Gregor Božič: il fiabesco dei luoghi
I luoghi, ancor prima della psicologia dei personaggi: con il regista Gregor Božič abbiamo parlato del suo primo lungometraggio "Storie dai boschi di castagne" e dell’importanza, in ambito cinematografico, delle co-produzioni. O "collaborazioni creative", come le definisce lui
Tra gli ospiti dell’edizione del Balkan Film Festival che si è aperto ieri e si chiuderà il 4 dicembre ci sarà anche il regista sloveno Gregor Božič, del quale lo scorso anno fu proiettato durante il festival il lungometraggio di debutto “Zgodbe iz kostanjevih gozdov – Stories from the Chestnut Woods” (“Storie dai boschi di castagno”), ambientato nel passato nelle valli del Natisone, sul confine tra Italia e Slovenia. Božič prenderà parte giovedì al panel moderato da Luisa Chiodi, direttrice dell’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, con i registi Dina Duma, Antonio Romagnoli e Norika Sefa “sulle sensibilità artistiche e sociali nella nuova cinematografia italo-balcanica, per coglierne le suggestioni innovative tra interpretazioni del passato e progettazione del futuro”.
Com’è nata l’idea di “Stories from the Chestnut Woods”?
Sono nato in queste zone, conoscevo la valle dell’Isonzo e il Collio, conoscevo meno le valli del Natisone che erano un luogo misterioso e chiuso. C’era stata l’emigrazione, era rimata l’architettura arcaica di prima del terremoto del 1976, mentre da parte slovena hanno ricostruito senza preservare. Ho trovato un posto interessante esteticamente, ho scoperto storie di confine, di Gladio e della guerra fredda e ho conosciuto le “piave”. In parallelo seguivo un altro progetto, sul conservare le varietà di frutta autoctone, era un’eredità culturale, la frutta era parte del paesaggio contadino, era buona e costituiva una fonte di guadagno per la gente ed era anche fonte di ispirazione per leggende e riti. Sono andato in giro a parlare della frutta con la gente e mi hanno aperto le porte, siamo finiti a parlare di memorie e guerre. Così ho conosciuto Alvaro Petricig che aveva un archivio pazzesco di fotografie, era perfetto per un film di atmosfera che parla del posto più che della psicologia dei personaggi.
Com’è stato trovare i finanziamenti per un film di questo tipo?
È stato difficile trovare sostegni, soprattutto come opera prima. L’idea iniziale era parlare di sogno e del fiabesco specifico del posto. In realtà all’inizio avevo scritto una sceneggiatura lineare, ma girando mi sono accorto che la storia non poteva essere lineare: il film si è costruito anche nel montaggio, ricorrendo alla non linearità del tempo e a sogni, quello che fu e forse non è mai accaduto. Le storie in quei luoghi erano ricche e paradossali, non avevano un inizio e una fine classici, così il tentativo è stato di avvicinarsi alla realtà attraverso il fiabesco.
Si era ispirato a qualche altro film o regista?
Volevamo fare un film come i pittori naïf e faticavamo a trovare un esempio da citare per farci finanziare il film. Un regista che mi ha affascinato è stato Sergei Paradjanov, soprattutto “Le ombre degli avi dimenticati” e “Sayat Nova – Il colore del melograno”. E “Il conformista” di Bertolucci, soprattutto per il montaggio, trovo che la prima mezz’ora del film sia pazzesca. Anche quello fu scritto linearmente e poi montato da Kim Arcalli con i flash-back. Ancora mi piacciono Jean Vigo e Federico Fellini, “8 e mezzo” è un film che mi stupisce sempre. A proposito del mio film tutti menzionano Andrei Tarkovskj, lo amo ma non era il primo riferimento che avevo in testa. Un altro film cui ho pensato come spirito è “Ti ricordi di Dolly Bell?” che è uno dei più belli di Kusturica.
Com’è stata l’accoglienza? Se l’aspettava?
Il film ha riscontrato successo, sono stato abbastanza sorpreso, credevo fosse troppo arthouse, invece il pubblico in Slovenia l’ha accolto in modo emotivo. Anche nei festival è stato così, non me l’aspettavo. Ha fatto il giro del mondo, è stato in 40 paesi. Solo in Italia ha avuto poche proiezioni, poche sale, per me è il più grande rammarico, mi aspettavo più interesse, mi sono dato da fare per spingerlo, con poca fortuna.
Quali sono i suoi nuovi progetti?
Lavoro sia come regista sia come direttore della fotografia. Ho appena finito di girare il film di Igor Besinovic sulle giornate di D’Annunzio a Fiume. Sto preparando un altro progetto con Matjaž Ivanišin sempre come direttore della fotografia ma collaborando anche alla sceneggiatura. Conosco Ivanišin dai tempi della scuola di cinema a Lubiana, ci viene spontaneo lavorare insieme, lo aiuto a tradurre in immagini le sue idee. È uno che lavora spesso senza sceneggiatura, bisogna creare delle trovate strada facendo e il mio lavoro va sempre oltre fare la fotografia. Intanto ho ricevuto il contributo del fondo sloveno per un nuovo film di finzione e ora cercheremo coproduzioni. Sarà un film sulla frutta, partendo proprio dalle ricerche che avevo fatto. Sarà in parte girato qui sul confine, poi in Sicilia e per circa un terzo in Giappone, dove hanno amato “Stories from the Chestnut Woods”, che ha vinto il festival di Nara di Naomi Kawase. Sarà un ibrido, un film di finzione con molto di documentario, ambientato al giorno d’oggi e con tanti sogni.
Cosa pensa delle coproduzioni e del loro ruolo nel cinema di oggi?
Le coproduzioni oggi sono necessarie. Di solito significa che avrai qualcuno che segue il tuo lavoro anche in un’altra nazione, in questo modo allarghi il cerchio del film, lo aiuti a circolare. Possono essere collaborazioni creative come ci era successo per “Playin’ Men”, ti arricchiscono, puoi dialogare di un cinema d’autore che sta andando perso. Non immagino di realizzare film senza una coproduzione. Vedo film in Italia o Slovenia che sono fatti soltanto con soldi nazionali e poi restano un po’ chiusi, non riescono a circolare all’estero, mi sembra un destino un po’ triste. La coproduzione costituisce una possibilità in più, monetaria e soprattutto umana. Posso parlare di collaborazioni creative, anche se le coproduzioni sono soprattutto monetarie. Si lavora insieme, si conosce un altro approccio, come è accaduto per “Piccolo corpo” di Laura Samani dove c’era una troupe mista italiana e slovena. In ex Jugoslavia le coproduzioni sono ultra normali, serviva risvegliare questa cosa, tra noi è molto normale, ho da poco fatto la fotografia in un cortometraggio di una giovane regista serba ed è risultato facile collaborare. La differenza culturale con l’Italia è più forte: per me, che sono cresciuto sul confine, non lo è, ma di solito per gli sloveni è più difficile. L’Italia è un paese abbastanza chiuso, perché è grande, qualche volta ai registi italiani farebbe bene collaborare di più. Sono un grande sostenitore delle collaborazioni, la chiusura porta sempre cose malvagie, a partire dal nazionalismo.
Sta cambiando qualcosa nel cinema dei paesi dell’ex Jugoslavia? E cosa?
Sta cambiando molto l’ex Jugoslavia. La nostra è ormai una generazione che ha speso buona parte della vita all’estero, abbiamo studiato fuori oppure – come le registe kosovare – loro vivono all’estero. In questo modo si guarda al paese in mondo diverso, con una certa distanza. Più delle generazioni del passato siamo in contatto con l’estero. La guerra ha forzato tanta gente all’emigrazione, sono cambiate le storie. Ora vedo più registri urbani, non c’è più solo il folklore di Kusturica. Si raccontano storie più contemporanee o astratte o eccentriche. Noto che oggi ci sono film che piacciono agli altri registi, prima erano tutti negativi sul lavoro degli altri colleghi, c’era più invidia cattiva. Sono contento che sia cambiata la situazione.