Grecia povera, povera Grecia

Vittime di conflitti che non li riguardano. Come quello annoso tra Grecia e Turchia, che ha lasciato un’eredità mortale di mine lungo il confine dell’Evros. Ma anche una volta arrivati nella sospirata terra ellenica, i muhajirin trovano un paese in piena crisi economica, sempre meno disposto ad offrire loro protezione ed asilo

28/09/2010, Paolo Martino - Salonicco

Grecia-povera-povera-Grecia

"Pink card" greca - P.Martino

 

L’oscurità si rovescia sui colli della Tracia come un’alluvione. Il cono alogeno dei fari sull’asfalto è l’unico appiglio offerto alla vista, privata di ogni riferimento dall’oscurità circostante.

Orestis guida da due ore, procedendo a velocità ridotta per non compromettere il carico. Una lunga fila di camion in sosta prima dello svincolo per Traianopoli attrae la sua attenzione: “Guarda lì. Da una settimana c’è lo sciopero coatto. Non può circolare nulla, solo i beni alimentari.” E continua: “La crisi economica ci sta mangiando vivi. Io trovo ancora lavoro solo perché trasporto birra. E i greci non smetteranno mai di bere birra.” Scopro che l’intero paese è a corto di carburante e che da diversi giorni lunghe file di auto si accalcano ai pochi distributori ancora riforniti.

Komotini. Orestis spegne il motore e accende una sigaretta. “Allora, volevi sapere delle mine antiuomo”. Estrae una mappa dal vano nello sportello e la dispiega sul cruscotto. “Da qui a qui”, dice indicando le località di Nea Vissa e di Kastanias, “era tutto un campo minato”. La striscia di territorio si distende per circa 10 km. “E’ l’unico tratto in cui l’Evros scompare in territorio turco, perciò la Grecia non controlla la riva destra del fiume. Lì i soldati greci e turchi si guardano faccia a faccia, senza acqua di mezzo.”

Per rimediare alla geografia ostile, la Grecia ha disposto una serie di barriere tattiche. “Nulla lì è casuale. Una vasca per allevare pesci è in realtà una trincea allagata. Una zona boschiva nasconde un passaggio invisibile ai satelliti. E così via.” Ripiega la carta e getta via il mozzicone. “Le mine sono il male peggiore. E purtroppo a pagarne le conseguenze sono quelli che non c’entrano nulla, i migranti”.

2008. La Grecia procede alla bonifica dei campi minati, pressata dalla comunità internazionale. Orestis presta servizio in quella regione. “I tecnici procedevano nello sminamento. Ciononostante la notte sentivamo spesso quelle esplosioni sorde, improvvise. In sei mesi mi è capitato molte volte. Una sera toccò ad un mio amico andare di pattuglia. Le foto che ha fatto col cellulare mi hanno tolto il sonno per giorni. I corpi avevano perso forma. Tronconi senza braccia né gambe.”

“Ma ora”, gli chiedo mentre riprende l’autostrada,“la zona è bonificata?” Accende un’altra sigaretta. Braci brillanti si liberano nell’oscurità  “Ufficialmente si. Però c’è un problema: le inondazioni. Quando il fiume straripa, l’acqua fluidifica il terreno e le mine si spostano. Perciò, anche leggendo le mappe dei campi minati, non è possibile rintracciare tutti gli ordigni.” E aggiunge: “Anche in aree bonificate ci era assolutamente proibito lasciare i sentieri e le strade battute. L’esercito greco non poteva fidarsi neanche di se stesso!”

Un attimo di silenzio mi dà modo di riflettere. A Van, ai piedi delle montagne che scendono dall’Iran, un pilota dell’esercito turco mi confessò che sui quei terreni l’esercito ha licenza di uccidere. E che a pagarne le conseguenze sono proprio i migranti, vittime di una guerra che non è la loro. Ora, a distanza di duemila chilometri, ritrovo uno scenario simile. La strada per l’Europa gronda del sangue dei migranti. Spero che Mussa Khan sia riuscito a venirne fuori anche questa volta.

Il flusso dei pensieri è interrotto dalla voce di Orestis.“Un giorno ho sentito una voce. Diceva che i militari turchi, d’accordo con i trafficanti, usano i migranti come cavie. Gli forniscono indicazioni sbagliate su come attraversare i campi, facendoli finire proprio in mezzo alle mine. In questo modo testano l’effettivo stato di avanzamento della bonifica.”

L’alba ovattata preannuncia una giornata torrida. La via Egnazia, antico asse vario che collega l’Adriatico ai Dardanelli, scorre ai miei piedi. Mentre aspetto un passaggio per Salonicco penso alle parole che Orestis mi ha detto prima di salutarmi, proseguendo per Larissa. “Vedevo spesso partire le camionette piene di migranti, a notte fonda. Li facevano uscire dalle celle della base e li caricavano nei vani. Non sapevo dove li portassero, quel tipo di servizio non lo fanno svolgere ai militari di leva come me. Ma al mattino le camionette tornavano vuote.” Un riscontro diretto al fenomeno dei respingimenti illegali.

Yusuf è somalo. Lo incontro nell’androne dello xenonas di Salonicco, una palazzina di tre piani adibita a centro di accoglienza. “Ho speso una montagna di soldi per passare l’Evros con i miei otto figli e mia moglie, per poi ritrovarmi bloccato qui. Da più di un anno e mezzo aspetto l’intervista con l’UNHCR.”  Insieme a Yusuf vivono nello xenonas sessanta persone. Più della metà degli ospiti sono muhajirin afghani. “Tiriamo avanti con la pink card, il permesso di residenza per richiedenti asilo. Ma è poco più di carta straccia. Nessuno trova lavoro, con quello.”

“Il problema è che il governo greco non ha risorse per gestire il fenomeno.” Da tempo Meropi fa la volontaria nel centro. “Da circa un anno noi dell’Antiracist Movement abbiamo preso in mano la situazione. Prima il governo gestiva questo ed altri centri direttamente, ma poi ha affidato tutto ad associazioni ed enti poco trasparenti, che nel giro di qualche mese hanno dichiarato bancarotta. Da allora la situazione è gestita interamente da noi volontari”.

Meropi mi accompagna in una visita nella palazzina. Intere famiglie vivono ammassate in stanze singole. “Almeno loro hanno trovato un posto dove stare. Per la maggior parte dei migranti c’è solo la strada.” Si calcola che in Grecia vi siano 45mila richiedenti asilo, mentre le strutture di accoglienza sono praticamente assenti.

Dalla strada un’auto suona il clacson. Ci affacciamo al balcone. Un ragazzo greco scarica dal portabagagli casse di pomodori, detersivi, pacchi di pasta, latte in polvere. “La gente ci sostiene molto, altrimenti non potremmo farcela. Ma non so per quanto potrà durare. La situazione sociale greca è una bomba a orologeria, e purtroppo la crisi economica sta facendo maturare i tempi ancora più in fretta.”

Iran. Afghanistan. Somalia. Palestina. Eritrea. La declinazione delle nazionalità ospitate nello xenonas suona come un bollettino di guerra. Nel pomeriggio Alì, energico capofamiglia palestinese, mi lascia dormire per qualche ora nel suo alloggio. I suoi tre figli giocano rumorosamente nella stanza insieme a bambini somali, afghani ed eritrei, saltando da un letto all’altro. Parlano un misto di arabo, greco e inglese. Se non fosse per la drammaticità della situazione e per la seria ipoteca che incombe sul futuro di questi bambini, direi che la migliore generazione del domani è quella che ho sotto i miei occhi.

La notte trascorre insonne, come capita spesso ai muhajirin. “Noi non dormiamo mai perché la nostra testa è impegnata a cercare un modo per andare via, per proseguire il viaggio. Finché siamo in movimento, il corpo si affatica e la mente fa altrettanto. Ma qui siamo costretti all’immobilità, e il cervello non trova pace.” Alì, Yusuf e Osama, capofamiglia afghano, il più anziano residente del centro, raccontano stralci delle loro storie. Storie di infinite fughe, momentaneamente interrotte grazie al lavoro dei volontari di Salonicco. “La nostra meta non è certo questa. Ma ormai i modi per proseguire per l’Europa sono pochi, e richiedono tutti tanti soldi.”

Alì ha già provato cinque volte a oltrepassare l’Adriatico. Vuole raggiungere Stoccolma, dove da  un anno vive sua moglie insieme agli altri tre figli. “Ho documenti falsi per me e per i miei figli, ma siamo sempre stati scoperti a causa dei trafficanti.” Tira fuori la carta d’identità spagnola del figlio Hassan, acquistata ad Omonia, nel centro di Atene. “Una volta arrivati a Patrasso o Igoumentisa, i trafficanti, esperti di documenti e identità false, segnalano alla polizia la presenza dei migranti. In questo modo mantengono il controllo totale sul traffico delle persone.” Intanto mi mostra dallo schermo del cellulare una foto di una cella buia in cui si riconoscono il suo volto e quello di Hassan. “Risale a un mese fa, dopo il nostro ultimo tentativo finito male. Arrestano anche i bambini, come puoi vedere.”

Yusuf non ha mai provato, spaventato dall’idea di muoversi insieme a otto figli. “Le difficoltà che ho incontrato viaggiando dalla Somalia a qui sono niente, in confronto a quello che mi aspetta sull’Adriatico”.

Osama racconta una storia incredibile: “Ho pagato duemila dollari per entrare in un camion diretto a Bari. Ero insieme a altri venti muhajirin afghani. Abbiamo navigato per un giorno interno, partendo da Patrasso. Sembrava tutto regolare. Una volta arrivati, il camionista ci ha fatto scendere in un luogo isolato ed è andato via. Solo al mattino abbiamo scoperto che ci trovavamo sull’isola di Creta, invece che in Italia.”

Alle cinque del mattino andiamo finalmente a dormire. Nel silenzio della stanza chiedo a Alì se abbia mai sentito parlare di respingimenti extra legali sul fiume Evros. Un lungo sospiro precede la sua risposta: “Il 25 novembre del 2006 l’esercito greco ha messo me e tutta la mia famiglia su un barcone, insieme ad altre centoventi persone. Ma non ci hanno rispedito in Turchia. Ci hanno lasciato in piena notte su un isolotto in mezzo del fiume. I miei due figli più piccoli, gemelli, avevano due mesi. E’ stato il giorno più difficile della mia vita.” Il duro racconto riempie il breve intervallo temporale che precede l’alba.

Quando dalla finestra entra la prima luce, Alì si alza dal letto. “Io non ho sonno, lo vuoi un caffè?” Sorrido. Per lui inizia un’altra interminabile giornata d’attesa, per me l’ennesimo giorno a caccia di Mussa Khan.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta