Grecia, una crisi sprecata
Le crisi sono dolorose, ma vanno sfruttate per osare il cambiamento. In Grecia però, sostiene l’analista economico Janos Manolopoulos, questo non è successo. La classe politica ed economica di Atene naviga a vista, incapace di ripensare il proprio futuro. Un’intervista alla vigilia delle elezioni del prossimo 17 giugno
Questa campagna elettorale ha fatto emergere due campi nella politica greca, uno pro e l’altro contro gli accordi con la “troika” UE-FMI-BCE…
Non sono d’accordo, questa è una grossolana semplificazione in cui sono caduti molti media occidentali. Nemmeno il PASOK e Nuova Democrazia possono essere definiti come “fronte pro-memorandum”, né come fautori di vere riforme strutturali. Agli elettori hanno sempre raccontato di aver ceduto alle pressioni esterne per necessità, senza reale convinzione. SYRIZA ha approfittato di questa contraddizione, e oggi sostiene di essere la forza più qualificata a rinegoziare il memorandum, non avendo firmato nessuno dei dolorosi accordi sottoscritti fino ad oggi da Atene.
Sia il PASOK che Nuova Democrazia hanno “demonizzato” i vari pacchetti di salvataggio, sostenendo di aver ceduto “con la pistola alla testa”. E questo, tra l’altro, ha comportato la mancanza di qualsiasi vero dibattito sulle reali cause dell’attuale crisi in Grecia.
Il voto del 17 giugno sarà un referendum sull’euro? Il destino della Grecia nell’eurozona è ancora nelle mani dei cittadini ellenici?
Il “referendum” è un’immagine cara ai politici, ma credo che ai cittadini ormai la questione interessi sempre meno. La gente è stanca di sentirsi dire “vota per noi, o sarà il disastro”. La vera preoccupazione è il lavoro: i greci oggi vogliono trovare occupazione ancor più di quanto non vogliano restare nell’euro. E questo è stato capito soprattutto da SYRIZA.
Riguardo al destino della Grecia, credo sia stato già deciso di comune accordo con Bruxelles: a prescindere dai risultati elettorali, Atene uscirà dall’euro. Sarà un processo difficile, e avverrà in modo negoziato, visto che né l’UE né la Grecia sono pronti a questo passo. Forse ci vorrà ancora un anno, ma è inevitabile. Nemmeno una vittoria di SYRIZA cambierà le carte in tavola, anche se forse potrebbe accelerare gli eventi.
In caso di uscita dall’eurozona, la Grecia avrà ancora bisogno del progetto politico dell’Unione europea?
Sì, assolutamente. Ma è vero anche il contrario. Nessuno vuole uno stato fallito al centro del Mediterraneo, in una posizione geopolitica che resta di fondamentale importanza. La Russia non aspetta altro che un []e dell’Occidente per poterne approfittare in termini di influenza. Ecco perché penso che l’Unione europea, ma anche gli Stati Uniti, hanno tutto da perdere se la crisi in Grecia diviene incontrollabile.
Qual è il suo giudizio sul programma economico recentemente presentato da SYRIZA?
Non credo sia un programma realistico: difficilmente riuscirà ad aumentare il gettito fiscale, così come sarà difficile ridistribuire il peso dei costi in modo più efficiente. Anche la retorica anti-business del partito non ci porterà da nessuna parte. La retorica e le promesse di Tsipras ricordano quelle fatte da Andreas Papandreou nel 1981. Oggi però la Grecia naviga in acque ben più agitate: da allora il debito pubblico è passato dal 21% al 160% e la popolazione è invecchiata notevolmente.
Lei ha scritto un libro per spiegare le cause profonde della crisi in Grecia. Può indicarci quelle principali?
La crisi in Grecia è frutto di vari fattori concomitanti. Alcuni sono specificatamente greci, altri invece riguardano la dimensione globale. Il principale problema greco è l’aver creato un settore pubblico assolutamente sovradimensionato e inefficiente, che soffoca il sistema produttivo. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, diventando sempre meno produttivi e competitivi.
L’altro problema, è l’infrastruttura della moneta unica, che è fallace. L’eurozona è sempre stata lontana dal rappresentare un’area ottimale per una moneta comune, e le cose non sono migliorate col passare degli anni: le economie che ne fanno parte sono troppo dissimili per assorbire allo stesso modo shock economici, non esiste un tesoro comune, non ci sono trasferimenti fiscali automatici ma, soprattutto, non esiste un vero mercato comune del lavoro, come accade negli USA. E il fatto che in Grecia la disoccupazione sia arrivata al 25%, mentre in Germania è ferma al 6%, sta a dimostrarlo.
C’è poi l’altra questione globale, quella del debito, che in Grecia si è manifestata nel disavanzo pubblico, a causa di istituzioni deboli e corrotte. Ma il problema non è solo greco: negli USA è emerso nella crisi dei sub-prime, in altri paesi, come l’Islanda, nel collasso del sistema bancario.
La crisi ha stimolato la ricerca di meccanismi attraverso cui richiedere maggiore responsabilità dall’establishment politico ed economico greco?
No. Da questo punto di vista la vecchia Grecia non è morta. E’ paradossale che la larga maggioranza dei cittadini greci, che vogliono una vera trasformazione europea del paese, non ha un partito che rappresenti le proprie istanze. Questo avviene perché in un sistema europeo funzionante, i politici di oggi sarebbero inutili. Lo stesso vale per molti imprenditori, che oggi fanno affari solo grazie alla capacità di sfruttare legami con la politica, e che in regime di vera concorrenza sarebbero presto tagliati fuori dal mercato. La rete politico-economica che oggi prospera rappresenta il 10-20% della popolazione greca, gli altri subiscono la volontà di questa élite parassitaria.
Ma è stato intrapreso un dibattito su un piano di sviluppo economico sul medio-lungo periodo, un progetto che vada al di là della risposta immediata alla crisi?
Anche in questo caso, purtroppo, la risposta è no. La Grecia è ancora preda dei demoni del passato, e non riesce a guardare al futuro. Il 55% della forza lavoro nel paese è impiegato in tre settori: amministrazione pubblica, commercio e costruzioni. Tutti settori basati sul credito, e ora in crisi profonda. Ma come ri-orientare lo sviluppo? Nessun piano a riguardo. Abbiamo 1,5 milioni di disoccupati. Cosa farne, in quale settore indirizzare la loro riqualificazione professionale? Nessuno ne parla.
La campagna elettorale è stata un’occasione perduta di confronto vero sul futuro. Purtroppo, i cittadini greci non sono pronti a questa discussione, preferiscono cercare capri espiatori. Anche perché i media sono controllati dalla stessa élite politico-economica che ha portato il paese al disastro.
La Grecia dovrà rinunciare al suo welfare-state? Fino a che punto?
Lo stato greco spende oggi almeno il 15-20% in più di quanto si potrebbe permettere, è quindi inevitabile che ci saranno nuovi tagli. Non c’è alternativa.
Come giudica il processo di ristrutturazione del debito greco portato avanti fino ad ora?
Il cosiddetto “haircut”, cioè il taglio del valore nominale dei titoli greci, è stato soprattutto un’operazione di marketing. I creditori privati hanno sì subito un taglio, ma poi il flusso di denaro è stato nuovamente rimesso in circolo con l’operazione di ricapitalizzazione delle banche, e alla fine la quantità di debito reale non è diminuita. Quello che è successo, è che si è aumentata la maturità del debito, abbassando i tassi di interesse. E’ un passo importante, ma serve soprattutto a prendere tempo.
Con la vittoria di François Hollande in Francia, la linea di austerità a tutti costi, spinta soprattutto dalla Germania, sembra messa in discussione. Pensa che questo avrà riflessi importanti sulla Grecia?
Forse ci sarà un cambiamento di rotta a livello europeo, anche se non immediato. Purtroppo, però, credo che per la Grecia sia troppo tardi. Personalmente sono convinto che alla fine, per motivi diversi, saranno proprio i due estremi della catena, Grecia e Germania, ad abbandonare la moneta unica.