I confini dell’odio, un grande romanzo di guerra mitteleuropeo
Nel trentennale della guerra nella ex Jugoslavia, l’editore Gammarò ripropone il romanzo di Diego Zandel “I confini dell’odio” che uscì originariamente nel 2002 per i tipi dell’editore piemontese Aragno. Per l’occasione pubblichiamo l’introduzione alla nuova edizione del romanzo di Andrea Di Consoli
Di quel groviglio che sono i Balcani; o meglio: del riverbero italiano ai confini orientali di quel feroce guazzabuglio che, per dirla con Churchill, “produce più storia di quanta ne possa consumare”, Diego Zandel è, nella letteratura italiana a cavallo tra fine ‘900 e primi del secolo nuovo, uno degli scrittori più intensi e appassionati. Con I confini dell’odio, che fu pubblicato nel 2002 dalla casa editrice allora diretta dal compianto Raffaele Crovi, Zandel ha scritto il miglior romanzo italiano sulle guerre scoppiate nella ex Jugoslavia post-titina. E, probabilmente, poteva farlo soltanto lui, fedele com’è sempre stato alla sua condizione di figlio di esuli fiumani, vicenda che ha raccontato e sviscerato con lucida rabbia nell’arco dell’intera sua esistenza.
Le ultime guerre balcaniche degli anni ’90 – e si spera davvero che possano essere realmente le ultime – sono per Zandel l’occasione per provare a chiudere una “questione privata” che non è scorretto allargare alla definizione di “questione italiana”. Perché quelle guerre assurde – assurde perché aggrovigliate fino ai limiti dell’insensatezza – riguardano in parte anche l’Italia, non solo per la vicinanza geografica e per il famigerato intervento Nato nel quale fummo convintamente coinvolti, almeno a livello parlamentare, ma perché le ferite e le morti subite dopo la seconda guerra mondiale al confine orientale, benché a lungo rimosse, sono parte della nostra frastagliata identità nazionale. Quando infatti la guerra scoppiò furono tanti tra coloro che vissero la tragedia dell’esodo a sentire riaperta una ferita profonda, e ad avvertire un oscuro richiamo per popoli, terre e lingue che erano state abbandonate per non soccombere, ma che pure rimanevano in una parte recondita della coscienza come tasselli colorati, benché impolverati, di un antico mosaico identitario.
Di quella guerra Zandel, con il personaggio Bruno Lednaz, restituisce con crudo e sorvegliato realismo voci, corpi, odori, suoni, gesti; quasi voluttuosamente, si direbbe – come di chi sente di poter esorcizzare un dolore solo tornando nel luogo dov’è sorto. In quelle terre Lednaz ci torna per onorare una precisa richiesta del padre morente: di essere seppellito nella terra dalla quale la Storia lo costrinse a fuggire. Ma tornare significa per Lednaz sentire l’oscuro richiamo delle origini, al punto di trovarsi come risucchiato nelle dinamiche più feroci della guerra. Siamo, nel romanzo, alla fine del conflitto; ma siamo anche nel momento peggiore della “pace”, quando rancori, stanchezze e vendette si manifestano in un clima ubriaco, ai limiti dell’allucinazione. Nessuno ha chiesto a Lednaz di entrare in quel groviglio – lui è solo uno scrittore che vive a Roma e che è tornato in Croazia per seppellire il padre. Ma una forza tellurica lo fa vacillare, tanto che l’inconscio della Storia s’impossessa di lui. È evidente che Lednaz – uomo mite, colto, ormai distante da quell’ossessione etnica – provi orrore per la guerra – e della guerra, con orrore, vedrà gli aspetti più agghiaccianti: le torture, la paura, lo stupro, la vendetta, il crimine gratuito, ecc. Ma Lednaz, forse senza saperlo, non vuole altro che entrarci, perché lì è il suo brodo psicologico, lì l’eco della sua prima lingua perduta, lì il segreto di ogni vicenda privata. E dunque da un lato è solo uno scrittore italiano che è casualmente testimone di vicende vissute quasi inconsapevolmente; dall’altro è parte in causa in quella follia di odio e di rancore, anche se in maniera contrastata e delicata, perché nei confronti di quelle terre prova un misto di odio e di oscura attrazione identitaria e psicologica. A quest’altezza si compie l’aspetto più interessante del romanzo, ovvero questo partecipare allo stesso tempo da estraneo e da “appartenente” a una vicenda di guerra d’inaudita ferocia e intensità, d’una poesia mai sganciata da un umile vero, e da una rigorosa adesione ai fatti militari e geopolitici.
Zandel fa un’operazione di struggente intensità psicologica: affianca per qualche giorno, turbato e come stordito da una forza superiore, i fratelli che non ha mai avuto. Lui non è come loro, e tuttavia i legami sono profondi, e sono come segnati da un’oscura ragione di sangue. Lednaz vive fino in fondo tuti gli orrori di quella guerra, e ovviamente ne uscirà segnato e stravolto; ma in fondo è una guerra intima, e sprofondarvi così totalmente è come un esorcismo – come per un figlio di deportati tedeschi ebrei sentir parlare la lingua tedesca; lingua che fa sì sentire dolore, ma che è anche come una risposta: la risposta (il segreto) che solo il tuo carnefice conosce.
Svevianamente, Lednaz disubbidisce al padre e, al termine di questo viaggio negli inferi e tra i fantasmi della Storia, deciderà di riportare la bara in Italia. È un gesto simbolico forte, una disubbidienza clamorosa. Ma Lednaz decide al posto suo, e decide che la Storia non è ancora riuscita a sanare le antiche ferite, perché quella terra non è ancora casa per chi fu costretto a lasciarla nel peggiore dei modi nel secondo dopoguerra. Nonostante questo, però, Lednaz vivrà nella terra dell’odio istinti e sentimenti che probabilmente non pensava di poter provare: senza mai perdere la sua civiltà, egli ragiona da soldato, impara le leggi della difesa e della fuga, vive una fratellanza viscerale, riscopre un istinto sessuale feroce e si abbevera di paesaggi e parole aspre e dure che sono parte del suo inconscio famigliare. Da tutto questo non potrà che scappare, e finalmente raggiungere la libertà di là dall’Adriatico: ma da italiano particolare, per sempre compromesso con i grovigli dei Balcani.
Ci sono pagine di questo romanzo di potente icasticità; e si pensa a certe scene di paura, di fuga, di violenza, ma anche a certe pagine dedicate all’universo femminile slavo, che davvero commuovono per come sanno restituire durezza, bellezza e una disarmante destino di violenza e di tragedia. Troppo difficile in così poche righe spiegare quanto e perché le donne furono vittime in quelle guerre, ma quel mescolamento di sangue, di morte e di piacere criminale fu come un devastante incesto tra famiglie improvvisamente impazzite da un odio euforico e allucinato.
Con I confini dell’odio Diego Zandel ha scritto un romanzo “di trama” ma anche di profonda complessità psicologica e di puntuale realismo storico. Un “romanzo militare” per trama e “azione”, ma mitteleuropeo per spessore introspettivo e stilistico. Pure, un romanzo profondamente morale, segnato com’è da un lancinante suicidio per un tradimento paterno per corruzione. E forse, in ultima istanza, è proprio questo a depotenziare e in parte dissolvere gli ossessivi fantasmi storici e identitari di Lednaz: la presa d’atto che la Storia, anche la più oscura e crudele, alla fine non è mai figlia di un superiore mito primigenio, ma sempre e solo della feroce e avida miseria umana. Alla resa dei conti solo questo guarisce: la presa d’atto che il Male non esiste, perché a guardarlo bene negli occhi il Male è solo Miseria.