I noccioli del Kosovo

Le trasformazioni del sistema agricolo kosovaro dal sistema socialista jugoslavo ad oggi. I kombinat, il sistema parallelo, le cooperative, l’ecologia, l’Unmik. Un’intervista a Kolë Prenaj

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Kolë Prenaj è il presidente di una cooperativa di agricoltori della zona di Peja/Pec. Grazie ad un programma dell’Agenzia Europea per la Ricostruzione, inoltre, coordina le attività di sviluppo agricolo ed ecologico della zona del Dukagjin, area quasi esclusivamente rurale del Kosovo in cui efficaci politiche agricole sono l’unica base per lo sviluppo economico locale. Lo abbiamo incontrato per saperne di più sull’attuale sistema agricolo kosovaro.

Questa parte del Kosovo è prevalentemente rurale. Ci può delineare un quadro del settore agricolo in quest’area?

Per la piana del Dukagjin – di cui fanno parte Peja, Gjakova, Istog, Deçan e Junik – la priorità principale è proprio lo sviluppo dell’agricoltura: più del 70% della popolazione si occupa infatti di agricoltura. In questi anni abbiamo ricevuto il sostegno di molti donatori italiani quali AVSI, Edus, il Tavolo trentino con il Kosovo ed altri che hanno contribuito al rafforzamento delle organizzazioni di settore e alla sensibilizzazione e formazione degli agricoltori sul raggiungimento di determinati standard di qualità dei prodotti. Era tutto da costruire da zero, dopo che il conflitto del ’99 in questa zona ha lasciato molte macerie.

Come era organizzato il sistema agricolo in Kosovo prima della guerra?

Molto diversamente, era un sistema socialista. L’agricoltura era organizzata in cooperative e grandi kombinat agricoli. Ma tutto è stato spazzato via. E dopo il conflitto abbiamo dovuto incominciare a organizzarci in modo completamente diverso. Tra l’altro non avevamo alcuna idea di cosa fosse la società civile, di cosa fossero le associazioni di categoria. Solo in seguito all’arrivo delle organizzazioni internazionali sono nate anche associazioni locali.

Lei dice che dopo il ’99 si è partiti dal nulla. In realtà, per tutto il periodo degli anni ’90 in Kosovo la comunità albanese si era riorganizzata in un sistema parallelo a quello ufficiale. Che riflessi ha avuto questo sull’organizzazione del sistema agricolo di quel decennio?

In quegli anni abbiamo sviluppato un senso di solidarietà che ci ha permesso di andare avanti. Inoltre molti sono emigrati e la diaspora ci ha aiutato enormemente anche favorendo in Kosovo un grande afflusso di capitali. In quegli anni c’erano anche agricoltori molto ricchi. Certo, non era facile. Subivamo una vera e propria occupazione da parte dei serbi ed eravamo esclusi dai centri decisionali e amministrativi.

Io ero a capo di un Kombinat agricolo in cui lavoravano 700 operai. In seguito ad un solo giorno di sciopero, il 3 settembre 1990, promosso dai sindacati del Kosovo sono stati licenziati tutti gli albanesi altamente specializzati. Allora noi abbiamo creato strutture parallele, e anche l’agricoltura è stata parte di questo processo. Io ad esempio sono stato a capo dei sindacati del settore agricolo. Determinavamo i prezzi, indipendentemente da quelli serbi, agivamo in modo indipendente.

In quegli anni poi siamo stati protagonisti di un’ampia solidarietà nei confronti degli strati più poveri della società, fornivamo loro generi alimentari. Questo veniva realizzato tramite l’Associazione Madre Teresa, divenuta un simbolo di quella solidarietà.

Tra il ’90 e il ’93 tutte le aziende agricole pubbliche sono di fatto fallite. Le grandi piantagioni di ciliegi e noccioli sono state abbandonate. Anche il settore vitivinicolo, in passato molto rilevante in quest’area, ha subito gravi danni. Dei 30mila ettari di vigne che si trovavano in Kosovo ne è rimasta una quantità ridicola. Queste sono tutte conseguenze della fase precedente al conflitto.

E dopo il 1999 come si è organizzato il settore?

Innanzitutto una premessa. A mio avviso, sia l’amministrazione internazionale, Unmik, sia più in generale i donatori in questo specifico settore non sono stati all’altezza del loro compito ed hanno sottovalutato l’importanza delle politiche agricole in una società quasi esclusivamente rurale.

Che tipo di strategia ha sviluppato in questi anni l’Unmik per il settore agricolo?

L’agricoltura è stata purtroppo sottovalutate e per nulla sostenuta. Si sono create alcune società di microcredito per l’agricoltura ma i loro tassi di interesse arrivano al 20%. E per un agricoltore non sono sostenibili. Si tratta di società che sono venute qua con 200 mila euro e adesso hanno 20 milioni di euro. Ora stanno aprendo le prime banche, ma anche in questo caso gli interessi sono molto alti, 13%, e non sono previste dilazioni di pagamento.

Un altro []e dell’Unmik e dei leader politici kosovari, è l’aver tollerato la corruzione e questo lo dico con tutta la responsabilità del caso. Si tratta di corruzione sia all’interno dell’Unmik sia delle istituzioni locali. Non c’è ancora nessuno che risponda per il reato di corruzione in Kosovo. Vi sono funzionari dell’Unmik che sono sotto inchiesta per corruzione ma non si sa nulla dei processi in corso. E per quanto riguarda la leadership kosovara, nessuno sembra dover rispondere ad alcuna responsabilità, nessuno è mai stato sottoposto a processi o inchieste.

Comunque, i primi passi verso la riorganizzazione del settore sono stati compiuti…

Sì, io ad esempio ero molto motivato a partire dal 1999 e mi sono impegnato nella ricostruzione di un sistema di infrastrutture per l’agricoltura.

In base a una normativa Unmik abbiamo iniziato a registrare organizzazioni di produttori, alcune sono state stimolate da donatori, altre sono nate spontaneamente. E’ questo il caso della nostra Agroklina, con la quale ho voluto riunire i migliori agricoltori dell’intera area di Klina. Abbiamo promosso corsi di formazione, abbiamo invitato esperti dall’estero. Inizialmente ci ha sostenuto la Cooperazione canadese, l’Intercorporation svizzera, la GTZ tedesca, la Forza della luce, inglese con sede a Lezha.

Attraverso il loro sostegno abbiamo messo a disposizione dei nostri soci i macchinari agricoli. Era di fatto una forma cooperativistica. Ho fatto molte visite per esplorare e conoscere meglio il funzionamento dei sistemi agricoli in Svizzera, in Olanda, a Subotica (Serbia, ndt), in Macedonia e in Albania. Io sono per l’apertura e la collaborazione sia con la Serbia sia con l’Albania, in particolar modo in ambito economico.

Poi ho ritenuto cruciale occuparmi anche della trasformazione dei rifiuti organici. Questa è tra le attività che svolgo. Sono l’unico nell’area ad impegnarmi in questo ambito, ho infatti installato un sistema di compostaggio. E’ già attivo e adesso produco concime. Per questa attività ho ottenuto anche il sostegno del ministero dell’Ambiente. Il mio intento è dimostrare alle persone che i resti organici possono servire a qualcosa. Non solo, possono essere un affare! Ritengo sia molto positivo essere sostenuti in questo sia dal ministero dell’Ambiente che dalla Facoltà di agraria dell’Università di Pristina.

E per i membri della cooperativa come funziona questo sistema?

Oltre ai macchinari della cooperativa, gli agricoltori che ne sono soci ricevono gratuitamente anche una quantità di concime. C’è un sistema simbiotico, loro portano i resti organici dalle loro proprietà e io produco il concime che loro riutilizzano.

Quali sono i principali problemi che affronta oggi il settore agricolo kosovaro?

In Kosovo c’è troppa burocrazia e c’è pochissimo spazio per gli investitori stranieri. Però a mio avviso il problema principale è la definizione dello status del Kosovo, perché l’incertezza si traduce in un ostacolo nei rapporti con l’estero. Appena si arriverà ad una soluzione, la situazione migliorerà.
Ho avuto a che fare con cinque diversi investitori con cui ho collaborato in vari progetti, e che erano anche propensi a investimenti di lungo termine in Kosovo. Con tutti quanti, senza eccezioni, ho avuto notevoli problemi burocratici.

Quando mi sono rivolto all’amministrazione kosovara per adempiere alle pratiche necessarie a far entrare questi investitori in Kosovo, mi è stato subito detto di rivolgermi all’Unmik. L’Unmik mi mandava all’ente che si occupa di privatizzazioni, da qui alle amministrazioni locali.

Inoltre, per sbirgare le pratiche, chiedono tangenti. Ad esempio c’è stata un’azienda che è venuta qua per investire nella produzione del latte. Ho preparato tutta la pratica ma nessuno mi ha concesso l’autorizzazione. Anche dalla Svizzera c’era una società che voleva impegnarsi nel compostaggio, ma neanche per quella sono riuscito a far niente. Non posso dire che mi abbiano chiesto esplicitamente soldi, ma la pressione psicologica c’è stata. C’è una società di Berlino che vorrebbe costruire un sistema di trasformazione di rifiuti organici a biogas, e in questo caso siamo stati ostacolati dall’ente delle privatizzazioni. Con questo sistema si potrebbe generare corrente, ma il problema qui è che non si investe nel settore privato, ma in quello pubblico.

Quali sono gli ostacoli nella comunicazione tra gli enti pubblici e il settore privato?

Non ci sono degli ostacoli veri e propri, il punto debole è la mancanza di formazione da entrambe le parti. I cittadini devono essere sensibilizzati sul fatto, ad esempio, che anche i rifiuti sono una risorsa. Nell’area di Dukagjin abbiamo incominciato ad avviare un dialogo con gli agricoltori, gli esperti di ecologia, le istituzioni e miriamo a estendere questo percorso a tutto il Kosovo.

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