I danni ambientali nei Balcani

Il discorso di Pekka Haavisto a Padova, al convegno nell’ambito di Civitas 2001. Pubblichiamo il testo tradotto in italiano

01/05/2002, Giuseppe Lauricella -

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War is hell (Martin Gollman - Flickr)

Introduzione

Che la guerra sia pericolosa non è una grossa rivelazione, ma la guerra moderna ha creato pericoli moderni, mai contemplati prima dalla storia. Dagli Zeppelin e dai biplani della Prima Guerra Mondiale ai missili Cruise e alle bombe a guida laser di oggi, il raggio d’azione della guerra è aumentato. Nelle modalità moderne di conflitto, gli obiettivi quali il sistema economico del nemico, le sue industrie, i trasporti pubblici e le reti di comunicazione sono tutti ritenuti validi. La guerra non è più limitata al campo di battaglia: le armi, gli obiettivi e le tattiche moderne hanno esteso la guerra a tutto l’ambiente.
Il mondo intero ha riconosciuto la nuova portata della guerra: nei congressi internazionali vengono vietate le armi che modificano l’ambiente come parte della tattica di guerra (causando inondazioni, terremoti, cambiamenti climatici, ecc.). In secondo luogo l’accuratezza della guerra moderna carica i soldati di nuove responsabilità rispetto al passato: ora per esempio, le cisterne che contengono prodotti chimici possono essere individuate mentre lasciano il magazzino e se contengono sostanze pericolose per l’ambiente. Per concludere, la guerra ha sempre avuto ripercussioni sulla salute delle popolazioni locali, ma, coi rischi attuali di inquinamento chimico, questo deve diventare un argomento che risvegli la profonda responsabilità morale delle parti in guerra.

Il danno ambientale provocato dalla guerra può manifestarsi in più modi: il primo accidentale – come i bombardamenti a fabbriche o raffinerie considerate vitali per il nemico, ma gli effetti dei quali sono dannosi per l’ambiente, o perfino solo lo spostamento di truppe di grandi dimensioni, di veicoli e accampamenti, che avranno ripercussioni dirette sull’ambiente. Il secondo tipo di danno ambientale può essere intenzionale: durante la Guerra del Golfo fu scaricato del petrolio nel Golfo Persico, con l’intenzione di aumentare il costo della guerra per il nemico sfruttando il t[]ismo ambientale. Una terza fonte di danno ambientale provocato dalla guerra è causata dagli esodi di massa di popolazione civile: i profughi sono costretti a spostarsi in cerca di assistenza verso accampamenti privi di infrastrutture. Ciò avrà un impatto diretto sull’ambiente, partendo dalla deforestazione fino ai problemi di gestione delle risorse idriche. In ognuno dei casi descritti, tali interventi avranno ripercussioni a breve e a lungo termine, sia sull’ambiente sia sulle persone che vi abitano.
 

La guerra e l’ambiente: il conflitto in Kossovo

Il conflitto della primavera 1999 è stato visto da molti come una crisi umanitaria. L’ONU ha da tempo un ruolo fondamentale nella risoluzione delle crisi umanitarie, ma l’attenzione si è contemporaneamente concentrata su un tipo di crisi correlata a quella umanitaria, se pur differente. Quella dell’effetto delle guerre sull’ambiente. Su questo argomento ha preso la parola l’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente), dando inizio a quello che è diventato il primo vero organo di "Valutazione Ambientale Post-Conflitto" a livello mondiale.

La campagna condotta in Kossovo ha visto reciproche accuse di t[]ismo ambientale avanzate da entrambe le parti coinvolte. E’ stato forse il primo conflitto a sollevare denunce di violazione dell’ambiente in modo così sentito. Dopo gli attacchi aerei delle forze NATO contro gli insediamenti industriali jugoslavi, la parte colpita richiamò l’attenzione sui pericoli legati ai rischi di inquinamento, anche oltre confine, dell’aria e delle acque (nel caso specifico, del Danubio). Ma la NATO sostenne che le procedure di scelta degli obiettivi da colpire tenevano conto delle ripercussioni ambientali e che quindi sarebbero state fatte con scrupolosa accuratezza.

Questi fatti hanno dato maggior impulso alle valutazioni ambientali successive al conflitto, per cui solo un esame imparziale a livello internazionale avrebbe potuto giudicare la validità delle varie rivendicazioni di diritti, e quindi valutare i pericoli che le popolazioni locali si trovavano a dover affrontare.
Il lavoro dell’Unità Operativa nei Balcani è partito nel 1999, sotto la guida del Dottor Klaus Toepfer, Direttore Esecutivo dell’UNEP. Il progetto è stato finanziato dai governi di Austria, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Regno Unito. Ma anche i governi di Russia e Slovacchia e varie ONG come Greenpeace, il WWF, l’IUCN (Unione per la Conservazione del Mondo) , la Croce Verde Internazionale e il Centro Mondiale per il Monitoraggio e la Conservazione hanno dato un sostegno simile.
I danni causati dalla guerra all’ambiente possono dipendere dagli obiettivi distrutti o dal tipo di armi utilizzate. I testi pubblicati dall’UNEP si possono suddividere utilizzando lo stesso criterio.

Il primo rapporto pubblicato è stato "Il conflitto in Kossovo: ripercussioni sull’ambiente e gli insediamenti umani", concluso nell’ottobre 1999. Si tratta di uno studio che riguarda soprattutto i danni causati all’ambiente dopo che obiettivi militari, come stabilimenti industriali e altre infrastrutture sul territorio della Repubblica Federale di Jugoslavia, erano stati colpiti. Nel suo complesso lo studio prende in considerazione varie missioni, una delle quali ha analizzato la situazione ambientale nelle zone vicine a stabilimenti industriali. In questa occasione sono stati testati in particolare gli effetti sulle coltivazioni adiacenti le zone colpite. Un’altra spedizione si è concentrata sugli effetti della guerra nella zona del Danubio, vista la preoccupazione suscitata dalle possibili conseguenze dell’inquinamento di un fiume così importante per l’equilibrio dell’ecosistema. Un terzo studio ha considerato invece gli effetti della guerra sulla biodiversità, ed è stato condotto soprattutto in diversi parchi nazionali e altre zone ritenute importanti oasi regionali di biodiversità. La quarta spedizione ha considerato l’impatto della guerra sugli insediamenti umani, mentre nell’ultima si è condotta una prima ricerca sugli effetti dell’uranio impoverito.

Nel marzo 2001 l’UNEP ha infatti pubblicato "Uranio impoverito in Kossovo: valutazione ambientale dopo il conflitto". Si tratta di un’analisi dei rischi ambientali legati all’utilizzo di armi durante il conflitto, più che dei loro effetti sugli obiettivi militari.
Danni ambientali post-bellici nella Repubblica Federale di Jugoslavia

La missione nella RFY ha rivelato quattro "punti caldi" a livello ambientale: Pancevo, Kragujevac, Novi Sad e Bor, tutte situate in Serbia. Solamente a Pancevo sono stati scaricati 60 prodotti chimici differenti, per l’esattezza nel canale che attraversa la città. Il suo inquinamento non è stato causato solo dalla guerra; le stime fanno oscillare le percentuali di inquinamento preesistente oscillante fra il 60 e l’80%. L’UNEP sta ora svolgendo operazioni di bonifica a Pancevo e Novi Sad, un’altra città dove esistevano già gravi problemi di inquinamento prima della guerra.

L’UNEP ha inoltre prodotto studi ambientali riguardanti l’Albania e la Macedonia, paesi indirettamente coinvolti nel conflitto in Kossovo. Il lavoro si è concentrato soprattutto sull’inquinamento dovuto a stabilimenti industriali non connessi con il conflitto, anche se dal rapporto è risultato che l’impatto ambientale dovuto agli spostamenti dei rifugiati sia stato un risultato della guerra in Kossovo. Mentre la questione dei rifugiati è stata considerata innanzitutto un problema umanitario, l’UNEP ha dimostrato come le strategie militari che costringono la popolazione civile ad abbandonare le proprie case abbia implicazioni ambientali.

In aggiunta a queste osservazioni, anche la distruzione sistematica di abitazioni avvenuta in Kossovo ha avuto conseguenze sull’ambiente. Per quanto riguarda il rapporto originale, che si intitola "Il conflitto in Kossovo: conseguenze sull’ambiente e sugli insediamenti umani", l’UNEP ha collaborato con l’ UNCHS (UNHABITAT). L’UNCHS stima che il numero di abitazioni danneggiate durante il conflitto ha raggiunto le 120.000 unità, e che 40.000 non hanno alcuna possibilità di essere ricostruite. I rifugiati sono ritornati nelle città più grandi – a Pristina ad esempio hanno raddoppiato la popolazione originaria – con tutti i problemi che ne conseguono, come ad esempio la gestione delle risorse idriche e dello smaltimento dei rifiuti.

La questione dell’uranio impoverito

I possibili utilizzi dell’uranio impoverito erano noti all’esercito americano fin dal 1940. E’ stato utilizzato per la prima volta durante la Guerra del Golfo del 1991, dalle forze militari britanniche e statunitensi. L’uranio impoverito viene ricavato dagli scarti dell’uranio arricchito o come combustibile nelle centrali nucleari, o ancora nella produzione di armi nucleari. E’ meno radioattivo dell’uranio naturale, che presenta l’isotopo U-235 in una percentuale isotopica dello 0.7%, mentre l’uranio impoverito ne contiene lo 0.2%, da qui il termine "impoverito" e quindi meno radioattivo.

Viene usato per scopi militari perché grazie alla sua densità fornisce ai proiettili all’uranio impoverito un’alta capacità di penetrazione: quando vengono a contatto con una superficie rigida, come la corazza di un carro armato, hanno la capacità di "auto-affilarsi". E cioè, invece di distruggersi al momento dell’impatto, il proiettile diventa più affilato mentre attraversa la corazza. L’uranio impoverito non è esplosivo, ma la polvere scaturita dall’impatto prende fuoco alle alte temperature prodotte, rendendo il proiettile ancora più efficace. Trattandosi di un materiale di scarto, l’uranio impoverito risulta inoltre relativamente economico.Un ufficiale del Dipartimento della Difesa Americano sembra aver confermato che il 3 maggio 1999 aerei militari A-10 fecero uso di munizioni all’uranio impoverito. Ciò non è stato seguito da altre dichiarazioni ufficiali che confermassero o negassero il suo utilizzo come contrappeso sui missili Cruise, armi fondamentali per gli attacchi della NATO.

Durante l’estate del 1999, l’UNEP costituì un team di valutazione con l’intenzione di analizzare proprio l’argomento uranio impoverito. In diversi siti bombardati durante il conflitto in Kossovo furono fatte misurazioni preliminari sul tasso di radioattività, ma non risultò nulla di sospetto. Il Team di Valutazione concluse che non era necessario condurre ulteriori ricerche, e che comunque esse non sarebbero state possibili senza ottenere maggiori informazioni da parte della NATO.

Nell’ottobre 1999 il Segretario Generale delle Nazioni Unite – Kofi Annan – inviò una richiesta formale al Segretario Generale della NATO, Lord Robertson. Nel febbraio del 2000 venne confermato l’utilizzo di uranio impoverito e dalla NATO giunsero informazioni più precise sul quantitativo di proiettili utilizzati e sulle zone da essi colpite. Questo non fu però considerato sufficiente per garantire una ricerca scientifica su larga scala, quindi Kofi Annan inviò una seconda richiesta. Nel giugno 2000 la NATO fornì alle Nazioni Unite una mappa con le coordinate dei 112 attacchi in cui fu utilizzato l’uranio impoverito: risultava anche un resoconto quantitativo delle scariche per ogni missione. Un incontro tenutosi a Ginevra nel settembre 2000 diede l’avvio alla "missione uranio impoverito", a cui parteciparono agenzie delle Nazioni Unite e rappresentanti della NATO. La missione fu organizzata in breve tempo e partì per il Kossovo il 5 novembre.

Il team visitò 11 siti colpiti da armi all’uranio impoverito, e raccolse 355 campioni destinati ad analisi scientifica: includevano 249 campioni di terra e cemento, 46 di acqua, 36 botanici (erba, licheni, funghi, ecc.), 3 campioni di latte, 13 strisci, 3 "punte" ( la parte di munizione all’uranio impoverito costituita esclusivamente da tale sostanza) e 4 "jacket" (un’altra parte della munizione all’uranio impoverito che aiuta la punta a seguire una traiettoria rettilinea).
Il rapporto ha concluso che non è avvenuta alcuna contaminazione diffusa, tossica o radioattiva, dovuta all’uso di armi all’uranio impoverito. Questa scoperta è stata molto importante sia per le popolazioni locali che per i soldati al servizio della KFOR. L’UNEP riportò l’esistenza di una contaminazione superficiale del terreno, limitata a pochi metri attorno alle zone di ritrovamento delle punte di proiettile, o ai squarci d’impatto da esse provocate. L’UNEP poteva così dichiarare sicuri i villaggi situati in vicinanza delle zone di utilizzo dell’uranio impoverito, come pure le zone agricole circostanti. Il più alto rischio deriva invece dall’ingestione di terra contaminata, come ad esempio per i bambini che mettono in bocca le mani sporche dopo aver giocato all’aperto. Ma se anche questo è accaduto, l’ingestione di così minime quantità rende il rischio radiologico irrilevante. Invece dal punto di vista tossicologico, la possibile assunzione di tali sostanze è da considerarsi in qualche modo superiore alla quantità limite consentita. Infine, i campioni d’acqua non sono risultati contaminati.

Verificato il basso numero di punte ritrovate nei siti presi in esame, rispetto a quelli sparati, si può affermare con sicurezza che un’alta percentuale di questi è rimasta sotterrata. Non si conoscono gli effetti che tali punte potranno manifestare in futuro, ma si suppone che si corroderanno e, dove la loro quantità sarà concentrata, la quantità di uranio filtrata nell’acqua salirà oltre il limite per l’acqua potabile definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Il rapporto riporta anche raccomandazioni relative agli interventi futuri riguardanti l’uranio impoverito. Ad esempio, sarà necessario visitare tutti i siti dove è stato utilizzato, e tutti dovranno essere analizzati per verificare la presenza di contaminazione del suolo. Si dovrà asportare le punte o i "jackets" rimasti sulla superficie del terreno e successivamente etichettarli come pericolosi. Dove possibile, bisognerà procedere alla decontaminazione e la qualità dell’acqua andrà monitorata nel lungo termine, per assicurarsi che l’uranio impoverito non possa contaminare le riserve idriche delle aree colpite.
Dopo aver smentito molte affermazioni sulla pericolosità dell’uranio impoverito, il rapporto conferma che restano dei dubbi su questa sostanza. Lo studio condotto dall’UNEP è stato il primo ad analizzare in modo scientifico il comportamento dell’uranio impoverito lontano dalle aree ambientali controllate in cui avvengono i test di tiro. Una delle raccomandazioni che si legge nel rapporto prevede che l’UNEP conduca una missione simile anche in Bosnia-Erzegovina, dove l’uranio impoverito fu utilizzato in quantità minori oltre 5 anni fa, quando la NATO attaccò le posizioni serbo-bosniache. Ciò fornirebbe un’interessante casistica riguardo agli effetti dell’uranio impoverito sulle risorse idriche nel medio termine.

Conclusioni

Non potrà mai esistere una guerra pulita, ma la valutazione post-conflitto dimostra come i danni ambientali durante il conflitto possano essere drasticamente ridotti. La comunità internazionale deve far sì che i civili del luogo colpito non soffrano dei danni ambientali provocati dalla guerra. Analisi come quelle condotte dall’UNEP nei Balcani fungono da esempio per quelle future e vanno seguite da interventi di pulizia concreti ed efficaci.
E’ forse giunto il momento di riprendere in considerazione il bilancio costi-benefici degli attacchi agli insediamenti industriali, che come risultato portano senza dubbio all’inquinamento dell’aria e dell’acqua. I vantaggi a breve termine per i soldati è chiaro, ma una previsione di quelli a lungo termine richiede una lungimiranza decisamente superiore.

Per concludere, il degrado ambientale causato dalla guerra e dai conflitti in genere ci motiva ancora di più nella ricerca di un’alternativa pacifica al conflitto. Un’alternativa che guardi oltre le risoluzioni militari.

Traduzione a cura di Federica Filippi – Osservatorio sui Balcani

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