I cantastorie del popolo curdo
Rappresentano la memoria collettiva del popolo curdo. Sono i Dengbej e la loro tradizione è resistita ai tentativi di assimilazione dello stato turco. Un reportage
Una tradizione che attraversa i secoli, parole che riverberano contro le pareti delle montagne e fluiscono lungo le ampie valli della Mesopotamia: è la voce dei Dengbej (Deng = voce, Bej = che racconta), cantastorie che da tempi antichi preservano la storia, le leggende e la memoria collettiva del popolo curdo. In componimenti epici che possono durare anche diverse ore e con l’ausilio della sola voce, questi maestri trovatori conservano nella loro eccezionale memoria storie di battaglie, eroi, amori impossibili, ma anche i difficili rapporti tra curdi e stato turco, la lotta armata, fino alla cronaca recente della guerra siriana.
L’arte Dengbej
L’arte Dengbej consiste in lunghe narrazioni cantate, prive di accompagnamento musicale. Il Dengbej, spesso proveniente dalla tradizione della pastorizia, peregrinava per i villaggi e si esibiva per la popolazione in occasione di eventi pubblici come i matrimoni, durante i quali era assoldato dagli sposi per intrattenere gli ospiti. In quanto tradizione orale, i Dengbej non possedevano alcun riferimento per ricordare le decine e decine di racconti del repertorio e facevano affidamento unicamente sulla loro prodigiosa memoria. Ogni maestro Dengbej sceglieva poi uno o più giovani, giudicati degni, e nel corso di lunghi anni di apprendistato trasmetteva loro la propria conoscenza. È in questo modo che, generazione dopo generazione, uno sterminato patrimonio storico e culturale si è preservato nonostante l’assenza di libri e archivi.
Fin dalla fondazione della Repubblica Turca, la lingua curda è stata contrastata in ossequio al progetto di assimilazione che intendeva trasformare i curdi in “turchi di montagna”: bandite alcune lettere dell’alfabeto, cambiata la toponomastica dei luoghi, mutati i cognomi delle famiglie, proibito l’uso del curdo in pubblico e, ovviamente, proibito cantare. Per lunghi decenni, i Dengbej hanno dovuto quindi tacere, alcuni praticando in gran segreto lontano da orecchie indiscrete, e questo silenzio ha interrotto la catena di trasmissione della tradizione, con un danno alla memoria collettiva ancora in larga parte inesplorato e di cui, forse, non si conoscerà mai l’effettiva portata.
Alcuni momenti nella Casa dei Dengbej di Diyarbakir, città
del sud-est della Turchia
Ritorno in superficie
A partire dagli anni ’90, un lento disgelo nelle relazioni tra governo turco e comunità curda ha permesso alla lingua curda di ritornare alla legalità: sono ricomparsi cartelli stradali e insegne, radio e televisioni hanno cominciato a trasmettere in lingua, nelle scuole (ma solo private) il curdo è tornato ad essere insegnato. Per i trovatori curdi, questo ha rappresentato un momento di liberazione e l’inizio di una nuova vita, soprattutto con la fondazione in varie città delle “Case dei Dengbej”, istituti culturali sostenuti dalle amministrazioni locali ed altre organizzazioni. In questi luoghi, che spesso hanno anche avviato attività di registrazione e archivio del patrimonio musicale, i Dengbej sono tornati ad esibirsi in pubblico, ritrovando il proprio posto nella società.
Una di queste Case si trova a Van, città nell’estremo est del paese, ed è stata fondata da Apo Yusiv, che tra i Dengbej che animano questo luogo è sicuramente quello che gode di maggior prestigio.
“I curdi non hanno una tradizione storica scritta, i Dengbej sono i nostri libri di storia. Come popolo, abbiamo attraversato spesso periodi difficili, durante i quali i dominatori di turno, persiani, ottomani, turchi, hanno cercato di convincerci a dimenticare chi siamo. Ma un popolo senza cultura cessa di esistere e se oggi siamo qui è anche grazie ai Dengbej, che ci ricordano la nostra storia e la nostra identità. Il mio scopo, e quello dei Dengbej come me, è consegnare alla generazione futura ciò che noi abbiamo raccolto dai nostri antenati.”
L’oggi
Uno dei problemi di oggi è la mancanza di eredi. Le nuove generazioni, complice anche il cambiamento culturale, faticano ad avvicinarsi alla tradizione Dengbeji. Yusiv spiega il suo punto di vista: “La cultura curda è stata conservata pagando un prezzo alto, proseguire significa anche farsi carico delle difficoltà e delle sofferenze che questo prezzo comporta. Le nuove generazioni spesso sembrano non disposte ad assumersi questo compito, ma non è certo soltanto colpa loro. Per molti anni i giovani non hanno potuto ascoltarci, sono stati attirati verso forme d’arte meno impegnate e più semplici. L’assimilazione culturale, messa in atto in ogni periodo di dominazione, ambisce a distaccare la gente dalle proprie radici, dalla propria cultura, fino al momento in cui viene rifiutata o privata di ogni valore, tanto che si rinuncia a combattere per essa, a sopportare le sofferenze che essa richiede. Ora speriamo che, con la possibilità di esibirci nuovamente in pubblico, alcuni giovani ritrovino quella passione necessaria per caricare sulle proprie spalle un onore che comporta anche grandi sacrifici. E forse se un Dengbej guadagnasse quanto un musicista moderno, avremmo frotte di apprendisti”.
Ma cosa significa davvero essere un Dengbej lo possiamo sapere dalle parole di Mehmed Deriki, che invece frequenta la Casa dei Dengbej di Diyarbakir, altra città del sudest della Turchia: “Ho cominciato quando avevo 15 anni e per lungo tempo non ho fatto altro che ascoltare e imparare dal mio maestro. Apprendere i testi, le liriche e le tecniche di improvvisazione, che sono poi la firma di un Dengbej sulla sua opera, richiede un lungo lavoro di memorizzazione e perfezionamento. Nei miei anni migliori conoscevo oltre 120 canzoni, ora con la vecchiaia ho dimenticato molto. Essere un Dengbej è al contempo un dono di Dio, da cui riceviamo le qualità indispensabili della voce e della memoria, e una ferrea dedizione da parte nostra, uno sforzo che purtroppo oggi scoraggia molti giovani”.
Sempre a Van, un cantastorie considerato particolarmente erudito è Dengbej Bedir che ha una lunga storia familiare legata alla tradizione Dengbeji. “La tradizione cambia perché cambiano gli uomini. Scriviamo nuove canzoni ad esempio, come quelle legate all’assedio di Kobani in Siria. Niente è immune allo scorrere del tempo e così anche le nostre canzoni, le parole, l’intonazione, l’intensità, mutano nel passaggio da Dengbej a Dengbej. In questo senso, ogni performance è unica e inimitabile e l’artista diventa tutt’uno con la sua opera d’arte. Ma l’obiettivo finale è la trasmissione del sapere e questo si ottiene sono con la pratica, perfezionarsi fino a fissare l’Arte nel tempo e nello spazio, perché il cambiamento è necessario e inevitabile, ma cambiare troppo significa perdersi”.
Al femminile
Dunque due forze in contrasto, il cambiamento dettato dalla Storia e lo sforzo di conservazione dell’uomo. Una problematica non da poco anche per chi, oggi, cerca di salvare questo patrimonio attraverso le moderne tecniche di registrazione digitale, che ne consentono sì la salvaguardia, ma che snaturano anche il carattere estemporaneo tipico della trasmissione orale, con la sua perpetuazione da maestro a discepolo.
Quello del Dengbej non è un ruolo esclusivamente maschile e anche le donne hanno raccolto tra le proprie mani questa tradizione millenaria: un passaggio fondamentale nel percorso di emancipazione delle donne curde.
“Possiamo dire che ogni singola donna, in Kurdistan, sia un Dengbej” esordisce Apo Yusiv. “Sicuramente l’esistenza di donne Dengbej contribuisce a migliorare la qualità della narrazione storica, che è invece tradizionalmente maschile. L’arte Dengbeji raccoglie il proprio materiale compositivo non solo dai grandi fatti storici, ma anche dagli episodi della quotidianità, di cui le donne sono state spesso testimoni prive di voce, nella cultura patriarcale e maschilista che anche qui le relegava ad un silente ruolo di secondo piano".
Oggi molto è cambiato, grazie al movimento femminista, grazie ad alcune pioniere come Mariem Xan o Ayse San che seppero trovare il coraggio di dare l’esempio, grazie anche a Ocalan e al suo contributo teorico al movimento curdo, in cui la donna gioca un ruolo di primo piano.
Ma sono le parole della Dengbej Werdek ad avvicinarci di più all’intima connessione tra quest’arte antica e le donne: “Nei villaggi, erano le madri che conservavano la memoria collettiva del popolo. Nei tempi di guerra, e per i curdi questo significa molto tempo, gli uomini andavano a combattere e morire, mentre le donne restavano a casa, a badare alla famiglia, ai campi, e a soffrire. In silenzio, poiché esprimersi in pubblico, compreso cantare, era considerato sconveniente".
Poi continua: "La vita di una donna è sempre stata difficile. Non scegli colui che sarà il tuo compagno di vita: la prima volta che incontrerai un uomo sarà perché tuo padre ha scelto per te il marito. Vivrai con lui, dormirai al suo fianco, gli darai dei figli, baderai alla sua casa e ai suoi campi, gli preparerai il pasto, ma mangerai per ultima, e meno. Ad un certo punto il silenzio non permette più di sopportare, devi dirlo, devi fare uscire ciò che hai dentro, devi cantare tutta la tua sofferenza e difficoltà. Lo fai quando i figli dormono e il marito altrettanto oppure è lontano. Lo fai di notte, alle stelle, in segreto. Oppure canti ai bambini, quando sono piccoli e la tua voce li accompagna al sonno. Io credo che i nostri figli abbiano prima imparato da noi e poi siano diventati Dengbej”.
Resistenze
Sebbene stia lentamente tornando a galla, la tradizione Dengbeji incontra ancor oggi forti resistenze. “Quando ero giovane e cominciavo ad imparare, l’unico modo che avevamo per ascoltare i Dengbej era Radio Yerevan, che trasmetteva dall’Armenia”, racconta Mehmet Guli, Dengbej a Diyarbakir. “Oggi abbiamo alcune radio che trasmettono le nostre canzoni, una volta mi hanno persino chiamato al telefono per cantare in diretta. Tuttavia, anche se qui alla Casa dei Dengbej ci sentiamo liberi di cantare ciò che vogliamo, capita che alla radio alcune richieste degli ascoltatori vengano rifiutate, per non incorrere in problemi con la censura e le autorità”.
Apo Yusiv sembra alterarsi particolarmente quando poi accenna ad un altro problema, quello dei rapporti con la moderna industria musicale.
“Ci sono organizzazioni che hanno attinto a piene mani dalla nostra tradizione, chiedendoci di registrare per loro. Ora monopolizzano gli eventi pubblici, si rifiutano di sostenere noi Dengbej lasciandoci quegli spazi artistici di cui abbiamo bisogno. Ci hanno offerto soldi in compenso, ma non è con i soldi che quest’arte sopravviverà. Serve visibilità, per avvicinare il pubblico e farlo innamorare di nuovo. I festival, che possiamo considerare la forma moderna degli spettacoli nei villaggi, riuniscono le persone e le mettono in contatto con una tradizione che, per anni proibita, non hanno mai potuto conoscere ed esplorare. Solo così qualcuno potrà appassionarsi, imparare e consegnare l’eredità alle prossime generazioni”.