Grecia, fumo sull’acropoli

Ancora una volta, per la Grecia "momenti decisivi" per risolvere una crisi che sembra ormai senza fine. Nonostante proteste violente e dosi massicce di austerità non è affatto sicuro che il paese riesca a restare nell’Eurozona. Di sicuro c’è soltanto che Atene si prepara a delicate elezioni anticipate, previste ad aprile, mentre crolla la fiducia dei cittadini nella propria élite politica

14/02/2012, Francesco Martino -

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Atene dopo gli scontri - how will i ever/flickr

“Negli ultimi due anni per più volte è sembrato che la Grecia avesse toccato il fondo, per poi cadere ancora più in basso. La mia speranza è che, stanotte, il fondo lo abbiamo toccato davvero”. Così, con un “tweet” disincantato e amaro, Nick Malkoutzis, blogger e vice direttore della versione inglese del quotidiano Kathimerini ha commentato l’ennesima tragica puntata della crisi in Grecia.

Una visione dolente che si staglia sulle rovine fumanti lasciate ad Atene da giornate di tensione e violenza, uno spettacolo che in questi mesi è diventato triste normalità per le strade della capitale greca. Mentre domenica scorsa il parlamento greco votava un’altra massiccia dose di misure di austerità, la piazza esplodeva ancora. Alla fine il bilancio finale registra decine di feriti, 74 arresti, 45 edifici in fumo, tra cui il cinema “Attikon”, un pezzo importante della storia viva di Atene.

Anche nei corridoi della politica, l’approvazione del nuovo piano richiesto dalla “troika” (UE, FMI, BCE) come condizione necessaria per l’allocazione del secondo pacchetto di salvataggio di 130 miliardi, ha lasciato cicatrici profonde. Alla fine, 199 deputati su 300 hanno detto sì a riforma radicale del mercato del lavoro, diminuzione del 22% dei salari minimi, pensioni decurtate, tagli generalizzati alla spesa e nuove privatizzazioni.

Il sistema politico greco, però, scricchiola sempre più paurosamente. Tanto che i due partiti di maggioranza i socialisti del Pasok e i conservatori di Nea Dimokratia hanno dovuto espellere rispettivamente 20 e 21 deputati, rei di non aver voluto sottoscrivere il nuovo pacchetto. Il terzo soggetto membro dell’esecutivo guidato dall’ex banchiere centrale Lucas Papademos, i nazionalisti del LAOS, si era sganciato ancor prima del voto, abbandonando l’esecutivo.

Conseguenza inevitabile, la conferma di elezioni anticipate. “Le elezioni, come da impegni presi, verranno tenute non appena i partner europei avranno approvato il nuovo prestito da 130 miliardi di euro, e si sia proceduto alla ristrutturazione del debito”, ha dichiarato ieri Pantelis Kapsis, portavoce del governo. “La ristrutturazione sarà portata a termine a marzo, e ad aprile andremo alle urne”.

In realtà, sulla reale capacità di arrivare ad un accordo con gli investitori privati sulla ridenominazione del debito (il famoso “haircut”), e di poter accedere così agli aiuti europei entro il 20 marzo, quando scadranno obbligazioni per 14 miliardi di euro e la bancarotta potrebbe trasformarsi in dura realtà, aleggiano seri dubbi. Anche perché la reazione più attesa, quella dei vertici di Berlino è stata estremamente cauta, ai limiti della freddezza. La strada delle elezioni, invece, sembra ormai ineludibile.

I partiti greci si preparano ad entrare in campagna elettorale in condizioni critiche, con la fiducia degli elettori in crollo verticale. Il Pasok, che dovrebbe scegliersi in tutta fretta un nuovo leader (si parla del ministro delle Finanze Evangelos Venizelos) viene dato oggi dai sondaggi ai minimi storici. Nea Demokratia sembra fare meglio, ma la posizione del partito, che da fermo oppositore degli accordi con la “troika” ne è diventato sottoscrittore attivo, è traballante.

A registrare crescita significativa sono i partiti di sinistra contrari alle misure di austerità: la Coalizione della Sinistra radicale (SYRIZA), il Partito comunista greco (KKE) e la Sinistra democratica. La possibilità di queste formazioni di partecipare alla prossima maggioranza (che, visti i numeri, sarà formata quasi sicuramente da una nuova coalizione) è comunque minima.

Anche perché i vertici dell’UE vogliono giocare sul sicuro, e non sembrano disposti a tollerare che i risultati delle prossime elezioni possano mettere in discussione i vincoli degli accordi già presi, neppure se dalle urne dovesse emergere una volontà popolare diversa. La settimana scorsa l’Eurogruppo ha chiesto ai leader di Pasok e Nea Dimokratia di sottoscrivere obblighi scritti a rispettare gli accordi presi anche dopo il voto. Secondo la stampa ellenica, le lettere da firmare sarebbero già nelle mani di George Papandreou e Antonis Samaras.

Secondo l’UE i greci potranno dunque scegliersi nuovi rappresentati, ma chiunque abbia idee diverse sulla gestione della crisi verrà di fatto escluso dalla possibilità di partecipare al governo. Una ferita viva all’idea stessa di democrazia applicata, per ironia della sorte, proprio al paese che del sistema democratico è stato la prima culla.

Ma anche una ferita all’humus stesso che ha dato vita al progetto dell’Unione europea: la fiducia reciproca. Perché è evidente che il caso Grecia, partorito dalla condotta irresponsabile della classe dirigente ellenica, ma incancrenito da risposte deboli, tardive e miopi a livello comunitario, ha spezzato, forse irreparabilmente il patrimonio di credito tra Atene e le altre capitali europee, soprattutto Berlino. Un bene prezioso che si accumula lentamente e che, una volta perduto, si recupera a fatica.

Il prezzo del sospetto viene ora pagato dai cittadini greci, condannati a misure durissime per ripagare i debiti accumulati, ma con speranze quasi nulle che i sacrifici possano far ripartire l’economia e ridare speranza di lavoro e dignità. E col rischio, sottolineato da molti economisti, che alla fine la Grecia sarà comunque obbligata ad alzare bandiera bianca e ad abbandonare la moneta unica.

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