I bambini di Bjelave: alla ricerca di Sedina

Continua la nostra inchiesta sul drammatico caso dei 46 bambini dell’orfanotrofio di Bjelave, a Sarajevo. La seconda parte di un’intervista all’attivista per i diritti umani Jagoda Savić, che dal 2000 si sta occupando del caso

21/09/2018, Nicole Corritore -

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Jagoda Savić - Foto Nicole Corritore (OBCT)

Quest’intervista è parte di un’ampia inchiesta, presentata in un articolo pubblicato il 6 settembre scorso

Da Sarajevo, già sotto assedio da tre mesi, il 18 luglio 1992 partì un convoglio di 67 bambini tra i quali 46 tra orfani e minori con situazioni disagiate che stavano all’orfanotrofio, per metterli temporaneamente in salvo. Alla fine della guerra però non sono più rientrati in Bosnia ma sono stati dati in adozione a famiglie italiane, nonostante alcuni di loro avessero i genitori biologici in vita. Grazie alle indagini intraprese da Jagoda Savić per assistere alcuni genitori biologici nella loro ricerca dei figli, è emersa una serie di vizi procedurali nel percorso di adozione internazionale, come racconta nella prima parte dell’intervista pubblicata il 12 settembre.

Come scrivevamo nel 2006, Uzeir Kahvić appena finita la guerra è andato all’orfanotrofio di Sarajevo per avere informazioni sulla figlia Sedina e ha saputo che era ancora in Italia. Dopo vani tentativi di rivederla e farla tornare, si è rivolto a te…

Quando nel 2000 si è rivolto alla mia associazione "Sos – telefon" (Telefono azzurro) ho cominciato a raccogliere informazioni su di lui e controllare la veridicità di ciò che mi aveva raccontato. Mi sono rivolta all’assistente sociale che all’epoca lavorava presso l’istituto "Ljubica Ivezić" [nel 1997 poi chiamato "Dječiji dom Bjelave " ndr]. Quando lei mi ha confermato l’identità del padre, mi ha raccontato i dettagli della difficile situazione familiare: madre defunta e padre obbligato a lasciare la figlia in istituto. Mi ha poi raccontato che Uzeir andava regolarmente a fare visita alla bambina ed era sempre molto affettuoso ed ho deciso di aiutarlo. È un punto molto importante, perché dimostra che lui se n’è preso sempre cura e non l’ha mai abbandonata.

Così, come hai descritto nel tuo articolo, tra il 2000 e il 2005 abbiamo cominciato una quantità immane di tentativi perché padre e figlia si incontrassero ma intanto il Tribunale per i minorenni di Milano ha emesso la sentenza di adozione.

Eppure nel 2004 la Commissione per i Diritti umani della Corte Costituzionale della Bosnia Erzegovina ha riconosciuto la violazione di una serie di diritti di Uzeir…

La sentenza diceva che lo stato bosniaco non aveva fatto tutto ciò che doveva per ottenere il ricongiungimento tra padre e figlia. Ha riconosciuto un risarcimento danni di 3000 KM (circa 1500 euro) e ha ordinato allo stato bosniaco di ottenere dalle autorità italiane tutti i documenti relativi al caso e assicurare l’incontro tra genitore e figlia entro 60 giorni. Ma l’incontro non è avvenuto.

Nel 2005 in Bosnia è stato anche formato un gruppo di esperti presso la Presidenza del Consiglio dei ministri che nell’arco di due anni è riuscito a ottenere delle informazioni dall’Italia dove si sono anche recati. Hanno visitato i due centri in cui i (non più) bambini erano stati accolti, hanno incontrato quelli che erano ormai maggiorenni e la vicepresidente del Tribunale per i minorenni di Milano, Laura Laera.

C’è da sottolineare però che nella loro relazione finale, presentata presso il Consiglio dei ministri bosniaco il 26 gennaio 2006, mancano due analisi cruciali: innanzitutto l’analisi delle violazioni delle leggi italiane in vigore nella conduzione delle procedure di adozione da parte del Tribunale per i minorenni di Milano; in secondo luogo l’analisi della modalità con cui i due stati hanno tentato di risolvere il contenzioso relativo al rimpatrio dei bambini.

Ci può spiegare meglio questo punto?

Ogni contenzioso si risolve attraverso note diplomatiche che esprimono la posizione del paese che contesta l’approccio dell’altro paese. E quindi tra la posizione italiana, che aveva deputato il Tribunale per i minorenni milanese a valutare ogni minore singolarmente, e la posizione bosniaca che attendeva il rientro dell’intero gruppo di bambini, si poteva trovare un compromesso. Ritengo fosse una situazione assolutamente risolvibile e sono convinta che con un po’ di sforzo e di buona volontà tra le parti si sarebbe raggiunta una soluzione a favore dei genitori biologici.

Ma questo scambio di note diplomatiche ufficiali tra Italia e Bosnia non è avvenuto. Soprattutto la parte bosniaca non ha mai chiesto ufficialmente allo stato italiano il rientro dei bambini, mentre la parte italiana non ha mai risposto ufficialmente che vieta il loro ritorno. Le procedure sono state demandate a un livello istituzionale inferiore, quindi del Tribunale di Milano, evitando in questo modo che diventasse una "questione tra stati".

Ma tornando al gruppo di esperti bosniaci di cui ha parlato prima: ha riscontrato altre criticità nella relazione presentata al Consiglio dei Ministri?

Il problema più grave è che nella relazione del Gruppo mancava la lettera del ministero degli Affari Esteri italiano che era stata inoltrata alla mia associazione e che avevamo regolarmente depositato presso l’ufficio di protocollo del ministero per i Diritti umani della Bosnia Erzegovina il 2 dicembre del 2005, cioè due mesi prima della seduta della Presidenza del Consiglio dei ministri dedicata al caso. Il timbro dell’ufficio di protocollo è prova innegabile che il nostro ministero per i Diritti umani aveva ricevuto la lettera della Farnesina.

La mia associazione "Bambini scomparsi" – da me fondata per seguire il caso – il 24 gennaio 2006, cioè due giorni prima della seduta del Consiglio, ha depositato la richiesta ufficiale a questo ministero affinché spiegasse come mai la lettera italiana non era stata inserita nel rapporto del Gruppo di esperti. Il giorno successivo, il suddetto ministero ha consegnato al Consiglio dei ministri il dossier sul caso di Uzeir Kahvić ricevuto da noi, contenente diversi documenti in italiano tradotti in bosniaco oltre alla lettera della Farnesina, senza che però quest’ultima fosse citata nella lista dei documenti indicati in apertura di dossier.

Grazie a un nostro ulteriore duro intervento, il documento della Farnesina è stato allegato alla relazione finale presentata al Consiglio dei ministri. Nella seduta del 26 gennaio però il relatore Amir Pilav – membro del Gruppo di esperti – non ha accennato in alcun modo all’esistenza del documento. È confermato dalla trascrizione ufficiale dell’incontro, che abbiamo ottenuto grazie alla legge sul diritto di accesso alle informazioni.

Per parte italiana devo però ricordare che l’Ufficio per le adozioni presso il ministero Affari esteri ha dichiarato, per iscritto e a noi, che erano state inoltrate alle autorità bosniache una serie di rogatorie internazionali [è l’atto basilare della procedura di adozione internazionale, con il quale si chiede al genitore biologico se vuole riavere il proprio figlio o se vuole darlo in adozione, ndr] in cui si chiedeva di inoltrarle ai genitori biologici, ma non citava alcuna informazione sulla mancata risposta di questi genitori al Tribunale per i minorenni di Milano.

Lo stato bosniaco si è più occupato della vicenda?

La questione si è di fatto conclusa con la valutazione ufficiale da parte della Presidenza della Bosnia Erzegovina, nella seduta del 16 maggio 2006 relativa al caso. Le dichiarazioni dell’allora ministro degli Esteri, come risulta dalla trascrizione della seduta, sono chiare: "Sinceramente, non capisco che cosa ci si aspetta da noi. Per questo motivo non ho potuto proporre alcuna conclusione. (…) Non so quale posizione potreste prendere. Penso si sia alzato un polverone mediatico e che in questo momento noi non si debba e non si possa più fare nulla."

Non so se queste dichiarazioni sono il frutto di una valutazione personale del caso che ha spinto il ministro a prendere le distanze, o se il suo Dipartimento degli Affari esteri gli aveva fornito delle informazioni errate oppure se si è semplicemente fidato di quello che gli aveva fornito il ministero per i Diritti umani della Bosnia Erzegovina. Il risultato è che lo stato bosniaco ha chiuso così la faccenda.

Lei ha proseguito comunque nelle sue ricerche?

Certo. Con Uzeir abbiamo deciso di dare procura a una legale italiana, Silvia Muto, che ha chiesto e ottenuto dal Tribunale per i Minorenni di Milano di accedere al dossier di Sedina. Ha richiesto poi l’autorizzazione all’incontro tra la bimba e il padre, ma il Tribunale lo ha negato appellandosi alla legge che prevede l’impossibilità per un genitore biologico di avere contatti con il figlio, a meno che non sia quest’ultimo a chiederlo e solo al compimento dei 25 anni di età.

Non mi sono sorpresa. Dal 2000, quando abbiamo cominciato a chiedere le prime informazioni, il presidente del Tribunale era Livia Pomodoro. Se diversi genitori cercavano i propri figli significava che qualcosa non quadrava, che la procedura internazionale di adozione non doveva essere stata compiuta secondo regolare prassi, o no? Eppure Livia Pomodoro non ha mai mostrato di voler affrontare il nocciolo del problema e cioè la violazione della legge che regolamenta le adozioni internazionali . Per esempio, sul fascicolo giudiziario di Sedina Kahvić c’è scritto che quando il tribunale milanese ha ricevuto la dichiarazione del padre Uzeir in cui esprimeva la volontà di far tornare la figlia a vivere con lui, l’assistente sociale del tribunale ha deciso di non informarne Sedina.

Per cui la procedura di adozione si è poi conclusa…

Sì. Nel 2005 abbiamo allora deciso di scrivere al Presidente della Repubblica Ciampi il quale, tramite il ministero degli Affari esteri italiano ha risposto in soli 4 giorni, il 10 novembre. Nonostante il suo importante interessamento non siamo riusciti a scoprire la verità. Lo abbiamo scoperto solo alcuni anni dopo, quando abbiamo saputo che Livia Pomodoro era andata in pensione, e abbiamo ritentato con il suo successore Mario Zevola.

Lui si è mostrato molto corretto e collaborativo nei confronti di tutti i genitori biologici. Ha risposto a tutte le domande che abbiamo posto e grazie ai documenti ricevuti da lui abbiamo capito il gioco delle rogatorie per parte italiana [si veda prima parte dell’intervista ndr]. Se c’è un lato positivo in tutta questa storia dei bambini, è stato il comportamento del Dr. Zevola che aprendo i fascicoli, rispettando ciò che prevede la legge italiana in merito di scambio di informazioni, ci ha dato la possibilità di accedere a una parte della verità che i genitori avevano tanto bisogno di conoscere.

Rispetto al caso di Sedina, negli anni abbiamo anche ricevuto altre informazioni. Ad esempio in una lettera della Farnesina del dicembre 2007 il ministro degli Esteri italiano si rivolge a Uzeir Kahvić dichiarando che il Tribunale per i minorenni di Milano aveva inviato una serie di documenti e richieste affinché i genitori biologici si esprimessero in merito, ma che non aveva mai ricevuto risposta dalle autorità bosniache.

Questa dichiarazione però contrasta con un fatto: nelle nostre ricerche abbiamo trovato la lettera accompagnatoria di una missiva inviata dal ministero degli Affari esteri della Bosnia Erzegovina alla Farnesina, datata 2 dicembre del 1998. Purtroppo, nel fascicolo che ci è stato mostrato mancava il documento allegato alla lettera, perciò non siamo riusciti a risalire al contenuto della missiva. Ma per lo meno abbiamo la dimostrazione che lo stato bosniaco non ha taciuto del tutto alle richieste italiane.

Dopo la lettera al Presidente Ciampi?

Uzeir Kahvić, Chi l'ha visto Rai3 19 novembre 2005

Uzeir Kahvić, Chi l’ha visto Rai3 19 novembre 2005

Ci siamo rivolti alla televisione e la trasmissione "Chi l’ha visto" della Rai del 19 novembre 2005 ha dedicato un lungo servizio al caso di Sedina. Questo è stato il punto di svolta. Sedina, mentre passava dalla cucina al salotto con la tv accesa, ha riconosciuto la voce del padre, che non sentiva dal 1996 quando lui era riuscito a parlarle una volta per telefono al Centro Mamma Rita, ed è rimasta molto sorpresa del fatto che il padre la stesse cercando. E così, finalmente siamo entrati in contatto e abbiamo scoperto che abitava in un paesino della Toscana.

L’incontro tra Sedina e Uzeir – che io ho accompagnato – è avvenuto alla stazione ferroviaria di Firenze. La prima cosa che Sedina ha detto è che le avevamo tolto un grandissimo peso dal cuore perché si è sentita sempre abbandonata dal padre.

Parlando tra di loro si sono chiarite anche altre cose. Uzeir, appena saputo che lei era in Italia, attraverso i servizi sociali di Sarajevo le aveva mandato una lettera con 20 marchi tedeschi e le loro foto. Lei gli aveva risposto, ma il padre non ha mai ricevuto la lettera. Così lui ha pensato che non potevano più comunicare, mentre lei si è convinta che il padre l’avesse abbandonata. Quando ci siamo incontrati piangevano tutti.

Nel 2008 Sedina è anche venuta in Bosnia e ha conosciuto, finalmente, anche altri membri della sua famiglia di origine.

Quanti genitori hanno cercato informazioni e quanti sono riusciti a trovarli?

Dei 16 bambini adottati tutti avevano almeno un genitore vivo. E se quel genitore era, ad esempio, in prigione, o se era accolto in una struttura per persone malate di mente o in qualsiasi altra struttura pubblica, comunque esistevano e non avevano perso la potestà genitoriale.

I genitori che per anni hanno cercato i propri figli tramite la nostra associazione sono otto. Alcuni di loro li hanno trovati grazie a noi, una madre ha trovato sua figlia attraverso Facebook, grazie a voi di Osservatorio l’anno scorso i familiari hanno trovato due ragazzi, fratelli, che sono stati adottati in due famiglie italiane diverse. C’è una madre biologica che vive in Austria e che ha cercato e trovato suo figlio, ma il figlio ha rifiutato di entrare in contatto con lei. Un’altra famiglia ha trovato il figlio ma essendo affidato a un Istituto italiano non gli è permesso avere contatti con la famiglia di origine.

Ma, purtroppo, c’è un genitore che sta cercando suo figlio ancora oggi. Il figlio si chiama Dejan Golijanin e quando è partito il 18 luglio del 1992 con il convoglio da Sarajevo aveva poco meno di cinque anni. Suo padre lo sta cercando disperatamente dal 1996, quindi appena finita la guerra.

 

Per approfondire

Leggi la presentazione dell’inchiesta "Bambini di Bjelave: la ricerca continua" e la prima parte dell’intervista a Jagoda Savić.

Leggi l’articolo pubblicato nel 2006 da OBCT "Italia-Bosnia: bambini in guerra" che racconta la ricerca della figlia da parte di Uzeir Kahvić tra il 2000 e il 2006.

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