Gli occhiali di Tito
I genitori sono stati partigiani e in seguito quadri dirigenziali della Jugoslavia titina. Negli anni ’60 sono però finiti in disgrazia e sono emigrati. Un viaggio alla riscoperta della propria famiglia nel documentario “Titos Brille – Tito’s Glass” di Regina Schilling
Il maresciallo Tito indossava gli occhiali quando era giovane? Una bella domanda o, piuttosto, una bella delusione per una figlia cresciuta nel mito del proprio padre, eroe partigiano, che raccontava di aver riparato in condizioni d’emergenza gli occhiali del comandante rottisi durante una battaglia in montagna.
È un quadro a Bled, a Vila Bled che fu residenza estiva del presidente jugoslavo, a spezzare una certezza nella vita di Adriana Altaras. La donna è la protagonista del documentario “Titos Brille – Tito’s Glass” di Regina Schilling, vincitore del concorso internazionale “Le donne raccontano” del Festival Sguardi altrove tenutosi a Milano nelle scorse settimane. Un film che inizia con le strofe di “Bella ciao” in italiano sui titoli di testa.
È la storia di Adriana e dei suoi genitori, il padre Jacob eroe della resistenza e la madre che sopravvisse ai campi nazisti e fu partigiana. Entrambi ebrei, entrambi comunisti, entrambi in carriera dopo la fine della guerra: uno colonnello dell’esercito e medico radiologo, l’altra architetto.
All’improvviso, nei primi anni ’60, l’accusa di corruzione per l’uomo, un infamante processo e la fuga precipitosa all’estero, per stabilirsi in Germania. La loro unica figlia aveva quattro anni e non poté neppure vedere l’uscita del film “Nikoletina Bursać” (1964) di Branko Bauer, nel quale aveva avuto una parte.
Affidata a una zia in Italia, sul lago di Garda, fu portata a 7 anni in Germania per frequentare la scuola senza sapere una parola di tedesco. Ora vive a Berlino, ha una famiglia, fa l’attrice, ha scritto un libro sulla sua storia e, molti anni dopo la prima proposta, accetta l’invito della sua amica regista Regina Schilling per un viaggio alla scoperta del passato e del non detto della sua famiglia: utilizzando anche le tante fotografie e i tanti Super8 lasciategli dai genitori.
Parte in auto, la prima tappa a Giessen, cittadina dell’Assia poco distante da Francoforte, dove i suoi vissero mentre lei era dalla zia o in collegio. Il padre lavorò come radiologo ed era un’autorità in città: ne incontra la vecchia segretaria. Scopre che i genitori abbandonato il comunismo si dedicarono sempre più alla causa ebraica, costruendo una comunità ebraica e una sinagoga, progettata dalla madre. Dalle fotografie scopre i tradimenti del padre, che aveva avuto tante donne, tutte bionde, molto simili tra loro.
La seconda tappa è Bled, in Slovenia, dove trova il quadro raffigurante un Tito giovane e senza occhiali. Una leggenda su suo padre eroe narrava che in guerra, durante una battaglia, avesse riparato gli occhiali rotti di Tito. Il quadro smonta la convinzione della figlia, che conferma di avere un sentimento positivo verso Tito, pur sapendo che era un dittatore, e di sentirsi vicina a partigiani.
Lo storico Slavko, che si unì ai partigiani a 13 anni, le racconta la resistenza da parte degli ebrei del campo di concentramento di Rab, l’unico liberato, con i partigiani che ridiedero la libertà a 3.200 detenuti. Terza tappa il lago di Garda da sua zia Jele, che ora ha 94 anni, con la quale aveva trascorso tre anni della sua infanzia. Una donna che sposò l’ufficiale italiano che l’aveva liberata dal campo, solo per riconoscenza.
Le racconta della casa circolare del nonno imprenditore costruita dall’allora famoso architetto Planić sulle colline intorno a Zagabria: nel ’41 arrivarono i nazisti e persero tutto, il nonno morì, madre e figlie fuggirono sulla costa ma furono poi rinchiuse a Rab.
A Spalato, Adriana è attesa dal marito Wolfgang e i due figli. Se i suoi genitori non l’hanno mai riportata in Jugoslavia, vuole che la sua famiglia veda quei luoghi. Visitano la sinagoga del Bar Mitzvah di suo padre per preparare quello imminente del figlio minore, Lenny. Vanno poi all’isola di Vis, da sempre strategica per l’Adriatico, e dove si rifugiò Tito. A Spalato vedono quasi 50 anni dopo “Nikoletina Bursać”, che la tv jugoslava mandava in onda il giorno del compleanno di Tito. Nel frattempo la donna scopre di più sul processo al padre e sulla famiglia di lui.
Adriana riparte poi verso Zagabria, dove è stata diverse volte da adolescente, ma sempre senza i genitori. Va da Stefo, il nipote dell’architetto Planić. Entrambi “soffrono di troppo passato”, mentre la zia Jele ripeteva spesso “Il passato è adesso”. Adriana cerca la vecchia casa della famiglia materna, si informa per la restituzione dei beni, ma i tempi sono troppo lunghi, poi al cimitero. Non manca il passaggio da Rab, portandosi i disegni che aveva fatto la madre da prigioniera.
Adriana racconta con la sua voce. Un viaggio tra i ricordi e “di liberazione”, utilizzando anche simbolicamente la vecchia Mercedes del padre che ha 35 anni. Tante immagini dei Super8 familiari e foto. La storia jugoslava, si somma a quella tedesca e quella europea, fa capolino pure la cultura italiana, con “Bella ciao” e anche “Vecchio frack” di Modugno in colonna sonora.
Forse il processo di accettazione e comprensione non è completo, se la protagonista vorrebbe rimuovere dopo molto tempo le tombe dei nonni nel cimitero di Zagabria perché “circondati dai cristiani”. Il viaggio serve comunque a rimettere insieme pezzi di memoria, a capire meglio, per sé e per gli altri. La storia personale e familiare che diventa quella del paese come in altri documentari recenti “Goli – Isola nuda” della croata Tiha K. Gudac, vincitore al Sarajevo Film Festival, o “Flotel Europa” (che curiosamente cita un altro film di Branko Bauer) del bosniaco Vladimir Tomić, presentato al Forum dell’ultima Berlinale.
A Milano nel concorso lungometraggi Nuovi sguardi di Sguardi altrove, vinto dall’israeliano “Ben Zaken” di Efrat Corem, c’erano anche lo sloveno “Drevo” e il turco “Mavi dalga – The Blue Wave”. Il secondo racconta le scelte di una diciottenne che vive in una cittadina che aspetta la costruzione di un gasdotto dalla Russia come se fosse la soluzione dei suoi problemi.
Intanto a giugno esce finalmente nelle sale italiane “Cinema Komunisto” (2010) della serba Mila Turajlić, distribuito da Cineclub internazionale che da pochi giorni sta facendo circolare il bel “Figlio di nessuno”, esordio del serbo Vuk Ršumović, vincitore del premio del pubblico della scorsa Settimana della critica di Venezia, del premio Fipresci della critica e del premio Fedeora per la miglior sceneggiatura.