I fiumi del crimine nel mare della globalizzazione

Al fenomeno della criminalità organizzata nei Balcani e alle sue implicazioni per Italia ed Unione europea il Centro Studi di Politica internazionale e l’American University of Rome hanno dedicato, il 15 novembre scorso, una conferenza-seminario.

20/11/2002, Alessandro Rotta -

"Le foto satellitari mostrano le acque inquinate del Po’ che si riversano nell’Adriatico. Vicino alla foce, l’acqua sporca si distingue nettamente da quella pulita. Al largo della costa, l’inquinamento non è più visibile, ma il mare è comunque contaminato. Lo stesso succede con il denaro sporco". Alberto Maritati, magistrato che si è occupato a lungo dei nessi tra criminalità albanese e italiana, oggi senatore eletto nel collegio di Lecce, descrive così il rapporto tra la sfera lecita e illecita dell’economia, dove il confine tra le due dimensioni è reso sempre più sfumato dalla velocità e dalla intensità dei flussi globali. Il crimine organizzato pone un’insidia non per la sua natura "altra" rispetto ai meccanismi politici ed economici dell’Europa unita, ma proprio per la capacità dei traffici e delle attività illecite di seguire le vie della globalizzazione, sfruttando gli stessi canali dell’economia lecita. Si può anzi affermare che nei Balcani le agenzie criminali si siano dimostrate decisamente più rapide delle loro controparti istituzionali nell’approfittare delle opportunità del nuovo contesto globale. Inoltre, la crescita poderosa del fenomeno criminale, nei Balcani come e più che altrove, si nutre del radicale ridimensionamento del ruolo dello stato indotto dai processi di globalizzazione: la minore capacità delle autorità statali di agire autonomamente sul piano internazionale o interno, e di offrire servizi sociali e sicurezza, si traduce in un vantaggio strategico per gli attori criminali, che si propongono come fornitori degli stessi servizi che lo stato non riesce a garantire e acquisiscono posizioni di preminenza politica, economica e sociale.
Questa prospettiva analitica evidenzia i limiti di un approccio settoriale al fenomeno della criminalità organizzata, che lo legga solo come minaccia alla sicurezza a cui rispondere adottando misure di contenimento. Coerentemente, nell’organizzazione della conferenza, si è voluto dar risalto alle molteplici dimensioni del fenomeno stesso, e alle sue interazioni con il nazionalismo, la politica e le prospettive di integrazione europea. Ivan Vejvoda, studioso di processi di transizione, ex direttore della fondazione Soros a Belgrado e attualmente consigliere di politica estera del primo ministro in Serbia, osserva la tematica da più angolazioni, che vanno dall’analisi teorica all’applicazione pratica di politiche e contromisure.
Il suo intervento ha descritto come dieci anni di guerra, sommati alla transizione dall’economia socialista, abbiano reso per lungo tempo "il crimine organizzato il veicolo principale dell’economia serba". L’esplosione del pluralismo politico in un contesto di scarse risorse pubbliche e in assenza di una legislazione precisa sul finanziamento dei partiti ha fatto sì che le stesse forze politiche siano soggetti che vivono a cavallo dell’economia grigia e illegale, dopo un decennio in cui le massime autorità dello stato hanno proceduto al saccheggio dell’economia nazionale. L’intreccio tra potere politico e criminalità data in realtà a ben prima delle guerre jugoslave e della fine della federazione, e risale almeno alla fine degli anni sessanta, quando il governo di Belgrado reclutò noti criminali per controllare i circa 700.000 jugoslavi emigrati all’estero, come ricorda Zoran Kusovac, di Jane’s Intelligence Review. Ma è effettivamente con la guerra che i soggetti criminali assumono preminenza politica, organizzando la difesa delle città, come nel caso di Sarajevo, poi vendendo a caro prezzo la propria specializzazione nel mercato della violenza e organizzando nuovi traffici. I conflitti saldano definitivamente il destino degli stati nascenti al crimine organizzato, e la nuova generazione di soggetti criminali si inserisce a pieno titolo nella ricostruzione dei paesi balcanici. La Croazia fornisce un esempio di come nazionalismo e predazione su vasta scala possano coalizzarsi nella costruzione di uno stato: il processo di privatizzazione portato avanti nell’era Tudjman, mirante ad arricchire famiglie di provata fede nazionalista, nella convinzione che questo costituisse il bene del paese, ha comportato l’assunzione di un ruolo di primo piano da parte di pochi magnati che hanno portato l’economia nazionale alla bancarotta, accumulando imponenti fortune all’estero.
Oggi è difficile perseguire le malversazioni e i criminali finanziari, poiché questi si sono arricchiti nel rispetto del quadro legale preesistente, e le nuove autorità croate tentano, come avviene in Serbia, di tassare i profitti in eccesso e ridistribuire la ricchezza sottratta al paese nella fase politica precedente. Tuttavia, come afferma Emilio Cocco, lo smantellamento dell’eredità economica e politica del passato prossimo è reso difficile proprio dall’intreccio delle pratiche di predazione degli assetti statali con l’idea nazionale.
Nel panorama della regione una storia esemplare è rappresentata dallo sviluppo della criminalità albanese, di cui il senatore Maritati ha ripercorso i passaggi principali, dall’organizzazione di una flotta di gommoni per rispondere ai bisogni di fuga dal paese espressi dalla popolazione, al traffico d’armi, fino all’assunzione di un ruolo di primo piano nel traffico di stupefacenti e alla specializzazione nel settore della tratta. La descrizione del caso albanese è l’occasione per Maritati per ribadire l’inadeguatezza di una risposta esclusivamente repressiva, e la necessità di aggredire le cause del fenomeno criminale, identificate nei problemi di sviluppo economico e sociale del paese.
Un chiaro esempio di come, nel paese delle aquile, il denaro proveniente da attività illecite venga reinvestito, è offerto dal boom del settore delle costruzioni. Lo scenario del Kosovo dopo la guerra, delineato dal generale Cabigiosu, all’epoca primo comandante delle forze NATO in Kosovo (Kfor), aiuta a comprendere le difficoltà di ricostruire un tessuto di legalità in un territorio sconvolto da un conflitto recente, e le opportunità che questa situazione presenta per la criminalità organizzata. L’assenza di un quadro giuridico di riferimento e la difficoltà ad acquisire il controllo del territorio favorirono nella prima fase di dispiegamento delle truppe internazionali lo strapotere dei signori della guerra, e l’espulsione in massa dei civili serbi. Più a lungo termine, l’inadeguatezza delle forze militari al contrasto della criminalità organizzata ha permesso che il Kosovo rimanesse un epicentro di traffici illeciti.
Passando alle possibili risposte e azioni di contrasto del crimine organizzato, Paolo Borgna, del Patto di stabilità, ha affermato che una risposta debole al fenomeno criminale avrebbe ripercussioni negative sull’allargamento dell’Unione europea, rendendo le opinioni pubbliche dell’Europa occidentale meno favorevoli al processo, e che quindi la lotta al crimine organizzato e alla corruzione deve essere una priorità del Patto di stabilità e dell’UE. La risposta non può essere unicamente repressiva, ma deve basarsi sulla prevenzione e sulla cooperazione giudiziaria, che tuttavia, con i paesi dell’area, è ancora a uno stato embrionale. Nonostante l’esibizione di muscoli di Schengen e la moltiplicazione delle frontiere nel corso dell’ultimo decennio, trafficanti e trafficati si muovono agevolmente attraverso la regione. Lo stesso non si può dire di coloro che li inseguono: magistrati, investigatori e polizie trovano, nella loro azione, una miriade di ostacoli. I muri della giurisdizione nazionale sono gli ultimi a voler cadere, per cui, per un reato come la tratta, non esiste una visione unitaria né una definizione univoca tra i diversi paesi coinvolti. Le soluzioni sono note, ma di lenta e faticosa applicazione, e consistono, secondo Borgna, nell’intensificare la cooperazione di polizia, lo scambio di informazione, la condivisione di database. Un accordo del febbraio del 2002 tra Romania e Interpol, che prevede contatti diretti tra giudici, attività di formazione comune e team investigativi congiunti rappresenta un passo nella direzione giusta, così come l’estensione delle principali convenzioni sul crimine ai paesi della regione.
Un’altra iniziativa rilevante, benché poco nota, è il Regional Centre against Trans-National Crime della South Easteuropean Cooperation Iniziative (SECI), istituito a Bucarest su proposta romena, dove i funzionari di polizia e della polizia di frontiera dei paesi della regione lavorano assieme, all’interno di task force specifiche, che si occupano di tratta, traffico di stupefacenti, frodi, traffico d’armi e terrorismo. Il centro, rappresentato alla conferenza da Snejana Nenova, ha anche prodotto una proposta di risoluzione regionale sulla protezione dei testimoni. Le conclusioni del convegno hanno ribadito che il problema della criminalità organizzata nei Balcani è intimamente legato con i processi di formazione e dissoluzione degli stati nella regione. Francesco Strazzari, in particolare, ha problematizzato la lettura del crimine come fattore di destabilizzazione sociale, introducendo i concetti di clientelismo e di pax mafiosa per suggerire come una forte presenza della criminalità organizzata possa essere funzionale al mantenimento dell’ordine sociale e della stabilità politica. Ciò a cui l’ordine criminale realmente si oppone sono le ipotesi di cambiamento sociale e di pratica universalistica della cittadinanza.
Infine, la giornata si è chiusa parlando di Europa, come risposta politica al problema della criminalità organizzata e come possibile spazio in cui ridefinire i vincoli di cittadinanza allentati e minati dalla morsa del crimine organizzato sulle realtà locali. Le iniziative specifiche del Patto di stabilità o della Iniziativa dell’Europa sud orientale andrebbero, secondo gli auspici della conferenza, affiancati da una forte volontà politica da parte dell’Unione di garantire il futuro europeo della regione, permettendo di affrontare il problema del crimine in una cornice più ampia e in un’ottica di sviluppo complessivo. Il ripensamento degli strumenti istituzionali dell’Unione europea nell’area (a questo proposito vedi il rapporto dell’European Stability Initiative Western Balkans 2004. Assistance, Cohesion and the new Boundaries of Europe, 3 November 2002) in vista dell’ancoraggio dei Balcani occidentali a una prospettiva di adesione all’UE più salda permetterebbero un allargamento dello spazio politico dei singoli paesi e una capacità di intervento sulle problematiche sociali al loro interno che, assieme a una diversa concezione dei confini e gestione del regime di frontiera, costituirebbero le misure più efficaci contro la criminalità organizzata nella regione.

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