Hasankeyf, nella valle del Tigri
Il villaggio di Hasankeyf, in Turchia, è un luogo di rara bellezza. Dichiarato sito archeologico di primo grado, rischia di essere sommerso a causa della costruzione di un’imponente diga. Di recente, però, i finanziatori stranieri hanno deciso di ritirarsi dal progetto
Nella valle del Tigri, a 35 Km dalla città di Batman in Turchia, il villaggio di Hasankeyf, terra che ha testimoniato il passaggio di oltre venti civiltà e con un passato di 12.000 anni, attende l’esito del verdetto che in nome del progresso e del benessere lo vorrebbe cancellare dalla storia, sommergendolo con la realizzazione della grande diga Ilisu.
Il suo nome proviene dall’arabo Hsn Kayfa, "Roccaforte rocciosa". Qui, infatti, la conformazione geografica del luogo, la valle del Tigri e il suo corso d’acqua "veloce come una freccia" con le pareti rocciose che la sovrastano, formano un intreccio unico con arte e storia, dando origine ad un museo all’aperto.
I monumenti e alcuni resti mimetizzati in questa geografia sono solo le tracce "visibili" delle civiltà che qui si sono avvicendate. Hasankeyf fu roccaforte orientale di Bisanzio e capoluogo conteso dalle civiltà islamiche, fu capitale degli Artukidi nel XII secolo e fino al XIX secolo era annoverato tra i maggiori centri urbani, mentre nella prima metà del XX secolo contava una popolazione di 10.000 abitanti.
Qui si insediarono, a partire dal XIV sec. a.C., anche gli Hurriti-Mitanni, gli Assiri, gli Urartu, i Medi, i Persiani, i Romani, i Sasanidi, i Bizantini, i Selgiuchidi, gli Ayyubidi e infine gli Ottomani, lasciando ciascuno alle spalle tracce della propria cultura.
Il villaggio di Hasankeyf, dichiarato sito archeologico di primo grado nel 1978, è oramai diventato un simbolo di tutta quell’area conosciuta come Alta Mesopotamia, in cui non costituisce un caso isolato, ma se ne distingue per l’insolita bellezza. Tutta la zona, infatti, raccoglie un mare di reperti archeologici dal valore inestimabile. Al momento, solo il 40% dell’area è stata sottoposta ad una ricerca di superficie, portando alla luce 289 siti archeologici. Si ipotizza, perciò, che una ricerca completa ne rivelerebbe almeno il doppio.
Sembrerà strano che le ricerche commissionate dallo Stato turco, con tutte le scoperte e le conclusioni che ne derivano, non servano quasi a nulla e che il destino di tutti questi luoghi sia quello di essere messo a tacere sotto le acque di una diga.
La diga Ilisu è una minaccia che ritorna su questi luoghi come un incubo ricorrente. Il suo progetto risale al lontano 1954 e fa parte del piano di sviluppo economico per la regione sudorientale dell’Anatolia, noto con il nome di GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi).
Il GAP, avviato verso la fine degli anni ’70, prevedeva, all’origine, di intervenire sull’economia della regione, fortemente penalizzata negli anni dal disinteresse degli organi governativi. Le 22 dighe e le 19 centrali idroelettriche, progettate sul Tigri e sull’Eufrate, avrebbero così prodotto energia a basso costo e favorito la ridistribuzione della terra grazie all’aumento delle terre coltivabili mediante le irrigazioni. Ma i costi, il ritardo sui tempi di realizzazione, gli effetti ambientali negativi delle dighe costruite sull’Eufrate e la mancata realizzazione di gran parte delle opere di irrigazione e dei progetti sociali, negli anni, hanno dato al GAP l’immagine di un gigante appesantito.
Tuttavia, solo qualche mese fa il governo ha espresso la propria intenzione di accelerare il tempo dei progetti da completare. E la diga Ilisu rimane uno tra i progetti più controversi della Turchia per i numerosi effetti negativi che andrebbero a danneggiare il patrimonio culturale, il sistema ecologico e gli abitanti della zona, che verrebbe interamente allagata.
Le autorità hanno avanzato la proposta di costruire un parco archeologico dove trasferire i monumenti di Hasankeyf. Il coordinamento "Facciamo vivere Hasankeyf" sottolinea l’inaccettabilità di questa proposta, prima di tutto perché non tiene conto che i monumenti e il loro ambiente naturale costituiscono un tutt’uno. Inoltre, per via del materiale che li compone, i monumenti rischierebbero di andare in frantumi nel corso di un trasferimento. L’acqua che arriverebbe a sommergere tutto il villaggio, causerebbe anche lo scioglimento delle rocce, rendendo impossibile un qualunque tentativo a posteriori di recuperarlo.
Ma l’acqua, oltre ai 12.000 anni di storia, sommergerebbe anche un’altra ricchezza, quella dell’ecosistema del letto del Tigri. Quest’ultimo non è mai stato studiato adeguatamente. Il rischio, oltre a quello di non conoscerne mai più la composizione, è di rompere la catena vitale di numerose specie animali e vegetali legate all’acqua corrente del fiume.
Al rischio di perdere il patrimonio storico-culturale di millenni e dell’ecosistema della valle del Tigri si aggiunge la prospettiva dell’impatto sociale della diga, che è per nulla entusiasmante. Qui, la popolazione composta per la maggior parte da cittadini turchi di etnia curda, sembra vivere sospesa nel tempo.
Da oltre vent’anni si parla della costruzione della diga, e a causa di ciò, nessuno vuole fare investimenti in un’area che verrà sommersa dalle acque. Le autorità, se si inizierà l’edificazione della diga, nell’immediato promettono 6.500 posti di lavoro e per Hasankeyf la prospettiva di diventare una vera meta turistica. Ma intanto gli abitanti che dovranno abbandonare le loro case e le loro terre non vengono interpellati quando c’è da discutere sul loro futuro.
Dati i costi elevati dell’edificazione della diga Ilisu è stato reso necessario il sostegno finanziario di un consorzio internazionale. Così nel 2005 la Direzione Statale delle Acque, gestore del progetto della diga a nome del governo turco, ha nominato un consorzio formato da sei società dalla Germania, dall’Austria e dalla Svizzera, senza istituire una gara d’appalto, ma basandosi unicamente su rapporti bilaterali tra i governi.
Le società straniere, per poter ottenere il credito dalle banche, hanno chiesto alle Agenzie di Credito all’Esportazione (ECA – Export Credit Agency), vincolate ai loro governi, di fare da garante. Questi ultimi, a loro volta, tenuti presenti i criteri standard per concedere il credito e l’ampio dibattito suscitato nell’opinione pubblica dall’impresa della diga, hanno chiesto che il consorzio Ilisu presentasse un rapporto di impatto ambientale e un piano di reinsediamento. Entrambi i documenti sono stati preparati e presentati agli ECA, ma nel frattempo sono stati consegnati anche numerosi contro-rapporti e critiche preparate dal coordinamento "Facciamo vivere Hasankeyf" e da altre sei organizzazioni non governative europee. Gli ECA hanno così ritenuto opportuno demandare direttamente ai propri governi la decisione che, nonostante le opposizioni, è arrivata nel marzo del 2007.
Cosa attende gli abitanti di Hasankeyf e degli altri 199 villaggi che andranno evacuati?
Secondo un sondaggio condotto dalla società "Encon", incaricata dal consorzio Ilısu di preparare un piano per il reinsediamento, saranno 55.000 le persone che dovranno abbandonare le loro case e/o terre. Questo numero però, secondo quanto fa notare un rapporto dell’organizzazione "Facciamo vivere Hasankeyf", non include le altre 23.000 persone che hanno dovuto abbandonare le loro case durante le operazioni di "evacuazione" di circa 80 villaggi realizzate negli anni ’90 a scopo "precauzionale" contro gli eventuali pericoli derivanti dai conflitti armati tra esercito turco e guerriglieri del PKK. Infatti queste persone, pur non essendo state considerate nel piano di reinsediamento previsto, restano i legittimi proprietari delle case/terre che hanno dovuto lasciare.
Per quelli invece che sono stati considerati nel sondaggio, si presentano altre difficoltà.
In primo luogo, chi sarebbe disposto a trasferirsi nel luogo indicato dallo Stato – il 23% degli intervistati – non ha garanzie né per un risarcimento sufficiente per poter acquistare delle abitazioni nuove, né per ottenere dei terreni che poi siano adatti per la coltivazione o l’allevamento di bestiame.
Una serie di problemi attende invece il rimanente 77% degli eventuali emigranti che sceglierebbero di andare nelle città. Il piano di reinsediamento, anche qui, non sembra prevedere i problemi che deriverebbero dalla perdita della fonte di reddito degli emigranti. Si prospetta per loro una non meglio specificata "formazione professionale" e dei crediti con un basso tasso d’interesse per avviare un’attività. Ma anche di questa possibilità creditizia non si forniscono informazioni dettagliate, come per esempio quali sarebbero le banche interessate a fornire il credito, e non si capisce nemmeno quali tipi di garanzie potrebbero dare queste persone in cambio di un aiuto finanziario.
Tutti questi fattori sono ben lungi dal soddisfare gli standard imposti dalla Banca Mondiale e dalla Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD).
Inoltre né il consorzio Ilısu, né la Direzione Statale delle Acque si sono messi in contatto con i comuni delle città di Batman e Diyarbakır per creare un piano di gestione degli emigranti. Questi ultimi, infatti, per la maggior parte contadini e senza istruzione, non troveranno facilmente lavoro in un contesto urbano non preparato a ricevere nuove ondate migratorie dalla campagna e dove il tasso di disoccupazione è già alto.
Già prima di ottenere i finanziamenti, la Direzione Statale delle Acque, nel 2007 aveva iniziato le operazioni di "statalizzazione" nei paesi di Ilısu e Karabayır, versando i primi risarcimenti in autunno. Ma le somme pagate, di molto inferiori al valore effettivo dei beni, hanno suscitato proteste e nessuno dei "risarciti" ha acconsentito a lasciare la propria abitazione.
Sono state inoltre avviate alcune attività edilizie dalla scorsa primavera, come l’allargamento della strada che porta al villaggio Ilısu, la costruzione di 12 posti di polizia "per la sicurezza" e sono stati fatti i primi scavi nell’area del cantiere.
I governi tedesco, austriaco e svizzero, accettando di garantire per il credito, hanno imposto il rispetto di 153 condizioni (ToR – Terms of Reference) – ma ne bastano 30 affinché inizino i lavori – che migliorerebbero il progetto Ilisu, adeguandolo agli standard internazionali, e porterebbero notevoli miglioramenti al piano di reinsediamento. Inoltre, per monitorare l’effettivo rispetto delle condizioni, è stato formato anche un comitato di esperti di estrazione internazionale e turca.
Dopo l’esito favorevole delle elezioni del luglio 2007, il premier turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha personalmente assunto la responsabilità dell’accordo, che è stato firmato tra il governo turco/DSI, il consorzio Ilisu e le banche creditrici. Solo a questo punto, infatti, sono stati resi pubblici i nomi delle banche finanziatrici: Akbank e Garantibank dalla Turchia, Bank of Austria – Creditanstalt BA-CA (legato all’Unicredit) dall’Austria, DEKA Bank dalla Germania e Societé Generale dalla Francia.
Intanto lo stesso rapporto del comitato degli esperti, facendo valutazioni in Turchia e nella zona di Ilisu, divulgato nel marzo 2008, critica duramente i modi di realizzazione del progetto. Secondo il rapporto, nessuna delle 153 condizioni è rispettata, mentre la DSI si è dimostrata inadatta a realizzarle. Gli esperti, nel loro rapporto, hanno anche rilevato che non ci si è attenuti alle precauzioni necessarie per salvaguardare il patrimonio storico ed ecologico della zona.
Sembra che ora finalmente ci sia un primo sviluppo positivo: la Germania, l’Austria e la Svizzera, in considerazione di quest’ultimo rapporto – ma non è da escludere l’incidenza della recente crisi economica – lo scorso ottobre si sono decisi a mandare un avviso di fallimento ambientale alla Turchia intraprendendo un primo passo di retrocessione dal progetto. I sessanta giorni concessi alla Turchia per rispettare le condizioni richieste sono scaduti il 12 dicembre scorso. Intanto il ministro degli Esteri austriaco e il direttore dell’ECA austriaca, secondo quanto riporta la rete ambientalista internazionale International rivers, alla scadenza del termine previsto, hanno dichiarato alla rete televisiva ORF di essere d’accordo con gli oppositori alla diga Ilısu nel ritenere che la Turchia sia inadempiente alle condizioni, con il conseguente ritiro dei finanziamenti.
"Una grande conquista per la nostra campagna" dicono i rappresentanti dell’osservatorio dell’ECA austriaco. Ma il governo turco non ha ancora dichiarato come intenda gestire il fatto del ritiro dei suoi creditori europei. Cercherà un nuovo partner meno esigente come la Cina?
Il fronte dell’opposizione alla diga si concentra ora in Turchia dove si auspica che finisca l’interminabile attesa riguardo il futuro degli abitanti delle zone a rischio di allagamento e che il governo ascolti le alternative proposte.