I ‘bambini rifugiati’, 60 anni dopo
A 60 anni dalla fine della guerra civile in Grecia, il governo di Skopje ha deciso di dare sostegno alle richieste dei "bambini rifugiati" macedoni, evacuati durante il conflitto e privati di cittadinanza e proprietà. Una questione irrisolta che si lega alla disputa sul nome
Ricorre quest’anno il sessantesimo anniversario dell’esodo dei "bambini rifugiati" della Macedonia egea (Grecia Settentrionale). In luglio quei "bambini", divenuti ormai anziani, provenienti da ogni parte del mondo, si sono radunati a Skopje per una commemorazione ufficiale.
La loro è una triste storia. Essi dovettero fuggire dalle loro case mentre infuriava la guerra civile e crebbero separati da genitori e fratelli. Divenuti adulti, non poterono fare ritorno alla nativa Grecia né reclamare le proprie terre. Quest’anno per la prima volta il governo macedone ha deciso di appoggiare le loro rivendicazioni.
Circa 25-30 mila bambini fuggirono in esilio dalla Grecia Settentrionale durante l’ultima fase della guerra civile che infuriò nel paese tra il 1945 ed il 1949. La maggior parte di essi, secondo gli storici macedoni, era di origine etnica macedone, mentre diverse migliaia erano greci. Essi furono evacuati dal Partito Comunista Greco (CPG), una delle fazioni in lotta, e vennero inviati nei paesi "democratici" del blocco comunista. Molti dei bambini restarono in Macedonia e nelle altre repubbliche dell’ex Jugoslavia. Altri andarono in Ungheria, Romania, Polonia e in altri paesi comunisti.
Le motivazioni dell’operazione erano di ordine essenzialmente umanitario: mettere i bambini al sicuro dalla guerra, e così facendo facilitare la mobilitazione dei loro genitori quali combattenti.
Alcuni storici, però, ne danno una lettura diversa – e cioè che in quell’operazione umanitaria ci fu una motivazione ulteriore, quella della pulizia etnica.
Dopo esser stati esiliati dalla Grecia, alcuni di questi bambini furono nuovamente riportati indietro nelle ultime fasi della guerra, come bambini-soldato. Furono sottratti ai loro dormitori dei paesi comunisti alleati, addestrati in campi nell’ex Jugoslavia e mandati al fronte. La Polonia fu il solo paese che non permise il reclutamento dei bambini da essa ospitati.
Una volta divenuti più grandi, molti dei bambini rifugiati presero la via dei paesi più aperti verso l’immigrazione: Stati Uniti, Canada e Australia.
Quando fuggirono gli fu detto che sarebbero ritornati dopo poco tempo, immediatamente dopo la vittoria. Ma le cose sono poi andate in maniera molto diversa.
Negli anni del dopoguerra fu loro revocata la cittadinanza greca, e le loro proprietà in Grecia furono confiscate. Per mezzo secolo non poterono rientrare in Grecia. Quelli che ci hanno provato sono stati respinti alla frontiera. Negli anni ’80 la Grecia approvò delle leggi che permettevano il ritorno solo di quelli che erano "di origine etnica greca". Diversi anni fa Atene fece un’ulteriore concessione, permettendo il rientro di coloro i cui passaporti non riportavano il toponimo macedone del loro villaggio natale.
In tutti questi anni i "bambini rifugiati" hanno chiesto il diritto di ritornare, insieme alla restituzione delle loro proprietà.
"Facciamo appello al governo greco, in nome della giustizia storica e dei diritti umani in quanto valore universale, di affrontare le inammissibili politiche del passato. Vogliamo esser liberi di ritornare nella nostra patria e vogliamo l’abolizione delle leggi discriminatorie che negano i nostri diritti", hanno dichiarato i rifugiati durante il loro meeting di luglio a Skopje.
Diverse migliaia di rifugiati, provenienti da tutto il mondo, si sono riuniti nella nuova sala "Boris Trajkovski", appena costruita. A dare il saluto inaugurale all’evento è stato il presidente del parlamento macedone, Trajko Veljanovski.
Questa è la prima volta che dal governo macedone viene dato un qualche sostegno ufficiale ai rifugiati. Contestualmente, il primo ministro Nikola Gruevski ha scritto sia al suo omologo greco, Konstantin Karamanlis, che al presidente della Commissione europea, Jose Manuel Barroso, chiedendo il riconoscimento finora negato della minoranza macedone in Grecia.
Sulla stampa macedone recentemente si è molto dibattuto sulla possibilità di un’azione legale per la restituzione delle proprietà dei rifugiati in Grecia.
L’Associazione dei bambini rifugiati della Macedonia egea ha recentemente presentato un ricorso presso la Corte europea per i diritti umani di Strasburgo. A parte questo, non si è a conoscenza di petizioni individuali per la restituzione delle proprietà. Alcuni articoli giornalistici riportano la cifra di circa 4mila ricorsi che, a quanto si sostiene, sarebbero stati già ricevuti da una iniziativa di coordinamento gestita da Skopje. Ma gli esperti avvertono che portare avanti una simile iniziativa attraverso i tribunali greci potrebbe rivelarsi una sfida. Alcuni suggeriscono di esplorare la possibilità di intraprendere azioni legali nelle corti di altri paesi. Gli esperti legali fanno inoltre notare che la disposizione della legge greca secondo cui solo a chi è "di origine greca" spetta la restituzione delle proprietà non è in accordo con gli standard internazionali.
"I principi di Norimberga adottati nel 1946 che sono ora legge in più di 80 Paesi", dice Sam Vaknin, noto economista, "non fanno distinzione in base all’etnia o all’ ‘origine’ dei rifugiati. Se le loro proprietà sono state requisite, non ha alcuna importanza che allora fossero censiti come bulgari, e neppure che avessero o meno la cittadinanza greca".
Vaknin, cittadino israeliano che vive a Skopje, fa un paragone con l’esperienza degli ebrei nell’ottenere un risarcimento per le sofferenze patite durante la Seconda guerra mondiale. Secondo Vaknin è importante che "la Macedonia diventi la madrepatria dei rifugiati concedendo la cittadinanza a quelli che non ne sono provvisti, per diventare il loro rappresentante legale". Vale a dire che il governo di Skopje dovrebbe intervenire direttamente ed occuparsi dei procedimenti legali.
Questo è un passo che tutti i governi macedoni, fin dall’indipendenza, hanno cercato di evitare. All’inizio degli anni ’90, sotto pressione greca, la Macedonia modificò la sua norma costituzionale che impegnava il paese a sostenere i propri connazionali presenti negli stati vicini. Con tutta la complessità della questione del nome e le ripetute proteste greche riguardo all’irredentismo macedone, è chiaro perché i successivi governi in Macedonia abbiano scelto di non lasciarsi coinvolgere. Sarebbe stata la strada per peggiorare definitivamente le relazioni con la Grecia.
Dopo la firma degli accordi ad interim del 1995, che hanno posto fine all’embargo greco, per i 13 anni successivi le relazioni tra i due paesi sono andate migliorando. Sono seguiti forti investimenti greci in Macedonia, e la questione del nome è stata "nascosta sotto il tappeto". Un modo perfetto per risolverla, pensarono alcuni. Almeno fino all’inizio di quest’anno e alla chiusura del summit della NATO di Bucarest, in cui la Grecia ha posto il veto sull’entrata della Macedonia proprio a causa dell’irrisolta questione del nome.
Per anni dopo la fuga e l’esilio furono fatti concreti tentativi per riunire i bambini rifugiati, sparsi per il mondo, con le loro famiglie. Qualcuno di questi tentativi ebbe successo, altri meno. In alcuni casi ci sono voluti decenni per fare rincontrare fratelli e sorelle.
Secondo lo storico Todor Cepreganov, direttore dell’Istituto di Storia nazionale di Skopje, i macedoni presenti all’epoca in Grecia furono manipolati da Tito e dalla leadership jugoslava. "Entrarono in guerra ingannati dalle promesse di ‘unificazione della Macedonia’ fatte dalla leadership jugoslava, che aveva messo gli occhi anche su Trieste e sull’Istria."
Cepreganov sostiene che Tito e Tempo (Svetozar Vukmanovic) promettevano ai macedoni l’"unificazione" in modo strumentale, solo come mezzo per realizzare la loro idea di dominio nei Balcani. In questo modo essi furono semplicemente manovrati per gli interessi globali di Stalin e per quelli regionali di Tito.