Hannah Arendt a Belgrado
A Belgrado il pensiero della Arendt ritorna al centro del dibattito con l’intento primario di rendere ragione delle responsabilità del male che nell’ultimo decennio ha lacerato la società della ex Jugoslavia.
A Belgrado, dal 3 al 7 luglio, si è tenuta una conferenza internazionale dal titolo "L’eredità di Hannah Arendt: Dall’altra parte del totalitarismo e del t[]e". La conferenza è stata organizzata dal Circolo di Belgrado (Beogradski Krug), dal Centro per gli studi femminili di Belgrado (Zenske Studije), dai Centri Hannah Arendt di Oldemburg e di New York, ed è stata sostenuta dal Ministero della Cultura della Repubblica della Serbia, dal Fondo per la Società Aperta e da Freedom House.Alla conferenza hanno partecipato filosofi, sociologi e giuristi dagli USA, dalla Germania, da Israele e ovviamente dalle repubbliche della ex Jugoslavia. Oltre a questi, nelle due tribune della conferenza in cui si è discusso della responsabilità nella società civile, hanno partecipato anche i rappresentati del governo attuale, i media e le organizzazioni non governative. All’apertura della conferenza è stato presentato il libro fresco di stampa intitolato "Prigionieri del male: l’eredità di Hannah Arendt".
Diversi i settimanali serbi che hanno dato ampio spazio all’evento, a partire da "Vreme" che ha riportato alcuni degli interventi della conferenza e un fondo di Obrad Savic, filosofo belgradese e membro del Circolo di Belgrado. L’inserto settimanale del quotidiano "Danas" ha riportato un’ampia intervista col professore americano Dana Villa, il settimanale "Ekonomist" un’intervista con la scrittrice croata Dubravka Ugresic ed infine il settimanale "Nin" ha riportato la cronaca dell’evento sottolineandone, spesso con accenti capziosi, le difficoltà di organizzazione e i disaccordi tra i partecipanti al dibattito, senza mancare di dare voce ai dissensi volti a sollevare il tu quoque, riferito in modo particolare ai "bombardamenti intelligenti" della NATO nel 1999.
Tuttavia è bene ricordare che la stessa Arendt nell’Epilogo al suo Eichmann a Gerusalemme, si sofferma in modo intelligente proprio su quel tu quoque, ponendo in risalto le complessità che gravano su un tribunale internazionale (più volte definito come tribunale dei vincitori), ma tuttavia sempre con cogenti parole e non con elementi pretestuosi mirati a diminuire la responsabilità dei criminali (Cfr. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 262-264).
Il pensiero sottile della Arendt in realtà si spinge molto più in là quando afferma che il tribunale internazionale di Norimberga in effetti "era internazionale solo di nome", tuttavia la verità della questione legata all’istituzione di un tribunale internazionale è che "alla fine della seconda guerra mondiale tutti sapevano che i progressi tecnici compiuti nella fabbricazione delle armi rendevano ormai ‘criminale’ qualsiasi guerra". L’accento, oltre che essere posto sulla potenza della tecnica (questione che merita una trattazione a parte, ma che esula dal presente testo), viene posto soprattutto sulla malvagità delle intenzioni, sul male stesso. "Ci si rendeva conto – continua la Arendt – che i crimini di guerra potevano essere considerati soltanto quelli non dettati da necessità militari, dove si poteva dimostrare un intento malvagio" (Ivi).
Pertanto il tu quoque può essere sollevato nei confronti degli USA per esempio, e considerare un comportamento esecrabile la loro fuga davanti alle responsabilità, ma non è certo rilevando la tendenza egemonico-imperialistica di uno stato e le sue deficienze che risolveremo le questioni giuridiche e morali legate agli atti di genocidio e di crimine contro l’umanità.
Ad ogni modo il maggiore contributo offerto dalla conferenza è forse stato – secondo le parole di Obrad Savic – "quello di analizzare il concetto di responsabilità nei molti livelli del suo significato: da quello personale a quello collettivo, giuridico, politico, morale, intellettuale, fino a quello istituzionale, di comando, strutturale e anche delle responsabilità internazionali" (O. Savic, Udeo u traumatskoj proslosti, in "Vreme" Beograd 11 jul 2002).
Come si evince da queste parole, la questione della verità e della responsabilità su quella "banalità del male" che ha imperversato negli ultimi dieci anni di storia balcanica, sorge come un’istanza profonda e di notevole importanza, meritevole di tutta l’attenzione possibile. Solo attraverso un processo di riflessione responsabilizzante si potrà uscire dalle secche del pensiero in cui una cospicua parte della società d’oltre mare si è incagliata. La conferenza sul pensiero della Arendt stimola quindi una sorta di "lezione pubblica sulla costruzione fittizia e convenzionale di un’identità nazionale che di fatto è una sorta di relitto del modello barbarico di socialità".
L’intento della conferenza è sicuramente di alto livello e per nulla facile. Si tratta infatti di portare alla coscienza collettiva il senso di responsabilità di tutto il male che è accaduto con le guerre fratricide. In gioco non c’è solo la responsabilità a diversi livelli, ma la catarsi stessa di un’intera società.
Su questo punto sembra piuttosto decisa la scrittrice Dubravka Ugresic che sostiene come non si debba dimenticare, perché ciò sarebbe da idioti. "Non bisogna permettere l’oblio. Finché non si raggiungerà un’ampia sensibilità verso queste cose, occorre ripeterle continuamente, perché la gente non vuole riconoscere di essersi comportata da canaglia. Regolarmente le canaglie non riconoscono di esserlo, e nemmeno saranno mai coscienti di ciò, perché, se così fosse, non lo sarebbero mai state. Bisogna alimentare questo sentimento, perché in fondo si è trattato di una nostra scelta, Milosevic è stata una scelta serba, Tudjman è stata una nostra scelta e la gente ha votato, non una, ma bensì cinque volte, e ha votato per la propria infelicità e disumanizzazione" (Zavestanje Hane Arent, in "Ekonomist", Beograd 15 jul 2002).
Sul filo del confronto tra il pensiero della Arendt e gli eventi legati all’ambiente della Serbia, il quotidiano "Danas" chiede al professor Dana Villa se si possa tracciare una sorta di parallelo tra il processo Eichmann e la situazione della Serbia negli ultimi dieci anni. Il professor Villa risponde: "Un paragone diretto forse sarebbe esagerato, ma il fatto è che qua sono stati tanti coloro che ‘svolgevano soltanto il loro compito’ senza alcuna riflessione morale. Milosevic in questi dieci anni ha attuato con successo la ridefinizione del concetto di patriottismo con cui si sottintendeva lo sterminio degli altri. Lui e i suoi collaboratori si sono concessi di autonominarsi nazionalisti, e hanno portato questa nazione sull’orlo del disfacimento. Milosevic e i suoi subalterni devono essere condannati per i crimini di guerra che hanno commesso" (Velike korporacije imaju monopol u politici, in "Danas Vikend", Beograd 13-14 jul 2002).
In effetti un confronto diretto non sarebbe possibile, ma andrebbe certo contestualizzato e riferito ai diversi ambiti e alle diverse personalità. Milosevic non è Eichmann, il tribunale di Israele non è il TPI dell’Aja, ecc. Tuttavia alcuni spunti di riflessione il libro della Arendt li suggerisce eccome. Si pensi al passo in cui la Arendt tratta del processo ponendolo a confronto con il dramma: "un processo assomiglia ad un dramma in quanto che dal principio alla fine si occupa del protagonista, non della vittima (…) Al centro di un processo ci può essere soltanto colui che ha compiuto una determinata azione (il quale sotto questo rispetto è per così dire l”eroe’)". (H. Arendt, cit., p. 17)
Non è forse questo che sottolineava anche il noto scrittore e dissidente serbo Filip David, quando in modo chiaro metteva in guardia dal fatto che la gente provasse una sorta di apprensione per il destino di Milosevic e affermava che "Quello che è interessante è che tutto ciò acquista ora i ‘caratteri del melodramma’, una forma sentimentale di compassione per il suo destino. Quando vi mettete a confronto col destino privato di un uomo, e lo vedete così disgraziato, solo e senza aiuto, allora si sveglia una compassione e si scrive meno di quanto si nasconde dietro tutto ciò, vale a dire sui crimini mostruosi e sugli orrori, come se si fosse dimenticato tutto l’accaduto: da Vukovar, a Mostar, da Sarajevo fino a Srebrenica. Si tratta di qualcosa che deve inquietare un uomo, perché credo che finché non ci sarà abbastanza forza all’interno per svelare la verità e finché non ci confronteremo con il passato, non potremo parlare né di riforme né si potrà parlare di veri cambiamenti" (La Serbia al bivio, intervista a cura di S. Pecanin, "DANI", Sarajevo 6 luglio 2001, in italiano per "Notizie Est" n. 457).
Ciò che resta da vagliare allora è non solo l’effettiva percezione da parte della società di iniziative come quella che si è tenuta nei giorni scorsi a Belgrado, ma anche il significato stesso dell’evento e in che modo è stato presentato alla popolazione. Vero è che la conferenza sulla Arendt ha avuto una certa eco sui media. Spot televisivi hanno preannunciato l’evento, i media ne hanno dato ampio risalto. Organizzazioni americane hanno sponsorizzato la conferenza. Tuttavia occorre andare oltre la facciata e vedere se si è trattato di una sorta di parata auto celebrativa oppure di un vero germoglio di riflessione, all’interno del mare magnum dell’insensatezza e della banalità.
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