Habemus Pride? A Belgrado il dibattito continua
Soffocato nella violenza, osteggiato da varie forze politiche, ripetutamente cancellato per la presunta incapacità dello stato di garantire l’incolumità dei partecipanti. Il Pride di Belgrado ha una storia molto travagliata. Le sue varie anime si sono ritrovate per discuterne insieme, in un confronto serrato
A cinque mesi dall’ultimo Pride, andato in scena in forma ridotta (ovvero senza il suo momento centrale, la parata) per decisione delle autorità governative, è tempo di riflessione. L’appuntamento è il dibattito “Parata e politica”, che ha avuto luogo qualche giorno fa nel centro culturale Rex di Belgrado e al quale hanno preso parte gli organizzatori del Pride 2012, varie associazioni impegnate sul fronte dei diritti LGBT (cioè delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali), e numerosi/e attivisti/e del movimento. La consegna è complessa: riflettere sulle implicazioni ideologiche e politiche della scelta di organizzare il Pride (o meno).
Alla tavola rotonda partecipano cinque relatori e relatrici che rappresentano le varie anime del movimento LGBT in Serbia. C’è Boban Stojanović, pacifista e attivista gay, direttore del centro Queeria e attivo nell’organizzazione del Pride dal 2004. Al suo fianco il filosofo Dušan Maljković, autore di numerosi studi sulle identità sessuali e di genere e coordinatore di un corso in studi queer. Di fronte a loro c’è Mirjana Bogdanović, direttrice dell’associazione Alleanza gay straight (Gej strejt alijansa) e consulente del governo sul tema della discriminazione della comunità LGBT. Alla sua sinistra siedono Goran Miletić dell’associazione Civil Rights Defender, fautore di numerose iniziative legali relative alla difesa dei diritti dei gruppi marginalizzati, e Biljana Stanković Lori, promotrice di forme artistiche improntate all’attivismo lesbico e femminista. Inoltre, sono presenti tre “osservatori” provenienti da altri paesi della regione (Slovenia e Bulgaria).
Il Pride è di sinistra?
La prima a intervenire è Mirjana Bogdanović, che affronta di petto la questione dell’affiliazione ideologica del Pride. Negli ultimi due anni, dice Bogdanović, il discorso sul Pride sembra essersi appiattito sulla formula “Pride o morte”: o si ottiene tutto e subito, oppure è meglio lasciar perdere. Questa indisponibilità al compromesso, spiega, frustra il dibattito perché impone un “pensiero unico”, quando invece bisognerebbe essere liberi di occuparsi della questione LGBT da posizioni politiche e ideologiche differenti.
Alla domanda di Maljković se non esista una simbiosi quasi naturale tra la questione LGBT e le posizioni della sinistra, Bogdanović risponde che le istanze del movimento LGBT possono conciliarsi anche con posizioni conservatrici, come testimonia la legalizzazione dei matrimoni gay nella Gran Bretagna dei Tories. “Io sono una liberale, e non voglio sentirmi obbligata a sostenere i diritti LGBT nello stesso modo in cui li sostengono le persone di sinistra” dichiara Bogdanović, che però conclude con un messaggio di apertura: “Siamo molto più simili di quanto siamo diversi”.
Questo eclettismo ideologico non convince però Maljković, secondo il quale approcciare l’emancipazione gay “da destra” costringe ad accettare istituzioni conservatrici e oppressive, tra le quali, appunto, il matrimonio. “Non solo il matrimonio è una forma sociale patriarcale”, dice Maljković, “ma esso è repressivo anche nella misura in cui priva i non sposati di certi diritti fondamentali”. Secondo il filosofo, il diritto a sposarsi non dovrebbe quindi far parte delle rivendicazioni del movimento LGBT, anche perché, aggiunge, il matrimonio si fonda sulla norma della monogamia, che esclude forme di rapporto amoroso fra tre o più persone (poliamoria). La posizione di Maljković fa leva sulla critica articolata e radicale di quello che potremmo chiamare un “matrimonio ideologico”, quello tra la questione LGBT e l’ideologia dei diritti umani. I diritti umani, spiega Maljković, si fondano sul principio liberale della proprietà, e quindi operano implicitamente in difesa del sistema borghese e delle divisioni di classe. Il problema è che il movimento gay, appropriandosi del linguaggio dei diritti umani, ha smesso di riflettere sulle sostanziali affinità tra la lotta per l’emancipazione delle persone LGBT e la lotta tra chi detiene il capitale e chi ne è privato.
Chi è responsabile degli insuccessi del Pride?
Varie voci si levano dal pubblico chiedendo ai relatori di affrontare il problema più scottante, quello delle responsabilità. Era davvero inevitabile che anche l’ultimo Pride “saltasse” (come nel 2009 e nel 2011) a fronte dei rischi per la sicurezza paventati dalle autorità governative? Chi è responsabile della cattiva comunicazione tra il comitato organizzativo e la base del movimento? Perché non si è ancora riuscito a stabilire una collaborazione effettiva con altri movimenti sociali del paese, come ad esempio le Donne in nero o i movimenti operai?
Il bersaglio principale delle critiche è Goran Miletić, che da qualche anno è uno dei volti più noti del comitato organizzativo del Pride di Belgrado. Miletić risponde punto per punto. Comincia segnalando i successi del Pride 2012: la parata non c’è stata, ma tutti gli altri eventi in programma (mostre, dibattiti e proiezioni) hanno avuto luogo regolarmente; inoltre, una delle sette richieste del Pride, quella di includere nella legislazione serba i crimini dell’odio (hate crimes), è stata accolta. Miletić prosegue descrivendo i grandi progressi che contrassegnano la storia del movimento LGBT serbo degli ultimi 20 anni: l’opinione pubblica oggi conosce il tema dei diritti LGBT, la legislazione anti-discriminazione è migliorata, la polizia finalmente ha iniziato a collaborare con il movimento per garantire la sicurezza delle sue attività, e la scena LGBT è diventata più ampia e variegata. Ovviamente, ammette Miletić, ci sono anche molte ragioni per essere insoddisfatti e per fare autocritica. Ma bisogna tenere presente, spiega, che al di là delle considerazioni politiche e ideologiche, il Pride è soprattutto “una formidabile operazione logistica”. Stabilire pratiche di collaborazione con altri movimenti è difficilissimo, e l’establishment politico, che pure è un interlocutore fondamentale, è refrattario al dialogo.
L’intervento di Boban Stojanović, infine, fa luce sulla natura delle contraddizioni interne al movimento LGBT. Una ricerca condotta da IPSOS pochi giorni prima del Pride del 2012 ha rivelato che il Pride è l’unica manifestazione capace di mettere la posizione sociale della comunità LGBT al centro del dibattito pubblico del paese. Ma allo stesso tempo, nota Stojanović, degli aspetti strategici del Pride si occupa sempre un circolo ristretto di persone, che poi tendono a rappresentare l’evento attraverso la lente della loro esperienza soggettiva. Dunque è necessario chiedersi: è possibile “decentralizzare” il Pride dal nostro stesso ego, per poterne condividere l’idea e la missione con il maggior numero possibile di persone?