Grande guerra: lo spirito d’Europa
Questa settimana a Sarajevo il clou degli eventi sul centenario dall’attentato di Sarajevo. Abbiamo incontrato Egidio Ivetić, che insegna storia dell’Europa orientale all’Università di Padova
A Sarajevo sono in programma diverse iniziative in occasione del centenario dell’attentato di Sarajevo. Vi sono pareri critici sul programma, in particolare per il timore che vengano enfatizzati gli aspetti celebrativi…
Una premessa: sull’interpretazione del 28 giugno si è scritto parecchio negli anni ’50-’60, in quanto vi si è visto l’origine della guerra che ha poi portato alla nascita della Jugoslavia. Poi, col tempo, l’interesse si è sopito e il tema della Prima guerra mondiale è stato marginale nel dibattito pubblico.
In Croazia ad esempio non vi è alcun interesse. La Bosnia Erzegovina invece è stata investita da queste celebrazioni e qualche libro uscito di recente ha nuovamente fatto emergere la tesi su una presunta responsabilità da parte della Serbia, per aver armato i giovani che hanno compiuto l’attentato, collegando poi queste responsabilità a quelle relative agli anni ’90. Francamente mi trovo scettico in merito, non trovo nessuna relazione.
In generale, nel ricordare il centenario dell’attentato, c’è un rifiorire di stereotipi: Balcani come zona in ebollizione, la polveriera d’Europa. Un altro aspetto importante: l’accalcarsi di tante iniziative rischia di essere vissuto anche come un’intrusione da parte dei cittadini di Sarajevo.
A livello europeo vi è una riflessione sul ’14 ma che prescinde dalla riflessione sui venticinque anni dalla fine dei regimi dell’Est, e su cosa questo ha significato per quell’Europa che si è cercato di costruire nel Novecento.
Vi è quindi il rischio di soffermarsi su un singolo episodio, in un singolo luogo, senza allargare lo sguardo?
L’evento del 28 giugno 1914 fa parte della narrazione, dell’identità e identificazione culturale europea. Non c’è manuale di storia dove non si parli dell’assassinio. Però riportarlo all’interno di una narrazione dove viene identificata una “zona da cui viene fuori il male” non mi pare il caso; c’è anche attualmente una zona di forte crisi, una zona di frattura o “faglia”, che è l’Ucraina, però nessuno parla di una “zona da cui viene il male”.
Bisogna aggiustare la prospettiva: i Balcani sono stati un’area dove si sono scaricate le tensioni europee. La Prima guerra mondiale è di fatto la terza guerra balcanica; soprattutto dopo il 1908 vi fu un convergere di pressioni, perché si era rotto l’equilibrio tra Russia ed Austria-Ungheria e la situazione cominciò a peggiorare drasticamente. L’equilibrio non si è rotto a causa dell’attentato, ma la rottura era già nell’aria. C’erano tutte le precondizioni per la guerra.
Su Gavrilo Princip vi sono pareri discordi, accentuati in occasione del centenario. Ci può essere una lettura condivisa sugli eventi e sulla sua figura?
Quello del ’14 non fu il primo attentato contro un sovrano o un membro di una casa reale: nel 1881 era stato ucciso lo zar, nel 1900 Bresci aveva assassinato Umberto I. Nel 1910 uno studente serbo/bosniaco aveva sparato a Zagabria contro il Governatore della Croazia senza ucciderlo, e poi si era suicidato. Il giovane era divenuto un eroe: l’eroe della gioventù jugoslavista. C’era stato un secondo attentato nell’autunno del ’13, come conseguenza dell’euforia delle vittorie serbe. Anche in questa occasione nessuno aveva perso la vita, però il gesto aveva avuto una grande eco.
A quel punto gli aderenti alla Giovane Bosnia, che oscillava tra un’idea di rivoluzione culturale e intenzioni t[]istiche, cominciarono a progettare qualcosa. A differenza di altri attentati, che erano stati compiuti da una sola persona, quello del ‘14 fu programmato da un gruppo – tra l’altro, era un musulmano quello che procurò le armi – e da lì è forse nata l’idea che si sia trattato di un complotto.
Gli aderenti alla Giovane Bosnia avevano un’idea di Jugoslavia. Comunque vi era un collegamento, anche se non netto, con l’organizzazione segreta degli ufficiali serbi “La mano nera”, quella che stava dietro l’atroce assassinio del re di Serbia Alessandro Obrenović nel 1903. Non è dimostrato però che si sia trattato di un complotto, organizzato o sostenuto dalla Serbia.
Princip disse in prigione che aveva ammazzato Francesco Ferdinando, tra l’altro, perché pensava che quest’ultimo potesse creare una soluzione “trialista”. Ma questa era solo propaganda: attorno a Francesco Ferdinando giravano infatti voci secondo le quali, una volta diventato imperatore, avrebbe concesso dei privilegi, delle autonomie, una sistemazione che prevedesse una sorta di Jugoslavia asburgica. Quindi è stato affermato che questi ragazzi – erano poco più che liceali – abbiano sparato anche perché si opponevano a una soluzione del genere, volendo invece una soluzione massimalista, cioè la disgregazione dell’Austria-Ungheria e la creazione di uno stato slavo-meridionale (jugoslavo) a direzione serba.
In questa rozza revisione dei fatti si dimentica però che in quel momento la Serbia aveva una politica assolutamente balcanica, che non guardava a occidente. Tutta la concentrazione era rivolta verso il meridione per due obiettivi. Primo: integrare i territori che aveva appena acquisito. Secondo: trovare uno sbocco marittimo, però nel meridione, cioè nella zona di Ragusa, oppure a Lezhë, a sud di Scutari.
Qualche pubblicazione, anche ora, torna su questa tesi. Nello spazio direttamente coinvolto, cioè la ex Jugoslavia, è però da ribadire un disinteresse totale in questo momento sulla questione, se non da parte degli storici serbi, intenti a rigettare qualsiasi tesi delle responsabilità della Serbia, che a me sembrano assolutamente prive di significato.
Per cogliere il “significato” di quanto avvenne a Sarajevo non vi sono più soltanto gli storici, ma c’è il mondo della cultura in generale, c’è la politica. Quali riflessioni si possono trarre nell’occasione della ricorrenza del centenario?
Io credo che il centenario sia un avvenimento, non solo per l’area balcanica, ma di portata europea e di conseguenza occorre una grande riflessione europea, ma non tanto sull’attentato o su chi ha armato gli attentatori. Dopo l’attentato vi fu un “effetto domino” perché vennero al pettine in due-tre giorni tutti i nodi della politica europea dei cinquant’anni precedenti.
In sintesi dobbiamo soprattutto riflettere su che cos’era l’Europa nel’14. Esaminando il clima politico europeo, maturato dal 1908 in poi, credo ci fosse una tendenza all’autodistruzione. Era un’Europa declinata per imperi e nazioni e non vi era alcuno spirito europeo.
Gli avvenimenti del ’14 e la Prima guerra mondiale possono essere visti in rapporto alla situazione attuale, per trarre delle lezioni dal passato? O vi è il rischio, quando si guarda al passato con l’occhio rivolto al presente, che si vada a deformare quella che era la situazione storica?
Ricordo quello che mi hanno insegnato a scuola da bambino: Historia magistra vitae. Per anni, personalmente ero scettico. Ero scettico anche durante le guerre jugoslave. Adesso come adesso, posso dire: guardando gli ultimi cent’anni, il primo insegnamento è che non bisogna ripetere e non bisogna sottovalutare la scelta bellica: un percorso di pace è sempre meglio di un percorso di guerra.
Secondo insegnamento: bisogna guardare a questi accadimenti nel loro sviluppo temporale, per non ripetere gli []i e per costruire una visione storica, cioè avere un’idea verso il futuro che deriva da una prospettiva storica.
L’interesse per le cosiddette visioni storiche è scemato anche perché alcune di queste erano il nerbo di regimi totalitari che hanno portato alle carneficine della Seconda guerra mondiale. Il decostruzionismo ha appunto decostruito il concetto di visione storica. Ma oggi ci troviamo di fronte a una Russia che sta lavorando sulla propria visione storica. Anche gli americani vivono di narrazione. Noi europei non abbiamo invece alcuna narrazione comune. Eppure ce n’è bisogno e nel caso europeo la narrazione credo possa derivare dalla giusta considerazione di tutte le opzioni possibili.
Lei sostiene che nel ‘14 si sono scaricate sui Balcani le tensioni europee, mentre negli anni ’90 le tensioni erano tutte interne alla (ex) Jugoslavia. Tensioni che non sono sopite…
Quando un sistema federale è messo sotto pressione economica, le varie unità cercano di venirne fuori da sole, cercano sbocchi alternativi. Cosa del resto non del tutto estranea all’Europa di oggi. Il Regno Unito, con grossi problemi interni, sta tentando la strada di un riposizionamento globale. In questo non gli interessa l’Europa. Inoltre in seno all’Europa è evidente la divisione nord/sud. Una partizione che è un cliché che si ripete: c’era nella Jugoslavia, dove le élite hanno scaricato questa tensione puntando sul nazionalismo.
Ma quale atteggiamento verso i Balcani, cosa ci si può aspettare dalle istituzioni europee?
Si rimarrà nell’ambito delle più classiche dinamiche dell’integrazione europea, cioè: prendiamoli dentro, e poi vediamo cosa esce fuori.
E l’Europa, messa come sappiamo, è in grado di fare questo?
No. Anche l’integrazione di Romania e Bulgaria non si è pienamente realizzata. Sono arrivati tardi, poi è cominciata la crisi del 2008. Nell’Europa di oggi poi oltre alla dicotomia nord/sud, vi è un sud-est con problematiche molto complesse.
Sono purtroppo scettico, non credo molto nell’integrazione. Ad esempio in Serbia, paese in coda per l’ingresso, si presentano dinamiche interne molto complesse che prima non c’erano: criminalità organizzata, mafie trasversali tra Kosovo, Serbia e Montenegro. Questa è la situazione locale. E a fronte di questo nei paesi Ue non c’è più uno spirito favorevole all’integrazione. Si tende a dire, sono problemi loro.
Poi ci sono altri elementi su cui riflettere. Una notizia recente: ai primi di giugno, su iniziativa europea, è stata bloccata la costruzione del South Stream, il gasdotto che doveva passare per il Mar Nero e la Bulgaria e doveva fare della Serbia il centro di distribuzione del gas russo. È stato sostituito da un progetto che costa sei volte di meno: una condotta che va dall’Azerbaijan e passa per Turchia, Grecia, Albania, e va verso nord lungo la dorsale adriatica. La Croazia diventerà così il centro di questo nuovo flusso, tagliando fuori Serbia e Bulgaria.
Vi è quindi una ridefinizione dell’Europa attraverso la prospettiva di autosufficienza energetica. E’ questa la questione politica più importante per l’Europa dei giorni nostri.
Quindi avremo ancora una situazione in cui c’è chi sta al di qua e chi sta al di là?
È interessante notare come la Croazia, che era periferia, con la scelta relativa al South Stream diviene un nodo energetico cruciale, si può dire divenga occidente. La Serbia, che doveva seguire quel destino, rischia di venir tagliata fuori.
La Croazia, secondo me, è ormai il litorale d’Europa. Da Bratislava all’Istria ci sono sei ore, da Vienna cinque, da Monaco sei, da Praga e Cracovia sette-otto. Ed è uno degli elementi cruciali nel processo molto dinamico di ridefinizione dell’Europa centrale, una zona sempre più prospera: il suo ingresso nell’Ue sta definendo il confine meridionale di questa Europa centrale. E io temo che nei Balcani, a causa del South Stream che viene bloccato e che doveva essere anche un fattore d’integrazione, possano tornare vecchie tensioni.
Vi è una generazione di intellettuali, di scrittori nell’area linguistica serbocroata che hanno spinto per integrare lo spazio ex-jugoslavo. Ma la realtà politica non è così, i politici si stringono le mani e poi i processi integrativi rallentano. Attualmente abbiamo uno scollamento, in Italia e ovunque, tra gli intellettuali più dinamici, più giovani che lavorano sull’integrazione dello spazio, sull’integrazione culturale, e la politica che non dà alcuna risposta. Scenari drammatici per il futuro? No, ma il possibile percorso d’integrazione si è ora interrotto.