I bambini di Bjelave: un caso ancora aperto
Durante l’assedio 46 bambini dell’orfanotrofio di Sarajevo vennero accolti in Italia. Non tutti erano orfani e nonostante questo, non sono stati rimpatriati ma dati in adozione. Alcuni dei genitori biologici li hanno cercati per anni. Un’intervista all’attivista per i diritti umani Jagoda Savić, che dal 2000 si sta occupando del caso
Quest’intervista è parte di un’ampia inchiesta, presentata in un articolo pubblicato la scorsa settimana
Lei si è occupata di un caso che anni fa ha sollevato parecchia attenzione: quella dei bambini dell’orfanotrofio di Sarajevo che durante la guerra sono stati accolti in Italia, ma invece di tornare in Bosnia sono stati dati in adozione.
Dal punto di vista giuridico, a prima vista, tutto pare ben fatto e invece non lo è. Vale la pena ricordare tutta questa storia non perché si possa cambiare qualcosa, visto che le adozioni sono state portate a termine e non si può più far niente. Ma perché può fungere da utilissima lezione per i giuristi italiani sugli []i che sono stati fatti in una procedura di adozione internazionale che ha coinvolto bambini profughi, un paese in guerra e con un lungo e difficile periodo post-conflitto.
Come mai ha iniziato ad occuparsene?
Mi sono trovata coinvolta in questa storia nel 2000, quando Uzeir Kahvić padre di Sedina che faceva parte di quel gruppo di bambini, è venuto nell’ufficio della mia organizzazione non governativa "SOS – telefon" (Telefono azzurro) nella quale ci occupavamo di lotta alla violenza domestica ma anche di altri casi di bisogno legato a situazioni familiari difficili. Ci ha chiesto di aiutarlo a trovare la figlia dopo anni che ci provava, invano, da solo. Ho cominciato quindi a raccogliere informazioni e ho ricostruito la storia che inizia nel lontano 1992 e che si è rivelata molto complessa.
Che cosa è accaduto nel 1992?
Da Sarajevo, città già sotto assedio da tre mesi, il 18 luglio 1992 è partito un convoglio di 67 bambini tra i quali 46 tra orfani e minori con situazioni disagiate che stavano all’orfanotrofio "Ljubica Ivezić" [che nel 1997 ha cambiato nome in "Dječiji dom Bjelave" ndr]. La loro partenza era stata decisa per portarli in luoghi sicuri: la città veniva bombardata ogni giorno, mancavano luce, acqua e cibo. Il centro accoglieva anche neonati e bambini molto piccoli e non si riusciva ad assicurare loro minime condizioni di vita. Per cui sulla bontà del trasferimento in Italia non vi è alcun dubbio. Sono arrivati in autobus fino a Spalato sulla costa croata e poi via mare hanno raggiunto Ancona.
Dove sono stati portati e chi li ha presi in carico?
All’arrivo in Italia i bambini dell’orfanotrofio sono stati divisi in due gruppi: i 35 con età inferiore ai 10 anni di età sono stati portati al "Centro Mamma Rita" di Monza, mentre 11 sono finiti al centro estivo "Santa Maria" di Bellaria Igea Marina [in provincia di Rimini, ora si chiama "Casa vacanze San Giuseppe" ndr] gestiti dalle suore. I bambini sono poi rimasti qui degli anni invece che tornare dopo pochi mesi come si era pensato, a causa del prolungarsi della guerra in Bosnia.
Una delle questioni problematiche che è emersa durante le nostre ricerche è che tra le autorità bosniache e italiane non è stato siglato alcun documento che regolasse i termini dell’accoglienza, come ad esempio il tempo di permanenza in Italia, i doveri di chi prendeva in carico i minori e i diritti di questi ultimi. Per cui all’arrivo i bambini sono stati messi subito sotto la giurisdizione del Tribunale per i minorenni di Milano.
Perché alla fine della guerra i bambini non sono tornati a Sarajevo?
So che tra il 1995 e il 1996 si sono recati in Italia sia il rappresentante dell’organizzazione Prva "Dječija ambasada Međaši" (Prima Ambasciata dei bambini Međaši) Duško Tomić che aveva organizzato il convoglio, sia l’allora direttore dell’orfanotrofio di Sarajevo, Amir Zelić per avere informazioni sui bambini e chiederne il ritorno. Mi ha raccontato Amir Zelić che le autorità italiane avevano ritenuto che in Bosnia Erzegovina non ci fossero ancora le condizioni per farli rientrare.
In seguito sono stati dati in affido a famiglie italiane ed è stata avviata la procedura per l’adottabilità. A questo punto cosa è accaduto tra Italia e Bosnia?
Qui è cominciato il primo "scontro", se parliamo di prese di posizione e giochi di rimpallo delle responsabilità su quello che è successo poi, tra l’Italia e la Bosnia Erzegovina.
Secondo i documenti da me visionati, il 27 giugno del 1996 il Dipartimento della protezione sociale presso il Consiglio dei Ministri italiano, poi approvato dalla Commissione centrale per le adozioni internazionali e pubblicato l’8 luglio 1996, è stato deciso che tutti i bambini del gruppo bosniaco sarebbero stati sottoposti alla procedura di adottabilità presso la giurisdizione di competenza locale e cioè il Tribunale per i minorenni di Milano.
Intanto, in Bosnia Erzegovina il 24 aprile del 1996 il governo ha ratificato, su indicazione del Ministero per le politiche sociali, rifugiati e sfollati, il "Programma integrale per la tutela dei bambini profughi senza genitori dall’Italia alla BiH" che prevedeva il rientro dei minori entro il giugno successivo. Il testo del Programma è stato poi inoltrato, con lettera del Ministero degli affari esteri bosniaco al Consolato di Bosnia Erzegovina a Milano, il 25 aprile.
I due documenti emessi da Italia e Bosnia sono però innanzitutto opposti: lo stato bosniaco ha trattato il problema considerando il gruppo nel suo insieme, mentre le autorità italiane ha trattato i bambini caso per caso e così ha proseguito. Inoltre, allora non abbiamo ottenuto di poter accedere ai documenti protocollati dalle autorità italiane, perché eravamo troppo "piccoli" e deboli… Per cui non ho scoperto se il documento bosniaco è stato consegnato nei tempi richiesti alle autorità italiane, perché ci sono tre settimane di differenza tra la data in cui è stato redatto il documento bosniaco e la data in cui il Consiglio italiano ha preso la sua posizione.
Solo nel 2007 è emerso dal rapporto redatto dal Gruppo di esperti del Consiglio dei ministri della BiH, costituitosi nel 2005 per indagare su questo caso, che il Consolato bosniaco a Milano tra aprile e giugno 1996 non era stato in grado di tradurre il Programma.
A questo proposito c’è un punto che voglio sottolineare. Per parte italiana sono state eccessive le pretese nei confronti di un paese nascente, appena uscito dalla guerra, che ancora doveva impostare e creare un sistema funzionante di gestione dell’amministrazione pubblica. Un paese che non aveva i minimi presupposti per poter proseguire con le procedure richieste per legge al paese di origine di bambini sottoposti ad adozione internazionale.
L’Italia si è comportata con il nostro paese come se avesse a che fare con un qualsiasi altro stato europeo come la Francia o la Germania. Ha avviato procedure delicate senza invece controllare e monitorare che in Bosnia le procedure venissero eseguite a dovere. E’ stato il più grave []e per parte italiana, sebbene non l’unico.
Quali altri?
Prima di tutto, alcuni bambini sono stati dati in adozione senza che nel fascicolo giudiziario ci fosse il loro certificato di nascita. Questo significa che ad esempio, nel caso di due minori, Vedrana Hastor e Dejan Golijanin, la procedura di adottabilità è stata avviata dal Tribunale milanese con questi nomi ma all’anagrafe bosniaca sono iscritti con altri nomi.
Poi, c’è la questione della rogatoria internazionale, che è l’atto basilare della procedura di adozione internazionale, dove il genitore biologico deve rispondere se vuole riavere il proprio figlio o se vuole abbandonarlo e darlo in adozione. L’Italia ha mandato una prima una nota verbale e poi alcune successive con le quali ha sollecitato le autorità bosniache ad ottenere risposte. Ma le rogatorie – posso parlare per i casi su cui ho indagato – non sono mai arrivate ai genitori e le risposte di questi non sono ovviamente mai arrivate in Italia. Per cui dopo 5 anni di attesa, il Tribunale di Milano ha emesso le sentenze di adozione.
Questo "gioco" delle rogatorie rappresenta un altro punto importante: il Tribunale per i minorenni di Milano sulla spedizione delle rogatorie internazionali e le autorità bosniache per la parte relativa al ricevimento delle stesse. Questi due "giochi" hanno provocato un distacco ingiusto tra i genitori biologici e i loro figli, violando il diritto delle due parti di potersi esprimere in merito.
D’altronde sappiamo che per legge, in base alla Convenzione dell’Aja recepita dall’Italia nel 1998, sono previsti casi estremi in cui si può procedere all’adozione in assenza del consenso dei genitori.
Sì ma il fatto, non indifferente, è che alcune rogatorie contenevano degli []i. Posso parlare solo per i casi su cui sono riuscita ad ottenere informazioni certe e copie di documenti, sebbene dopo che per anni ci è stato impedito di accedervi.
Una delle rogatorie è stata spedita nel paese sbagliato: accanto al nome e alla città di residenza del genitore c’è scritta la sigla "Ex Yu", quando invece si tratta di una località (Loznica) che si trova in Serbia e non in Bosnia Erzegovina. Con quella sigla "Ex Yu", come sapete inesistente già da anni, la rogatoria è stata spedita in Bosnia – paese che all’epoca aveva tanti conflitti con la Serbia – e non è stata rispedita al mittente.
La seconda è stata spedita a una madre defunta da anni, oltre che al padre in vita. E questo nonostante sul fascicolo di questa bimba, nell’anamnesi sociale e familiare che viene allegata ad ogni procedura di adottabilità rilasciata dai servizi preposti, c’era scritto chiaramente che la madre si era suicidata subito dopo il parto. Parliamo del caso di Uzeir Kahvić ed è un dato di cui il giudice del tribunale milanese doveva essere a conoscenza.
La terza rogatoria è stata spedita a una persona inesistente e lo spiego meglio con nomi inventati: la madre si chiama Maria Ricci e il padre si chiama Alberto Della Costa. Il nome del genitore al quale è stata mandata la rogatoria è "Maria Alberto", quindi un destinatario composto da due nomi propri senza alcun cognome.
E le autorità bosniache?
Abbiamo indagato, per quanto è stato possibile, anche rispetto ai passi giuridici fatti o meno in Bosnia. Abbiamo trovato conferma che un gruppo di rogatorie sono state ricevute dal Ministero affari esteri bosniaco e da qui regolarmente spedite al Ministero per gli affari civili di BiH che in quel momento era competente per occuparsi del problema.
Per le restanti rogatorie non ci è stata fornita questa prova. Abbiamo chiesto anche al Dipartimento che si occupava di rifugiati, sfollati e quindi di adozioni che stava sotto al Ministero per gli affari civili di BiH. Ci hanno risposto ufficialmente e per iscritto che negli archivi la documentazione non esisteva. Quindi in quel momento non siamo riusciti a verificare se il Ministero affari civili bosniaco aveva o meno trasmesso ai livelli più bassi le rogatorie arrivate dall’Italia.
Ma non è finita qui. Ci siamo poi rivolti al livello amministrativo più basso, cioè al Ministero per gli affari sociali della Federazione di BiH, dunque di una delle due entità in cui è diviso il paese. Appellandoci alla legge sul libero accesso alle informazioni abbiamo chiesto di accedere all’archivio, ma dall’archivio ci hanno risposto – mentendo, come abbiamo scoperto dopo – che non avevano alcuna documentazione.
Non ci siamo dati per vinti e ci siamo rivolti all’ufficio del Ministro federale per gli affari sociali. Dopo anni, ci hanno rilasciato un documento incontrovertibile: vi è indicata la composizione della Commissione che controlla la consegna della documentazione, con tanto di nomi e firme dei membri, timbro e allegato l’elenco di tutti i file che erano stati depositati all’archivio. È da questo elenco che abbiamo scoperto che, la prima volta, all’archivio ci avevano mentito.
Quindi la complessità amministrativa del paese, frammentata e a più livelli, non ha facilitato una procedura regolare e ha reso molto difficile scoprire i fatti.
Non avendo potuto accedere agli archivi di tutti i livelli, non possiamo sapere se per parte bosniaca c’è stata premeditazione o se si è trattato solo di una situazione di caos dovuta al periodo di transizione del dopoguerra. A questo proposito, voglio ricordare che ci siamo rivolti anche a livello cantonale [la Federazione di Bosnia Erzegovina è divisa in 10 cantoni e questi in numerose municipalità ndr]. Ma purtroppo, dato che già al livello "superiore" – quello federale – non avevamo ottenuto alcuna informazione sul ricevimento delle rogatorie arrivate dall’Italia, non ci sono state fornite informazioni nemmeno dai Centri sociali per gli affari sociali dei Cantoni diversi in cui risiedevano i genitori.
Posso solo dire che tra i genitori con cui man mano sono entrata in contatto diretto, nessuno ha ricevuto la rogatoria eccetto in un caso, dove i genitori erano deceduti e la nonna del bimbo ha dichiarato di averla ricevuta.
Quanti bambini sono stati dati in adozione?
In base alle informazioni di cui dispongo sono 16. Perché alcuni, nel corso della procedura di adottabilità, hanno superato i 18 anni di età. Alcuni sono riusciti ad entrare in contatto con le famiglie di origine, altri non l’hanno voluto, altri ancora non sanno che le famiglie di origine li stanno cercando.
Il risultato, purtroppo, è che dei bambini bosniaci non hanno più fatto ritorno nel loro luogo d’origine e hanno perso contatti con la famiglia. È stato creato un distacco artificiale tra i genitori biologici e i figli, e questi ultimi si sono convinti che i genitori avessero deciso di abbandonarli.
Lo posso dire perché ho seguito diversi casi oltre a quello di Uzeir Kahvić e ne sto seguendo un altro di cui sono venuta a conoscenza nel 2015. Un padre che, com’è stato per Uzeir, da 22 anni sta cercando suo figlio arrivato in Italia con quel convoglio del 1992. Ma questa è un’altra lunga storia.
(Segue seconda parte)