I 24mila baci di Gezim
Condannato per la sua storia familiare, condannato per la grande passione per Adriano Celentano. La tragica vita di Gezim Peshkepia racconta molto degli anni del regime in Albania. Un contributo del progetto "Grande Padre"
"Non ho scelto, mai. Non ho avuto la possibilità di essere né contro né a favore del regime. Avevano già deciso per me, appena nato. Perché la storia della mia famiglia, anche se io avevo meno di 10 anni, segnava già il mio destino. Io e mia madre venimmo mandati al confino, a Berat, in campagna. Siamo rimasti là dal 1951 al 1955. Lei svolgeva dei lavori fisici nei campi, pesanti, durissimi per il suo fisico esile".
Gezim Peshkepia racconta, in un italiano fluente, la sua infanzia nell’Albania degli anni Cinquanta. Seduto in un caffè nella piazza del mercato Pazar i Ri, uno dei luoghi che raccontano la nuova Tirana, tirata a lucido e vagamente hipster, si guarda attorno. "Questo era il quartiere dove viveva la mia famiglia, era molto diverso allora", racconta, sistemandosi gli occhiali. Il prezzo che Gazim e la madre pagano non è quello di un loro debito diretto con la storia dell’Albania.
Il nonno di Gezim era il prefetto di Tirana nel 1940, che significa fascismo e poi nazismo. Il padre aveva un buon impiego da dirigente al Banco di Napoli della capitale dell’Albania occupata dagli italiani, ma era anche un poeta apprezzato, al punto che il noto albanista austriaco Maximilian Lambertz incluse alcune opere del padre di Gezim nella sua antologia sulla poesia albanese.
Il passato costò la vita al nonno e al padre di Gezim, a lui costò il futuro.
"I resti di mio padre li abbiamo trovati solo nel 1993, fucilato assieme ad altre 21 persone fuori Tirana, in riva al fiume, e sepolti là. Per me è stato come chiudere un cerchio".
Tra questi due momenti, però, tra il confino e il ritrovamento dei resti del padre, c’è una vita intera. Quella di Gazim e dell’Albania.
"Mio zio, che durante l’occupazione era considerato un anti-fascista, aveva ottenuto un ruolo importante nell’Albania comunista, era un brillante dermatologo, primario e docente universitario, che non aveva potuto salvare mio padre, troppo compromesso, ma che poteva farsi ascoltare. Riuscì per noi a ottenere un passaggio da ‘confinati’ a ‘urbanizzati’: ci trasferimmo a Kavajë, sempre sottoposti al controllo della Sigurimi (l’onnipresente Direzione della sicurezza di stato in Albania ndr), ovviamente lontani da Tirana, ma in condizioni migliori. E grazie a mio zio ho potuto studiare, diventare maestro. Ho insegnato fino al 1968, quando l’avvento della versione albanese della rivoluzione culturale cinese, ormai l’unico alleato dell’Albania, non mi attirò di nuovo le attenzioni della sicurezza di stato. Il mio dossier familiare diventò ingombrante, per la seconda volta nella mia vita. Venni rimosso, perché era inaccettabile che uno con la mia storia formasse le future generazioni. Ero disperato, amavo il mio lavoro. Nessuno mi dava un’occupazione, perché temevano che con il mio cognome ingombrante avrei portato problemi. E pensare che non avevo fatto nulla, ero sempre stato attento a tutto. Perché nessuno di quelli nati e cresciuti in una democrazia può capire fino in fondo cosa significhi vivere nel t[]e. La paura era sempre presente, sempre. Stavi attento a tutto, ma poteva non bastare".
Grazie, per l’ennesima volta, alla buona parola dello zio, Gezim riesce alla fine a trovare un lavoro. "Pensate all’ironia della sorte: dopo avermi fatto fare un corso di formazione, mi mandarono a dipingere sui muri delle fabbriche o di altri luoghi pubblici le scritte della propaganda con le frasi di Enver Hoxha. L’ho fatto per anni, fino al mio arresto. Ogni tanto, le sogno ancora la notte quelle scritte. Durante il processo, nel quale mi accusavano di agitazione e propaganda anti–comunista, mi sono difeso dicendo che la propaganda l’ho fatta, ma per il regime!", scherza Gezim, con un sorriso triste.
Con quali accuse è stato arrestato Gezim? "Mi hanno preso nel 1975, quello è stato un biennio durissimo di repressione. E a quel punto, mio zio non c’era più a proteggere me e mia madre. L’accusa: agitazione e propaganda, come altri circa 2mila arresti in quel periodo. Il mio processo è stato a porte chiuse, era passato il tempo dei processi pubblici. L’accusa, di base, si basava sui miei gusti culturali. Le critiche verso di me erano quelle di possedere una copia del libro di poesie di Gjergj Fishta, prete poeta, esiliato dalla monarchia, ma comunque censurato dal regime, con una dedica autografa a mio padre. E ancora i nastri magnetici, che ascoltavo su un magnetofono. Dell’apparecchio, capendo che stava arrivando la tempesta, mi ero liberato di nascosto poco prima dell’arresto, ma i nastri non riuscì a farli sparire in tempo. Erano registrazioni di vita familiare, con mia madre che mi raccontava di mio padre, con me che parlano in tedesco per tenermi allenato nella lingua che avevo studiato da solo, e la musica. Ovviamente italiana. La cultura, la radio italiana, oltre a darci informazioni del mondo, come più tardi la televisione italiana, ha formato personalità e desideri di tutti i giovani in Albania. Amavo Domenico Modugno, un poeta, ma la mia grande passione era Adriano Celentano. Quei nastri son stati la mia condanna", racconta Gezim, che accenna Con 24 mila baci da consumato istrione.
“Venni portato alla prigione di Ballsh, con altri 400 detenuti. Un campo di lavoro, in condizioni terribili. Lavoravamo dieci ore al giorno, poi altre due stesi in branda ad ascoltare i discorsi di Enver Hoxha dagli altoparlanti. Son rimasto là per sette, lunghi anni. Pensavo di impazzire, a volte, ma ci facevamo coraggio con gli altri detenuti. Nel 1983 beneficiai di un’amnistia e venni mandato a fare il saldatore in una fabbrica. Mi risposai, perché con la mia precedente moglie avevo divorziato. Era stata costretta a farlo, per salvarsi, lo so, capitava a tanti. Io per quello l’ho perdonata, anzi, non ha neanche testimoniato contro di me, come facevano molti. Ma non le perdonai di aver abbandonato mia madre, che non aveva nessuno. No, questo alla sua paura non l’ho perdonato. Ero là, al lavoro, nel 1985, quando Enver Hoxha morì. Ricordo che arrivò il direttore e ci disse che il ‘grande padre’, il ‘compagno Hoxha’ era morto. I bimbi lo chiamavano lo ‘zio’, noi il compagno. Ricordo di essere rimasto immobile, di essermi assicurato di non avere alcuna reazione. Ci venne ordinato di costruire una doppia lamina d’acciaio, con del polistirolo nel mezzo. Solo dopo sapemmo che era parte della struttura per l’esposizione della salma del dittatore, un operaio si ferì tagliando il polistirolo. Guardò un paio di noi, sorrise, e disse ‘anche da morto vuole il nostro sangue’, ma nessuno gli rispose, facemmo tutti finta di non sentire e ci allontanammo".
La vita di Gezim, come quella di tutti gli albanesi, nell’estate del 1990, cambia per sempre. Il regime collassa, le persone tentano la fuga in ogni modo. Gezim è tra coloro che riescono a rifugiarsi nell’ambasciata tedesca. "È stata un’odissea", racconta, "una di quelle storie che, come diciamo in Albania, hanno bisogno di una lunga notte d’inverno per essere raccontate. Con la mia seconda moglie e i nostri due figli ci siamo precipitati davanti all’ambasciata tedesca, perché ho pensato che parlare tedesco mi avrebbe aiutato. Feci entrare mia moglie, poi il bimbo piccolo, infine io e il più grande. Ricordo i poliziotti e gli agenti della Sigurimi che non sapevano che fare, tentavano di fermare gli uomini, non toccavano le donne, erano smarriti. Ne ho affrontati due, che hanno tentato di fermarmi, gli ho urlato di lasciarci andare, perché per un piatto di zuppa non valeva la pena colpire fratelli e sorelle".
Una nuova vita sembrava ormai pronta per iniziare, ma i percorsi delle fughe e delle migrazioni non sono mai semplici, come un destino. "Ho chiesto a uno dei dipendenti dell’ambasciata tedesca se davvero ci avrebbero fatto passare. Lui mi ha detto che era sicuro. Era tedesco, non poteva non dire la verità", ride Gezim. "Ma il viaggio in nave verso Brindisi è stato infinito, il figlio piccolo stava malissimo, una dissenteria violenta. Siamo arrivati in porto, ero disperato, pareva morto. Lo hanno salvato e allora, solo allora, mi sono guardato attorno. Ero fuori dall’Albania. Ero salvo. La prima cosa che ho fatto? Appena ho potuto, ho comprato tutti i dischi di Celentano che mi ero perso durante la prigionia. Dopo un breve periodo in Italia, dove aiutavo come mediatore culturale parlando anche l’italiano, un passaggio in Svizzera, ho realizzato il mio sogno: la Germania. Ho scelto di stare là e ricordo ancora quando incontravo dissidenti dei tempi della Germania Est. Li rispettavo tantissimo, ma se pensavo a quello che ho passato in Albania, sentendo le loro di storie, in silenzio, pensavo che erano fortunati rispetto a noi".
La Germania, in fondo, era un destino. Da allora Gezim e la sua famiglia si dividono tra l’Albania e la provincia di Soest, dove Gezim ha lavorato come archivista per anni. Poi, nel 2010, mentre era in vacanza in Albania, il suo passato è tornato a bussare alla sua porta.
"Ero al mare, un amico mi ha chiesto se avessi visto cosa era successo in Parlamento, non sapevo nulla. Mi avevano eletto nel direttivo del centro sui crimini del regime, ma ancora oggi sono convinto che manchi la volontà, in questo paese, di chiudere i conti con il passato. Poco personale, pochi fondi, nonostante il mio impegno nel coinvolgere fondazioni tedesche e non solo. Ricordo una signora, veniva ogni giorno da noi. Chiedeva di suo padre. Mi ricordava la mia disperata ricerca di mio padre, volevo aiutarla. Riuscì a rintracciare i due membri del plotone di esecuzione che avevano ucciso il padre della donna, ma per paura non volevano parlare. Ecco, non c’è nessuno strumento legale che imponga loro di farlo. Fino a quando non ci sarà, non si saprà la verità".
Due anni fa Gezim ha trovato anche il dossier su di lui. "È stato strano davvero ritrovarmelo tra le mani… Ho saputo chi mi ha denunciato, ma non lo conoscevo. Aveva riferito che ballavo il twist e il rock n’roll al mare, d’estate, nelle spiagge dei lavoratori. Lo faccio ancora, proprio qualche giorno fa ho furoreggiato all’ambasciata austriaca a Tirana", racconta Gezim divertito e brillante, con i suoi quasi 80 anni portati con forza ed energia. "Non mi ha ferito quello, lo sapevo. Non avrei mai immaginato, invece, che uno dei compagni di prigionia al quale ero più legato mi ha spiato per tutta la nostra detenzione. Era un ex ufficiale dell’esercito, alto in grado, finito nelle purghe dei militari degli anni Settanta. Io mi confidavo con lui, chiedevo notizie sulla zona, ma lui raccontava che volevo fuggire all’estero. Non lo avrei mai fatto: in Jugoslavia tenevano solo i comunisti, non quelli come me. E invece di aiutarli a fuggire li riconsegnavano all’Albania e per la fuga la pena era la morte. Come ha potuto farlo? Io e la mia famiglia siamo stati per anni legati a lui e alla sua bugia. Per anni dopo la prigionia. Quando ho scoperto quello che è accaduto, nonostante molti mi dicessero di denunciarlo pubblicamente, non ho ancora trovato il coraggio di farlo. Una volta, a una cena di reduci della prigionia, si è seduto accanto a me. Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia, mi ha chiesto cosa avessi, mi sono alzato e sono andato via. Senza dire una parola, ci siamo detti tutto. Ecco, quegli anni hanno fatto questo alle persone e per queste cose il passato non passa mai, non si chiude mai fino in fondo. Io non lo so se l’Albania di oggi è quella che sognavo mentre ero in carcere, ma so che è libera di fare i suoi []i. E va bene così".
Il progetto
Grande Padre è un longterm project nato dall’incontro tra gli sguardi sull’Albania del giornalista Christian Elia e della fotografa Camilla De Maffei. Entrambi impegnati da anni a raccontare un paese vicino e allo stesso tempo troppo lontano nell’immaginario degli italiani, Grande Padre nasce per riflettere su quanto resta degli anni del regime nei comportamenti, nella quotidianità, nella memoria degli albanesi. Nel dicembre del 1990, lentamente, iniziava la fine di un sistema che, dal 1945, aveva pervaso le vite di un popolo intero. Quanto di quei segni, di quegli strati resta ancora oggi nell’Albania che corre veloce – a volte freneticamente – verso un’idea di futuro in continua mutazione? Decine di interviste e reportage sono diventati una collana di fanzine fotografiche, con testo. Ogni fanzine racconta un tema, il primo è MEMORIA. Seguiranno LAVORO, FRONTIERA, CONTROLLO, SIMBOLI. Su OBC Transeuropa riprenderemo una selezione di questo lavoro.