizione. Gli occupanti sono stati trasferiti nei campi per rifugiati che oramai stanno costellando la Serbia. Lo sgombero è avvenuto senza grandi incidenti e senza che le autorità dovessero ricorrere alla forza, anche se i metodi usati sono stati bruschi e il coordinamento, come spesso capita in queste operazioni, ha lasciato a desiderare, creando incertezze e inquietudine tra i rifugiati.

Lo sgombero ha suscitato commenti e discussioni soprattutto sui social media, ma realisticamente la situazione nelle baracche, e chi scrive vi è stato personalmente, rappresentava una condizione degradante e pericolosa in primo luogo per gli occupanti: nonostante gli sforzi di numerose organizzazioni di volontariato i rifugiati erano comunque costretti a vivere in una situazione igienicamente precaria e nella completa illegalità.

Le baracche e la stessa zona della stazione ferroviaria fanno parte del famoso progetto “Beograd na Vodi” (Belgrado sull’acqua). A dicembre, secondo quanto appreso sul terreno, era comunque prevista la chiusura della stazione ferroviaria e il trasferimento della stessa, dato l’avanzare dei lavori per la costruzione della nuova area residenziale. Il tempo era contato per gli occupanti delle baracche e già dall’estate scorsa le autorità serbe avevano manifestato chiaramente l’intenzione di procedure alla chiusura del centro e al trasferimento degli occupanti.

Belgrado e la rotta balcanica

Gli abitanti delle baracche rappresentavano probabilmente uno degli aspetti più problematici della crisi dei rifugiati. Si trattava in stragrande maggioranza di uomini, abbastanza giovani, di provenienza soprattutto dall’Afghanistan, Pakistan, Iran e Bangladesh. Erano riluttanti a richiedere asilo in Serbia, e le ONG locali cercavano comunque di legalizzare la loro presenza portandoli dalla polizia per la registrazione.

Quando la rotta balcanica era aperta, fino al marzo 2016, il centro di Belgrado era vuoto, i profughi non vi passavano nemmeno. A partire dalla primavera del 2016, quando fu chiusa la rotta, i parchi di Belgrado si sono popolati di persone che dormivano all’addiaccio e cercavano, in qualche modo, di proseguire il viaggio. Con i primi freddi, spontaneamente le persone hanno cercato rifugio proprio nei vecchi magazzini abbandonati dietro alla stazione.

In realtà, Belgrado era ed è tutt’ora un hub, o come dicono i rifugiati stessi un “punto” dove migranti e trafficanti si incontrano, per proseguire assieme. In quel periodo i nuovi arrivati comparivano all’improvviso di notte o di giorno, presso il famoso “afghani park”: gruppi di 15-20 persone venivano scaricati da tassisti-passeur nelle vie adiacenti e poi pian piano si avviavano verso il parco dove ricevevano una prima assistenza.

Nel parco avvenivano i “games”, cioè si negoziano i tentativi per passare la frontiera in modo illegale. A Belgrado poi arrivavano anche gli sventurati che avevano provato ad entrare in Ungheria ma erano stati respinti, questi ultimi spesso venivano in città a farsi curare le ferite causate dalla polizia ungherese: morsi di cane, pestaggi e altre violenze erano prassi comune fino all’autunno 2016.

Le ONG cercavano di fornire assistenza durante il giorno, ma questa iniziativa era malvista dalle autorità locali e dagli abitanti del luogo che a più riprese avevano manifestato il loro malcontento.

Un primo tentativo di sgombero fallì nel novembre scorso: i rifugiati, temendo di esser deportati verso la Macedonia, rifiutarono di esser sistemati nei campi. Si cercò allora di limitare il lavoro delle ONG. Le autorità, in primo luogo il ministero per le Politiche Sociali, “raccomandarono” per iscritto alle ONG di non fornire assistenza alle persone nelle baracche per non fungere da “pull factor”. Nella Serbia odierna, una “raccomandazione” da parte delle autorità ha un peso che van ben oltre il contenuto della lettera e il messaggio venne quindi almeno in parte recepito: le Ong più grosse limitarono i loro interventi mentre le più piccole non si fecero scoraggiare continuando a fornire assistenza e pasti caldi.

Gennaio a -20 gradi

Le baracche dietro la stazionedi Belgrado (foto S. Maraone)

Le baracche dietro la stazionedi Belgrado (foto S. Maraone)

La situazione nelle baracche era drammatica. Non erano altro che quattro mura e un tetto, con vetri e porte rotte: impossibile ripararsi dal freddo se non accendendo fuochi all’interno degli edifici. Gli occupanti di giorno si procacciavano la legna, per lo più traversine ferroviarie dismesse, e di notte si riscaldavano negli edifici. Il fumo era acre dato che si bruciava plastica e legname impregnato d’olio e catrame. I servizi igienici inesistenti, se non per un cannello d’acqua che scorreva lì vicino.

Quando ad inizio gennaio la temperatura scese a -20, e i rifugiati-migranti facevano la fila sotto la neve per un pasto caldo avvolti nelle coperte, la situazione nelle baracche fece il giro del mondo. Per il governo serbo fu una debacle mediatica. I media arrivati da tutto il mondo vennero immediatamente a conoscenza della “raccomandazione” del governo alle ONG e del fatto che tale situazione di abbandono era tollerata, o forse ignorata dalle autorità serbe. La lettera di inizio novembre si trasformò in un boomerang contro le autorità serbe, che scalfì l’immagine di paese tollerante che il governo serbo aveva voluto promuovere durante la crisi dei rifugiati.

Il governo serbo, nel corso della crisi lungo la rotta balcanica, ha sempre infatti mantenuto una politica di accoglienza nei confronti dei rifugiati, richiedendo però allo stesso tempo l’assistenza finanziaria delle istituzioni europee per accogliere e nutrire circa 6.000 persone. In qualche modo, la Serbia, sempre preoccupata per l’immagine negativa risalente ai conflitti degli anni ’90, ha voluto sfruttare la crisi dei rifugiati per rilanciare la sua immagine internazionale come paese tollerante e civile.

Le scene di gennaio e la campagna mediatica negativa hanno spinto quindi il governo serbo ad agire. In pochissimi giorni, una caserma dismessa a Obrenovac fu riadattata e circa 900-1000 persone presenti nelle baracche vennero lì trasferite, dove venivano forniti pasti caldi, dove si poteva usufruire di servizi igienici e dell’assistenza medica. Ciò nonostante le baracche continuarono ad essere occupate da 500-600 persone.

All’aumentare delle temperature, e allo scemare dell’attenzione mediatica, i lavori di sgombero delle baracche pian piano rallentarono. Nuove organizzazioni umanitarie arrivarono in centro a Belgrado e la situazione gradualmente migliorò, anche se le condizioni rimasero sempre molto problematiche. Poco a poco, il numero degli occupanti crebbe di nuovo, fino a superare di nuovo il migliaio.

Si sapeva comunque che la situazione era provvisoria, dato che sulla zona già incombono le prime torri del “Beograd na Vodi”, l’ambizioso e problematico progetto urbanistico che nel giro di alcuni anni potrebbe cambiare radicalmente l’aspetto della zona.

Un ordine arrivato dall’alto?

Ad un certo punto qualche giorno fa qualcuno nei gangli del potere belgradese ha ordinato la demolizione delle baracche. E l’ordine deve essere giunto da qualche posizione parecchio in alto: il personale del Commissariato per i Rifugiati e le Migrazioni era presente in massa per informare gli occupanti delle baracche dello sgombero e immediatamente si sono resi disponibili posti nei vari centri di accoglienza dislocati nel paese. Lo sgombero stesso, inizialmente programmato per la seconda metà di maggio, è stato anticipato inaspettatamente creando una grossa pressione psicologica per gli occupanti stessi che si sono svegliati un mattino con il personale municipale che spruzzava del disinfettante mentre veniva intimato loro di sgomberare le baracche al più presto e senza troppe cerimonie. Metodi ruvidi, sbrigativi, ma senza violenza.

Gli occupanti delle baracche sono stati trasferiti immediatamente nei centri vicini, da Obrenovac, a Krnjaca, nei dintorni di Belgrado, oppure verso il confine con l’Ungheria, nei centri appena costruiti (e finanziati dalla UE e UNHCR). Le condizioni nei centri, seppur non ottimali, sono comunque incomparabilmente migliori di quelle nelle baracche.

I centri sono semi-aperti, nel senso che le persone non sono soggette ad un regime di detenzione. Viene da chiedersi perché il governo serbo non abbia provveduto allo sgombero totale delle baracche già a gennaio, quando ve ne era più bisogno date le temperature polari, e si sia proceduto solo ora, seguendo degli ordini tanto imperativi quanto misteriosi.

Bloccati lungo la rotta balcanica

In Serbia rimangono ora circa 7000 persone. Gran parte di loro (95% secondo le stime UNHCR) sono sistemati nei centri d’accoglienza e di transito. Molti di loro sono partiti più di un anno fa dai loro paesi d’origine, Iraq, Afghanistan, Pakistan e si sono ritrovati bloccati lungo la rotta balcanica. Non possono proseguire verso l’Ungheria: da inizio marzo ogni richiedente asilo viene detenuto fino a quando la sua domanda di asilo non viene esaminata. Non possono nemmeno proseguire verso la Croazia, che respinge sistematicamente, a volte usando anche la violenza, ogni persona che tenti di passare il confine illegalmente. Non possono nemmeno tornare indietro, dato che ripercorrere la via a ritroso è impensabile.

Rimanere in Serbia è comunque un’opzione poco attraente: la possibilità di richiedere asilo esiste praticamente solo sulla carta e le autorità serbe fanno ben poco per creare un sistema d’asilo efficace, né i migranti stessi fanno capire di essere interessati a richiedere asilo in Serbia.

Rimangono così, sospesi nel tempo e nello spazio, in una condizione di semi illegalità ad aspettare che qualcosa cambi. Nel frattempo, lo sconforto comincia a diffondersi soprattutto tra le persone più provate dal viaggio. In questo scenario, l’unica speranza per andare avanti rimangono i trafficanti, gli “šverceriche dalla chiusura delle frontiere stanno facendo affari d’oro.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta