Holbrooke, il negoziatore
Il diplomatico americano Richard Holbrooke è morto lunedì in un ospedale di Washington. Artefice degli accordi di Dayton, lascia in eredità all’Europa una regione pacificata ma non in pace
Il suo libro più famoso, To End a War (1998, Random House, New York, New York), in questi anni è sempre rimasto bene in evidenza sugli scaffali delle librerie di Sarajevo. La città gli voleva bene. Nel resto della Bosnia Erzegovina però, e della regione, la sua figura era controversa. Con animo diverso, tutti lo ricordano per lo stesso motivo: Dayton.
Richard Charles Albert Holbrooke, figlio di ebrei russo-tedeschi fuggiti al nazismo, era un newyorkese. Nato a Manhattan il 24 aprile del 1941, aveva rivestito alcune tra le più importanti funzioni della diplomazia USA. Assistente segretario di Stato in Europa e Asia, Ambasciatore in Germania e presso le Nazioni Unite, al momento della sua morte, avvenuta lunedì scorso a Washington, era rappresentante speciale del presidente Obama per l’Afghanistan e il Pakistan. Di fede democratica, fu molto vicino all’incarico di segretario di Stato nelle amministrazioni Clinton (dopo Christopher) e Obama. Al suo posto furono però scelte la Albright e Hillary Clinton.
Dal 1994 al 1996 fu assistente al segretario di Stato per gli Affari Europei e Canadesi. In questa veste, nel 1995, negoziò gli accordi di pace di Dayton. Quei negoziati sono ricordati come una manifestazione brillante di “diplomazia parallela”. Holbrooke aveva invitato Milošević, Tudjman e Izetbegović in una base aerea dell’Ohio. Negoziando separatamente con le diverse parti, riuscì a trovare un accordo che portò alla fine della guerra in Bosnia Erzegovina e alla definizione della costituzione del nuovo Stato. Gli accordi includono anche il cosiddetto Annesso 7, che garantisce il diritto a tutti i rifugiati e sfollati di ritornare nelle proprie case.
Alcuni anni dopo, nel marzo 1999, incontrò a Belgrado Slobodan Milošević come inviato speciale del presidente USA, per negoziare un accordo in extremis sul Kosovo, dopo il fallimento di Rambouillet. Questa volta senza risultati. Pochi giorni dopo iniziarono i bombardamenti della Nato. Il rude diplomatico, del resto, non escludeva l’uso della forza dal processo negoziale.
Secondo alcuni commentatori, per raggiungere i propri obiettivi aveva attraversato troppe volte la linea di separazione che andrebbe mantenuta con l’avversario. La notizia di un suo presunto accordo, nel 1996, con il presidente serbo bosniaco Radovan Karadžić è un tormentone che da anni ritorna, a ondate, nel dibattito pubblico e sui media dei Balcani. Holbrooke ha sempre respinto fermamente l’ipotesi di aver negoziato la impunità del leader serbo bosniaco (già imputato dal Tribunale dell’Aja) in cambio di una sua uscita di scena. I fatti però sembrano suggerire il contrario. Karadžić uscì di scena e non fu arrestato dagli americani ma dai serbi, nel 2008, travestito da guru new age su un autobus di Belgrado. L’ex leader dei serbi di Bosnia poi, dall’aula del tribunale dell’Aja, ha ripetuto fino allo sfinimento di aver fatto un accordo con Holbrooke. In attesa di un nuovo round di Wikileaks, ognuno sceglie a chi credere. Ai giudici dell’Aja la questione ormai non importa molto. E per quanto riguarda il giudizio sull’opera del diplomatico, si tratta solo di una parte.
Il giudizio sul lavoro di Holbrooke prescinde dal suo stile. Per i Balcani, oggi, resta strettamente collegato a quanto è avvenuto 15 anni fa a Dayton, al sollievo con cui l’Europa guardò a quegli accordi di pace e alle speranze che suscitarono. Quel trattato aveva due obiettivi: fermare la guerra, costruire le fondamenta di uno Stato funzionale. La prima parte ha avuto successo, la seconda no.