Guerra ai rom, la Slovenia in fiamme

Con la tacita complicità del governo ”l’insurrezione” xenofoba anti-rom dilaga in Slovenia mentre il premier Janša stigmatizza l’ombudsman Matjaž Hanžek e la stampa indipendente che hanno internazionalizzato il problema

17/11/2006, Franco Juri -

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La famiglia Strojan

Alberi abbattuti, trattori, barricate, „guardie paesane" che scimmiottano le "vaške straže" di anti-partigiana e "domobrana" memoria, assemblee infiammate, folla concitata. Ai posti di blocco che chiudono gli accessi ad Ambrus e Mala Huda nel comune di Ivančna Gorica, nella Slovenia orientale, i picchetti controllano ogni automobile, ogni movimento sospetto, persino i documenti dei passanti.

Il nemico da fermare sono i Rom che due settimane fa la folla di Ambrus, minacciando il linciaggio, aveva scacciato dal loro fazzoletto di terra e dalle loro case, a qualche chilometro dal villaggio, ai margini del bosco.

La famiglia Strojan, 25 persone di cui solo 4 uomini adulti, fu costretta ad abbandonare le proprie case e sotto scorta della polizia in tenuta antisommossa , a riparare nel centro di accoglienza per stranieri di Postumia. Il governo sloveno s’impegnò allora a trovare loro al più presto una sistemazione alternativa, possibilmente nello stesso comune.

Passate le elezioni amministrative salta fuori il nome del luogo offerto agli Strojan e che questi considerano accettabile. Si tratta di un appezzamento vicino al villaggio di Mala Huda, anche questo nello stesso comune di residenza della famiglia, Ivančna Gorica.

Ma è subito rivolta. I villaggi insorgono, trecento paesani di Mala Huda bloccano le strade e levano barricate. L’assemblea in piazza grida a Lubiana: "I Rom non li vogliamo!". Un’ anziana del paese urla alla TV: "Non li vogliamo, sappiamo che sono tutti dei criminali!".

La rabbia monta anche nei villagi vicini e quando si sparge la voce che i maschi della famiglia Strojan starebbero per tornare nella loro casa di Ambrus, si trasforma in una specie di "Srpska krajina". Le immagini riconducono infatti a quelle di Knin del 1991. I paesani organizzano comitati di autodifesa, le "vaške straže" appunto che prendono il controllo delle vie di comunicazione e annunciano la caccia al Rom.

E il governo? La polizia? Sono inspiegabilmente comprensivi con l’ "insurrezione popolare". L’ unico arresto avviene qualche giorno prima a Lubiana, dove 700 dimostranti antirazzisti avevano manifestato la loro solidarietà con i Rom, chiedendo le dimissioni del ministro degli Interni Dragutin Mate, davanti alla sede del governo e del parlamento. Un noto attivista, Marko Brecelj , capodistriano, famoso cantautore sessantenne, tenta di superare la barriera di protezione e viene portato via con la forza.

E proprio nel giorno in cui la Dolenjska sembra prepararsi alla guerra, arriva a Lubiana il commissario per i diritti umani presso il Consiglio d’ Europa Thomas Hammarberg. Incontra gli Strojan, il ministro dell’Istruzione Milan Zver che segue per il governo la problematica Rom e l’ ombudsman Matjaž Hanžek.

Hammarberg non esita a manifestare pubblicamente il suo disappunto con il trasferimento forzato della famiglia rom. E non risparmia critiche al governo sloveno anche per il suo attacco frontale a Hanžek, presentato come una specie di traditore nazionale perché ha informato del caso Ambrus il Consiglio d’ Europa.

Ma Janša non si scompone e alla conferenza stampa che segue il suo rientro dall’ Iraq e dall’Arabia Saudita, dove si trovava mentre le „vaške straže" di Ambrus prendevano in mano la situazione, spara a zero su chi "strumentalizza politicamente e internazionalizza" il problema. Una frecciata particolare parte contro i giornalisti che ne parlerebbero e scriverebbero troppo.

Ma dove sta andando la Slovenia di Janša? Le fiamme divampano dalla Dolenjska all’Istria, letteralmente. Nello stesso giorno della rivolta di Mala Huda e Ambrus, la piazza, debitamente aizzata, si mobilita anche a Isola, dove il movimento populista di Boris Popović (Capodistria è nostra!), appoggiato con decisione dal premier, non riesce ad abbattere l’ultima roccaforte della sinistra in Istria. Il conteggio delle schede nel ballottaggio, ripetuto su richiesta di "Isola è nostra!" conferma la vittoria di misura (per soli due voti) di Breda Pečan, sindaco "rosso" che dovrebbe iniziare il suo quarto mandato consecutivo.

Ma Popović ed il suo uomo a Isola, Tomislav Klokočovnik, non demordono. I loro avvocati richiedono l’annullamento delle schede che sono arrivate dal locale centro di assistenza per anziani, dove quasi tutti hanno votato per la popolare Pečan. L’avvocato di Klokočovnik tenta di dimostrare che degli anziani invalidi non sarebbero in grado di agire e scegliere autonomamente. Ma gli anziani protestano, anche in TV: "Abbiamo votato secondo coscienza e il nostro voto è valido".

Questo è quanto conferma anche la commissione elettorale, ma „Isola è nostra" in risposta mobilita la piazza e porta nelle vie della cittadina anche molti ultras, presi a prestito dalle tifoserie dove Popović è un leader assoluto. L’ atmosfera si fa plumbea. Le scene sono quelle dei primi "meeting anti-burocratici" di Slobodan Milošević; tra la folla che protesta davanti al comune, dove è riunita la commissione elettorale, protetta-così come la stessa sindaco- da un cordone di polizia, si sente: "Questa sinistra dobbiamo spazzarla via, definitivamente!". I volti sono truci, minacciosi, "Breda go home!" e "Breda=Beda" (miseria), scrive sui cartelli in mano a dei ragazzini. Una rabbia accidiosa, incomprensibile nei confronti di una sindaco da sempre molto popolare e che la città l’ha fatta rinascere. La stessa sera due bombe molotov vengono scagliate contro la sede del SD (il partito socialdemocratico della Pečan) e il mattino successivo sui jumbo manifesti affissi lungo la strada che da Isola porta a Capodistria chi passa può leggere a caratteri cubitali: "Ena, dva, tri, Breda gori!" (uno, due, tre Breda brucia!) e "Štiri, pet, šest Breda gre v arest" (Quattro,cinque, sei, Breda sarà arrestata!).

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