“Gli innocenti” di Burhan Sönmez

“L’uomo è il rifugio dell’uomo”, una risposta di fiducia al destino di tutti gli esiliati. Una marea di piccole storie che compongono una grande storia tra la Turchia e Cambridge, tra la memoria e l’esilio. Diego Zandel intervista lo scrittore turco Burhan Sönmez

04/04/2014, Diego Zandel -

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(Burhan Sönmez)

Burhan Sönmez è un giovane scrittore turco, costretto da alcuni anni all’esilio, in Inghilterra a Cambridge, per motivi politici. Rientrato in patria ha partecipato attivamente alle proteste di piazza Taksim. Ora, in Italia, è stato tradotto un suo romanzo “Gli innocenti”, edito da Del Vecchio e lo scrittore è venuto a Roma per presentare il libro alla manifestazione letteraria “Libri come”.

Gli abbiamo fatto alcune domande sul suo libro molto bello, che coniuga il dolore dell’esilio con i ricordi, i miti e le leggende della sua infanzia nella pianura dell’Haymana, a sud di Ankara. L’incipit stesso del romanzo, tradotto dal turco da Eda Ozbakay, lo ricorda: “La mia patria era l’infanzia”, una frase che qualsiasi esiliato e profugo può fare propria.

La storia è quella dell’alter ego dell’autore, Brani Tawo, che incontra a Cambridge, in una libreria, un’altra esiliata, Feruzeh, proveniente dall’Iran. I due, che finiranno per amarsi, attraversano l’esilio coltivando la memoria, arricchendola con le loro letture e la loro cultura.

Il ruolo della memoria è molto importante nel suo romanzo che, a capitoli alternati, passa dal tempo presente di Cambridge ai ricordi del passato, fino a tre generazioni prima.

Sì, il romanzo si svolge su tre livelli, tutti legati alla memoria. Il primo livello è quello del paese d’origine, dal quale i due protagonisti sono arrivati da esiliati. Il secondo è l’infanzia dei protagonisti. Il terzo riguarda la vita e la morte, in quanto il protagonista è sopravvissuto ad alcune violenze.

Quelle violenze per cui soffre d’insonnia?

Sì, il protagonista è stato vittima di un attacco della polizia… Ma i problemi sono altri.

Ce li dica.

C’è un detto turco che dice: “Se qualcuno riporta molto spesso le parole di Allah, allora bisogna sospettare che stia facendo qualcosa di male”. Oggi vediamo che il governo di Erdogan parla molto di tradizione, dell’Impero ottomano, dell’esercito turco, della grande cultura passata del paese, mentre parallelamente, di fatto, sta lavorando per distruggere il passato, cancellando vecchie foreste, inquinando i vecchi fiumi, cementificando, in nome di un industrialismo estremo. Noi interpretiamo tutto in questo modo: distruggiamo il passato e costruiamo il futuro.

Il suo libro guarda molto al passato, arriva ai ricordi di suo nonno, alla guerra greco-turca. Lo fa con molta poesia e, insieme, con continui richiami letterari.

La poesia è forse l’elemento più importante, perché è quella che rappresenta il passato, non il presente. Il mio paese, la mia infanzia, tutto è legato alla poesia. Un elemento reale che ho inserito nella storia è una scritta che ho trovato in un sottopassaggio di Cambridge. Una mano anonima aveva scritto: “L’arte della poesia…”, poi qualcuno o qualcosa aveva fermato quella mano. Io, per delle terapie mediche, facevo tutti i giorni quel sottopassaggio e leggevo quella frase monca riflettendo anch’io sulla conclusione da darle. Un giorno qualcuno la concluse, e lessi “L’arte della poesia sta morendo”. E’ stato un momento importante della mia vita, un momento simbolico. Ho cominciato a pensare a questo libro, per il quale avevo moltissime storie, e volevo che questa fosse una storia nella storia. I richiami letterari servono a questo scopo, s’incastonano nella vicenda senza essere invasivi.

L’inghilterra, Cambridge, dove i due protagonisti s’incontrano, cosa rappresenta? Brani Tawo chiede a Fenoreh: “Se tu venissi seppellita qui, questa terra cosa sarebbe per te?”

La domanda è tratta da una citazione di Rupert Brooke, il poeta morto e sepolto in Grecia, a Skyros. Penso che sia una domanda che molti esiliati si pongono. Feruzeh gli risponde che era tornata in Iran e si era fatta tatuare una rosa, la rosa del Libro dei Segreti, per morire con quel ricordo dell’Iran sul corpo. Il riferimento è a una tradizione che risale all’antica Persia ed è ancora molto diffusa in Iran, dove ciascuno ha un suo Libro dei Segreti. Cioè quel libro che ciascuno di noi elegge a guida della propria vita, la mattina lo apri a caso, leggi una frase, e questa dà luogo a un’interpretazione della giornata che ti aspetti. Un po’ quello che un tempo si faceva in occidente con la Bibbia, aprendo a caso su uno dei suoi versetti.

Il suo personale Libro dei Segreti qual è?

(Burhan Sönmez arrossisce, imbarazzato). Ne ho tanti, ma sono tutti libri di poesia.

Nel romanzo c’è una frase di Wittgenstein. Il protagonista va sulla tomba del filosofo e incontra la donna che aveva scoperto di essere tradita dal marito dopo aver letto la frase del Tractatus Logico-Philosophicus: “Che il sole sorgerà domani è un’ipotesi; e ciò vuol dire: noi non sappiamo se esso sorgerà”. Ha scelto Wittgenstein perché è sepolto a Cambridge?

No, a Cambridge ci sono già troppe tombe di persone famose. Ho fatto una scelta legata a tanti motivi. La filosofia cerca di parlare del tutto e delle singole parti. Nella storia c’era chi partiva dal tutto per arrivare alle parti, e chi partiva dalle singole parti per comporle e arrivare al tutto. Wittgenstein, come Aristotele, credeva che il tutto non è altro che il creato dalle diverse parti. Il che significa che le piccole parti si mettono insieme per comporre il tutto. Ed è qui il significato del mio libro. Ci sono in esso tante piccole storie che, messe insieme, creano una grande storia. La filosofia di Wittgenstein mi serviva a questo, per spiegare la struttura del mio libro.

Cambridge rappresenta qualcos’altro in un romanzo che parla essenzialmente di Turchia?

A volte cerchiamo il modo migliore per raccontare la nostra storia. E talvolta lo si fa parlando d’altro. Il Don Chisciotte è la storia di un grande cavaliere, un idealista e sognatore, ma metà del libro riguarda Sancho Pancia, che è un uomo semplice, senza sogni, esattamente l’opposto. Però, attraverso Sancho Pancia, il lettore capisce meglio Don Chisciotte. Io volevo raccontare le storie del mio passato, dei luoghi della mia infanzia nella pianura dell’Haymana, e mi serviva qualcosa di contrario, di opposto. Nel mio libro Cambidge ha questa funzione.

Al termine dell’intervista mi soffermo a parlare con Burhan Sönmez rivelandogli il mio interesse per il suo libro alla luce del fatto che anch’io sono figlio di esiliati da Fiume, nato in un campo profughi. Vuole sapere di più, di una storia di cui, naturalmente, non sapeva nulla. Mi chiede se sono rimasti degli italiani in Istria e a Fiume. Sì, una piccola minoranza, gli rispondo. Poi, preso il suo libro lo apre e mi scrive la dedica in turco. L’interprete mi dice cosa ha scritto ed è la frase di un capitolo di esso, quello significativamente intitolato “L’uomo è il rifugio dell’uomo”. Una risposta fiduciosa per il destino di tutti gli esiliati.

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