Hatay: la regione turca alle porte della Siria

In questi giorni in cui molti Paesi del mondo arabo e la Siria in particolare sono in tumulto – con prospettive future che restano e probabilmente resteranno a lungo assai incerte – val la pena di dare uno sguardo all’Hatay, regione poco nota che però costituisce un interessante ‘affaccio’ della Turchia sui suoi irrequieti ‘vicini’ mediorientali

24/05/2011, Fabrizio Polacco -

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Il fiume Oronte tra i monti dell'Hatay (foto di Fabrizio Polacco)

I delicati equilibri dell’Hatay

La Repubblica Turca comprende due territori geograficamente non appartenenti alla penisola anatolica. Uno è la Tracia orientale, la cosiddetta ‘Turchia europea’. L’altro è l’Hatay, una lingua di terra che costeggia verso sud il Mediterraneo incuneandosi nel Medio Oriente arabo; è confinante su due lati con la Siria e non dista più di 150 km. dai confini settentrionali del Libano.

La regione contiene due delle città più celebri della storia: quella che fu un tempo la capitale dell’antico regno ellenistico di Siria nonché sede di un patriarcato cristiano, Antiochia (oggi Antakya), e l’importante centro portuale di Iskenderun o Alessandretta, fondato da Alessandro Magno nella sua spedizione contro la Persia, una delle città che portano ancora il suo nome (Iskender è il nome in turco di Alessandro).

Per questa sua collocazione, la regione è da sempre ritenuta strategicamente importante. Paul de Veou, uno storico francese del secolo scorso, la definì ‘la saldatura tra il mondo turco e il mondo arabo’. Lo sguardo attento dei francesi non deve stupire, perché, fino al 1938, essa fece parte del ‘mandato’ su Siria e Libano affidato dopo la prima guerra mondiale alla Francia; solo a partire dall’anno successivo venne definitivamente assegnata, dopo un periodo di contestazioni e polemiche interne ed internazionali, alla Turchia di Kemal Atatürk.

La questione risultava controversa poiché in effetti, dal punto di vista geografico, la zona è traversata da un fiume per gran parte siriano, l’Oronte, che con percorso assai insolito proviene dalla valle della Bekaa in Libano, e da una imponente catena montuosa, quella degli Amanos, che comprende le ‘Porte della Siria’, un passo conosciuto con questo nome già dagli antichi greci e romani (le Pylae Syriae). Superato il passo, chi proviene dal Mediterrano si affaccia sulla piana dell’Oronte, e, pur rimanendo nell’odierno territorio turco, si trova già nella Siria classica.

Ho superato anche io quel passo all’inizio di primavera, con la sorpresa di poter subito spaziare con lo sguardo da nord a sud su gran parte della regione; e ho scorto in lontananza per la prima volta Antiochia, baluginante sotto i raggi del sole nella foschia del mezzodì, addossata sulle pendici del monte Silpio ed estesa a valle attorno al corso del celebre fiume.

Quella stessa sera, giunto nell’antica capitale, stringo amicizia con un giovane del luogo grazie al quale entro subito in contatto con un’altra fondamentale caratteristica dell’Hatay. Emre, così si chiama, mi racconta infatti di essere un alevita , di far parte cioè di quella che è la più cospicua minoranza religiosa presente oggi in Turchia, comprendente almeno 10 milioni di individui. Senz’altro non sunniti, ma neppure simili agli sciiti, questi seguaci di un culto che non contempla moschee, né cinque preghiere al giorno, né pellegrinaggio alla Mecca, sono considerati talvolta dal resto del mondo islamico come degli ‘eretici’, e non per nulla sono stati in grande maggioranza sostenitori della svolta laica impressa da Atatürk.

Una regione composita

Nell’Hatay tuttavia gli aleviti non sono gli unici a differenziarsi dalla maggioranza. Dal punto di vista religioso, così come da quello etnico e culturale, la regione è sempre stata assai composita. Al tempo dell’unificazione con la Turchia, ad esempio, oltre alle comunità maggiori di musulmani sunniti e aleviti, nelle città, nei villaggi o nelle campagne erano inestricabilmente mescolati armeni, greci e siriani, sia ortodossi che cattolici, e poi protestanti, maroniti, caldei, israeliti e, ovviamente ‘latini’: cioè noi. Camminando per le strade strette e tortuose della vecchia Antakya, e per quelle più larghe e ortogonali di Iskenderun, è quasi un gioco scoprire i luoghi di culto delle varie fedi ancora sparsi in mezzo alle case, molti dei quali ancora in buono stato e praticabili. Così, mentre nel piccolo centro di Belen, sul passo che conduce alle Porte di Siria, solo grazie all’aiuto di un locale ho raggiunto le arcate in rovina e circondate da sterpi di una chiesa armena, la ben più importante chiesa armena di Iskenderun è invece restaurata e attiva, così come la non lontana chiesa cattolica.

Ai tempi del loro mandato in Siria i francesi guardavano talvolta con sospetto alle presenze cristiane legata alla Santa Sede, come quella dei carmelitani, poiché erano preoccupati che le attività educative e missionarie, svolte in lingua italiana, nascondessero finalità propagandistiche tendenti ad assicurare simpatie al nostro Paese, allora in competizione con la Francia nell’area mediorientale e anatolica. Tale presenza di lunga data è ancora percepibile da queste parti, e mi è capitato di parlare nella nostra lingua con persone che l’avevano appresa frequentando le scuole confessionali locali.

Recentemente, l’assassinio del vicario apostolico dell’Anatolia ad Iskenderun, Mons. Padovese, da parte del suo autista turco, è stato una specie di fulmine a ciel sereno, ma ci ha richiamato alla mente in modo tragico una storia che, nonostante i numerosi mutamenti successivi, ancora ci lega a quest’angolo del Mediterraneo. Non pare tuttavia che dietro quell’insensato gesto vi fossero motivi politici né religiosi. Nel periodo che ho trascorso nell’Hatay ho sempre respirato un clima di grande apertura e tolleranza, sia nei rapporti tra le varie comunità locali, sia nell’atteggiamento verso gli occidentali o gli stranieri. Da molto tempo qui convivono diverse minoranze, e si respira una certa aria di libertà nei modi e negli atteggiamenti della popolazione; direi ad esempio che vi sono meno donne velate ad Iskenderun che nel cuore ‘europeo’ di Istanbul. Ciò è dovuto, penso, anche al ruolo di crocevia di scambi di ogni genere che la regione ha esercitato nei millenni. Al contrario che nel vicino Libano, dove è presente un mosaico etnico-religioso per certi versi paragonabile, qui non si è giunti a guerre civili, e anzi gli abitanti sembrano orgogliosi di questo carattere composito dell’Hatay.

L’altare di S.Pietro

E’ stato proprio il mio amico alevita a portarmi a visitare le chiese protestanti, cattoliche e ortodosse di Antiochia, tra cui quella, celeberrima, che si vuole fondata da San Pietro nel I secolo d.C. Vi arriviamo quasi all’orario di chiusura, ma, grazie alle buone parole del mio accompagnatore, i sorveglianti mi concedono un tempo adeguato per ammirarla. Il trono antico in pietra, dietro un altare che pare di fattura moderna, fu collocato laddove probabilmente anche il primo degli apostoli riunì, in una delle più antiche ‘assemblee’ (ekklesìai) di fedeli della storia, coloro che desideravano ascoltare la sua predicazione. Del resto Antiochia è il luogo in cui, come sostiene un passo degli Atti degli Apostoli, per la prima volta i seguaci di Gesù presero il nome di ‘cristiani’.

La roccia di Mosè e Hızır

Forse perché a me meno noto, ma ancor più interessante della prima chiesa della cristianità mi è parso entrare in un luogo di culto degli aleviti, uno ziyaret, un edificio bianco e circolare sovrastato da cupola che sorge sulla costa meridionale dell’Hatay, ormai al di fuori dal golfo di Alessandretta. Qui a Samandağ, non lontano dalla foce dell’Oronte, gli aleviti vengono a pregare e a compiere i tre giri rituali attorno al curioso edificio: esso contiene una grossa roccia naturale nei cui pressi, secondo la tradizione, si sarebbero incontrati due profeti, Mosè e Hızır. Una volta entrati nella sala, costituita da un largo corridoio circolare attorno al monolite, Emre poggia la fronte sul suo basamento e si raccoglie in qualcosa che è più simile a una meditazione che ad una preghiera. Assieme a noi, anche una donna col suo bambino è raccolta su un tappeto. Il culto alevitico ha aspetti quasi mistici, derivati da un sostrato religioso asiatico che è precedente all’Islam, e non è privo di influssi sciamanici, ed assegna un ruolo particolare anche al canto e alle danze. All’uscita riprendiamo l’auto e con quella compiamo anche noi, seguiti da altri veicoli, i tre giri rituali attorno al santuario.

Tra il dio Apollo e gli ‘stiliti’: storie e memorie dell’Oronte

Impressiona trovare, su un’altura che è ben visibile dall’edificio ‘rotante’ di Samandağ, i resti di un altro tempio, questa volta però pagano e classico, in stile dorico. Qui nei pressi sorgono infatti i resti della città ellenistica di Seleucia Pieria, che ricoprì il ruolo di capitale del regno di Siria prima della fondazione, avvenuta nel 300 a.C., di Antiochia. Dal suo lungomare, ove sorgeva l’antico porto da cui si poteva poi risalire il fiume fino ad Antiochia, un lungo incasso nella roccia ci permette di arrivare ad un tunnel grandioso scavato dai Romani, sulle pareti del quale si leggono ancora i nomi degli imperatori Tito e Vespasiano.

Del resto tutta la regione riecheggia di memorie a noi sorprendentemente care. Un giorno decido di seguire l’ultima parte del corso del fiume Oronte proprio quella che da Antiochia scende verso la costa più meridionale dell’Hatay, e mi capita di fermarmi lungo una vallata lussureggiante percorsa da un gran numero di cascatelle di acqua limpida, che si incanalano e si dividono tra boschetti, balze rocciose, piccole terrazze naturali. Quando vi giungo, il cielo è gonfio di nubi (ha piovuto nella prima parte della mattina), ma ciò non ha scoraggiato gruppi di antiocheni dal venire qui a passeggiare e poi a intrattenersi nelle immancabili sale da tè. Quando, dopo un paio d’ore, da una terrazza panoramica vedo finalmente il sole farsi strada e l’intera valle sorridere di colori verdi divenuti più intensi, quasi brillanti, ecco che la collocazione in questo luogo di uno dei miti più celebri della nostra cultura mi pare farsi plausibile. Questa che i turchi chiamano Harbiye, era un tempo ‘la valle di Dafne’. Sì, la ninfa bramata invano da Apollo, che pur di non cedere alle sue voglie, preferì trasformarsi in alloro, scena mirabilmente scolpita dal Bernini. Degli agoni di tipo olimpico vennero introdotti in questa valle dai sovrani ellenistici, e le fronde di quella pianta sempreverde, qui come a Delfi in Grecia, avranno certo ingentilito le tempie degli atleti vincitori.

Il ‘fiume ribelle’ tra Siria e Turchia

Per fortuna la preziosa indicazione di un anziano signore turco mi conferma quello che avevo appreso osservando una cartina. Una strada, assai disagevole ma pur sempre carrozzabile, segue da presso tutto l’ultimo corso dell’Oronte, da Harbiye fino alla foce. La imbocco senza indugio, per poter ammirare da vicino questo curioso fiume. Dico curioso perché dal Libano e per alcune centinai di chilometri si dirige, tortuosamente, sempre in direzione nord, ma giunto oltre l’altezza di Antiochia, dietro i rilievi che chiudono alle spalle la città, compie un’inversione a 180 gradi, attraversa la città puntando a sud e prosegue sulla piana dell’Hatay, che esso stesso ha formato nei millenni coi suoi detriti alluvionali; infine si riversa nel mare lambendo di nuovo i confini della Siria moderna. Con la sua irregolarità e le sue bizzarrie, l’Oronte ha segnato le vicende non solo geologiche, ma anche antropiche della regione. La stessa Antiochia sorse su un’isola formata dal suo corso e che ora non c’è più, e fu poi distrutta nel VI secolo da un terribile terremoto che chiuse per parecchio tempo lo sbocco al mare delle sue acque, determinando nell’Hatay la formazione di laghi oggi prosciugati. ma che resero in passato la zona assai malarica. Ancor oggi, già nel mese di aprile, verso sera nugoli di zanzare, per fortuna non letali, si levano in volo nelle zone basse dell’odierna Antakya. Insomma, se i turchi lo hanno chiamato non più Oronte, ma Asi Çai (Fiume Ribelle), hanno le loro buone ragioni.

La terra del dio Baal

Attraverso con l’auto piccoli villaggi che vivono di agricoltura seguendo il letto del fiume spesso incassato tra le rocce. Quando, per alcuni tratti, queste si aprono, verso sud compare una vetta triangolare, scabra e imponente. E’ il monte Casius (Gebel Akra in arabo), quello che, fin dall’antichità, segnava l’inizio della terra abitata dai Fenici, e che essi consideravano dimora del loro dio Baal. Alto circa 1800 m., gode di una vista invidiabile e si trova proprio al confine con la Siria. Le cronache narrano che quello spirito romantico dell’imperatore Adriano, che amava l’Oriente e le provincie di lingua greca, durante uno dei suoi viaggi una sera mosse da Antiochia e si incamminò per veder sorgere l’alba dalla cima. Tuttavia, Baal era il dio delle tempeste, e in quella circostanza l’imperatore ebbe la malasorte di constatarlo personalmente. Mentre stava facendo celebrare un sacrificio agli dei, un fulmine colpì l’altare alla sommità del monte, e abbatté in un colpo solo l’animale e il sacerdote che lo stava immolando.

La colonna dell’eremita

Sono solo, è il tardo pomeriggio, il cielo è parzialmente coperto e non è certo il caso di ripetere l’escursione di Adriano. Ma ho ancora il tempo di compiere un’ascesa più facile, quella che porta al vicino monastero degli Stiliti. Questi asceti della prima età bizantina erano noti per la loro singolare scelta di vita: trascorrere l’esistenza in eremitaggio sulla sommità di una colonna. Sembra incredibile, ma S. Simeone il Giovane, seguendo l’esempio di quanto aveva fatto un suo zio omonimo, visse circa quaranta anni senza praticamente mai scendere da una colonna, o meglio dal piatto basamento superiore del suo capitello in pietra. Lassù egli abitava, dormiva, mangiava (pochissimo, poiché costantemente in digiuno) e, ovviamente, pregava. Come meravigliarsi se, attorno a quel fenomeno umano, venne nel tempo eretto un monastero dotato di ben tre chiese, affollato dai pellegrini i quali, per avvicinarsi a lui e ascoltare il suo esaltato messaggio, fecero costruire anche una scala in pietra?

Hortum, la tromba marina

Lungo la stradina che dalla valle sale sino a quasi 500 metri di altezza, tra panorami sempre più maestosi, osservo con rammarico che si stanno erigendo altre colonne, ben più alte di quella di Simeone ma con finalità assai diverse. Sono quelle di impianti eolici che sfiorano i cento metri di altezza, e le cui braccia metalliche, parcheggiate nei pressi in attesa di essere montate, occupano il ponte di camion assurdamente lunghi. Il monastero bizantino, alla sommità di un monte, è silenzioso e battuto da un forte vento. Salgo sulle sue mura diroccate per ammirare Antiochia, più a nord, e il Mediterraneo a sud, là dove vi si riversa finalmente il mutevole Oronte. Mentre sopra di me il cielo è nuvoloso e quasi plumbeo, il mare pare uno specchio infocato dal sole declinante. Il vento teso si intensifica a tratti in folate, spazza via e poi di nuovo raduna quelle rapidissime nubi. Mi accingo a cogliere qualche raro istante di sole per fotografare tutta quella maestosità. La solitudine mistica del monastero è rotta all’improvviso dalle voci di tre giovani turchi, due ragazze e un ragazzo. Il giovane pare emozionato e, senza conoscermi, si rivolge a me chiamandomi a vedere qualcosa verso il mare, ma adopera una parola turca che ancora non conosco, hortum. Mi affaccio e a poche centinaia di metri dalla riva, là dove il sole respinge come una lama incandescente la coltre delle nubi, vedo con sgomento una tromba marina che si leva vorticosa tra le acque e il cielo. Infinitamente più elevata e possente tanto dei moderni pali eolici quanto dell’antico pilastro dell’asceta, manifesta la superiorità della natura su ogni nostra altra cosa: apparsa ai miei occhi proprio al termine del mio viaggio nell’Hatay, diventa la prodigiosa metafora di questa terra di confine dove le correnti e i venti, i fiumi e le genti, le civiltà e gli dei paiono avvolgersi e fondersi e scontrarsi, vorticando tra loro incessantemente sulla ruota dei millenni.

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