Gli impatti ambientali delle attività umanitarie: alcuni punti di riferimento
Per la prima volta nella storia di un conflitto bellico dopo la guerra del Kossovo è stato richiesto al Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) di realizzare una valutazione degli impatti ambientali delle azioni militari. A cura di Massimo De Marchi.
Per la prima volta nella storia di un conflitto bellico dopo la guerra del Kossovo è stato richiesto al Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) di realizzare una valutazione degli impatti ambientali delle azioni militari. E’ stata costituita all’interno dell’UNEP la Balkan Task Force, che ha iniziato a realizzare delle missioni nell’area. Le prime missioni si erano concentrate sugli effetti dei bombardamenti Nato sui siti industriali in Serbia, successivamente sono state condotte le analisi sugli effetti dell’uranio impoverito e, più recentemente, sono state realizzate le valutazioni degli impatti ambientali dovuti all’accoglienza dei profughi kossovari in Albania e Macedonia.
La questione degli impatti ambientali delle attività umanitarie è quindi ritornata alla ribalta nel contesto più generale della valutazione ambientale degli effetti di un conflitto bellico.
Va però ricordatato che già nel 1996 l’UNHCR aveva predisposto un manuale di linee guida ambientali per le attività umanitarie. L’attenzione all’ambiente dell’UNHCR non si limitava alle emergenze post-conflitto bellico, ma in generale alle attività umanitarie.
Nel presente lavoro si analizzeranno le relazioni tra questione ambientale e attività umanitarie a partire da una rilettura critica dei documenti ufficiali prodotti dal sistema delle Nazioni Unite. L’obiettivo è di individuare alcuni elementi teorici e alcune prospettive operative per inquadrare le attività umanitarie nei più generali processi di relazione società-ambiente e di produzione e riproduzione territoriale. La lettura dei documenti ufficiali è prima preceduta da una breve introduzione ai concetti di ambiente e territorio.
L’ambiente: un concetto ambiguo tra settorialità e trasversalità
Ogni problematica scientifica è storicamente determinata e la questione ambientale non poteva che determinarsi storicamente come di fatto è avvenuto: un riconoscimento di alcuni problemi (inquinamento, estinzioni, degrado degli ecosistemi..), un’analisi lineare dai problemi alle cause (l’industria, l’urbanizzazione, l’uso dei pesticidi…), il tentativo di considerare l’ambiente come ulteriore "settore" da tenere sotto controllo. Si tratta in una super-sintesi di ciò che è avvenuto durante la prima fase della questione ambientale negli anni ’60 e ’70 del ventesimo secolo. Si è poi capito che bisognava passare da un approccio settoriale e lineare ad uno intersettoriale, reticolare, complesso. Tutti i documenti di politica ambientale di nuova generazione, dal Rapporto Bruntland, all’Agenda 21, dalla convenzione sulla Biodiversità a VI Programma Quadro ambientale dell’Unione Europea, sottolineano che la questione ambientale è intersettoriale e che l’attenzione all’ambiente deve essere prevista già dalla fase programmatoria di ciascuna politica settoriale (trasporti, energia, ecc.). Lo sviluppo sostenibile non è il risultato solamente di un’attenzione a tre settori: l’economia, l’ambiente, la società, ma è raggiungibile solo se si progetta uno sviluppo attento all’ambiente.
L’attenzione ambientale delle attività umanitarie si inserisce quindi in questo contesto di accresciuta attenzione ambientale nelle diverse attività di elaborazione di politiche e di presa di decisioni. Le modalità concrete di esprimere questa attenzione sono tuttora molto disomogenee, in ogni caso non sono state superate completamente alcune dicotomie quali settorialità-intersettorialità, prevenzione-cura.
Ma, prima di procedere oltre, conviene fare un passo indietro chiedendosi "di cosa si stia parlando" quando si usa il termine "ambiente", aspetto tutt’altro che semplice e scontato.Il concetto di ambiente è piuttosto ambiguo e assume significati diversi a seconda delle situazioni e dei soggetti che lo impiegano. L’ecologo Malcevschi (1) ha tentato di organizzare i significati dei termini spesso usati quali sinonimi di ambiente. L’autore ha utilizzato tre variabili di riferimento: gli elementi che compongono il sistema ambientale (acqua, aria, manufatti, popolazione umana, substrati fisici, altri organismi); l’esistenza (o meno) di un punto di riferimento del sistema di relazioni (l’uomo, una specie, ecc…); l’esistenza (o meno) di filtri percettivi. L’ambiente complessivo sarebbe la risultante delle sei componenti e delle reti di relazioni che le mettono tra loro in relazione; sempre secondo Malcevschi, la natura sarebbe il mondo esterno all’uomo: aria, acqua, substrati fisici, altri organismi.
Un contributo significativo alla concettualizzazione dell’ambiente viene dalle scienze geografiche con l’introduzione dei concetti di paesaggio e territorio ed in particolare con la concettualizzazione del territorio come risultato delle interazioni dinamiche tra società ed ambiente (2). E’ evidente che le società non si relazionano mai direttamente con l’ambiente o con una specifica componente ambientale, ma si relazionano con delle strutture di mediazione (il territorio) costituite da sistemi di denominazione (dalle classificazioni naturalistiche, ai toponimi, alle etnotassonomie), sistemi di reificazione (strutture fisiche realizzate per facilitare la reiterazione delle azioni), sistemi di strutturazione (regole di definizione di chi, cosa, quanto, dove, come, debbano avvenire le relazioni con i due sistemi precedenti e con il sistema delle risorse) (3). Una popolazione non "insiste" su un ecosistema secondo pure logiche maltusiane di capacità di carico, ma costruisce le regole di relazione, spesso non visibili.
Visibilità dell’ambiente ed invisibilità del territorio: sorprese per l’azione
Immaginando concretamente di dover individuare un’area per localizzare un campo profughi, o di voler avviare un progetto di post emergenza, ci si potrebbe immediatamente accorgere delle componenti naturali: fiume, foresta…Ci si potrebbe anche preoccupare di fare delle analisi delle acque o di raccogliere informazioni sulle componenti vegetazionali dell’ecosistema forestale. Se si notassero strade evidenti, recinzioni o picchetti, sarebbe possibile rendersi conto dell’esistenza di alcune regole di proprietà. Spesso però molte cose non si vedono, e data la situazione contingente si può ritenere di aver valutato a sufficienza la localizzazione. Dopo qualche tempo si potrebbe scoprire che sulla foresta esistono dei diritti di legnatico che configgono con i bisogni di legna del campo, o che l’area occupata dai rifugiati taglia un vecchio e consolidato sentiero di transumanza. Vi sono quindi molti elementi della territorialità (in altre parole delle regole tra popolazione e risorse) che non si vedono immediatamente proprio perché si è abituati a pensare che esista un ambiente naturale ed un ambiente umano, e che quest’ultimo coincida per forza con dei segni fisici sul territorio. Così è facile riconoscere una strada od un molo, una linea elettrica o una casa, ma diventa più difficile accorgersi dei diritti di pesca e di caccia, degli usi di legname e di pascolo, in altre parole da tutti quei territori che non sono accompagnati da una materializzazione delle regole.
Un altro aspetto riguarda le scelte possibili nel territorio in cui si opera, ogni scelta comprende l’adozione di tutte le scelte precedenti che se ne sia a conoscenza o meno (4). Nel quadro delle questioni ambientali dell’Europa del Sud Est la localizzazione di un campo profughi, o più in generale l’attivazione di progetti di sviluppo post emergenza si inserisce su una multi-stratificazione di problematiche ambientali. Si tratta di quattro "strati di problematiche" che vale la pena brevemente prendere in esame anche perché, per rimanere nella metafora, il piano di scivolamento non è facilmente prevedibile.
Il primo livello, il più profondo, per nulla seppellito dagli altri e facilmente affiorante, riguarda l’eredità del modello urbano industriale che ha caratterizzato nel dopoguerra la crescita economica dei paesi dell’Europa socialista (5). Tale modello ha determinato i "classici" problemi ambientali: peggioramento della qualità dell’aria e conseguente ricaduta degli inquinanti con acidificazione delle piogge, delle acque e dei suoli; ricaduta di ceneri su aree urbane ed agricole; peggioramento della qualità delle acque dovuto ai reflui urbani, civili, all’uso di fertilizzanti e pesticidi in agricoltura; produzione di rifiuti urbani, industriali e nucleari.
Il modello industriale, concentrato su alcuni bacini o poli, ha lasciato però intatte vaste aree interne e montuose permettendo la conservazione di ampie superfici forestali naturali e dei tradizionali sistemi agro-pastorali. Oggi la catena dei Balcani rappresenta uno dei più grandi centri di biodiversità europei (6), con una ricchezza di specie vegetali oscillante tra le 1500 a 3000 specie ogni 10.000 kmq.
Il secondo strato problematico riguarda la transizione economica post 1989: da economie pianificate ad economie di mercato. All’interno di questo strato tre variabili concorrono al cambiamento delle relazioni società-ambiente: la crisi della pianificazione centralizzata, la recessione economica, gli investimenti stranieri. Recessione economica e crisi della pianificazione hanno effetti contrastanti. Da un lato la caduta della produzione industriale diminuisce la domanda energetica e quindi le emissioni; in agricoltura la ridotta disponibilità economica diminuisce drasticamente l’uso di pesticidi e fertilizzanti, e la contrazione dei redditi famigliari riduce l’uso dell’automobile e del riscaldamento. Dall’altro, però, la mancanza di una pianificazione territoriale e dell’uso delle risorse apre scenari preoccupanti.
Nel frattempo le imprese occidentali che si spostano ad est possono fare i conti con standard ambientali meno restrittivi (si pensi alla fuoriuscita di cianuro dalla miniera di Baia Mare in Romania nel gennaio 2000), si aprono scenari di sfruttamento incontrollato delle risorse forestali e della biodiversità e l’industria turistica vede negli spazi naturali dell’Adriatico, del mar Nero, del Danubio e dei Carpazi opportunità di investimento senza vincoli.
Il terzo strato problematico è senza dubbio il lascito ambientale delle guerre, che riguarda non solo i paesi della ex-Yugoslavia direttamente coinvolti nel conflitto, ma anche i paesi vicini che hanno ospitato i profughi o le operazioni delle forze NATO, e tutti i paesi del bacino danubiano che hanno risentito degli effetti del blocco della navigazione, in seguito ai bombardamenti dei ponti e delle infrastrutture. E’ chiaro quindi che le problematiche ambientali della guerra non riguardano solamente la questione molto mediatica dell’uranio impoverito. In Bosnia Erzegovina la guerra ha lasciato tra i 5 e i 6 milioni di mine degradando una superficie di 1.200.000 ettari pari a circa il 24% territorio nazionale. Gli aiuti umanitari sono responsabili di 800 tonnellate di farmaci scaduti che non si sa come smaltire. I danni materiali hanno distrutto o seriamente danneggiato l’80% degli impianti di produzione energetica e la produzione industriale si è ridotta al 13% di quella precedente alla guerra. Il 60% delle case è stato danneggiato. Il degrado del suolo dovuto alle attività militari è stato ulteriormente aggravato dalla deforestazione attorno alle città per far fronte ai bisogni energetici, solo a Sarajevo sono stati abbattuti 40.000 alberi(7) .
In Serbia circa 150.000 tonnellate di petrolio sono bruciate in seguito ai bombardamenti delle raffinerie di Pancevo e Novi Sad, che hanno provocato l’incendio del cloruro di vinile con conseguente formazione di diossina e sversamenti di petrolio, mercurio, dicloroetano, ammoniaca nelle acque del Danubio. Anche quattro parchi nazionali sono stati bombardati e nel parco di Fruska Gora sono stati distrutti 30 ha di habitat di orchidee rare (8).
In Kossovo sono state distrutte 120.000 abitazioni (la maggior parte incendiate), impianti per il trattamento dei rifiuti e la distribuzione dell’acqua, gli archivi comunali ed i catasti.
La ricostruzione post bellica comporta nuove pressioni sull’ambiente: smaltimento delle macerie in un contesto di difficile gestione dei rifiuti (specialmente quelli di origine industriale e bellica), prelievi di ghiaia, sabbia, acqua, legname, con impatti ambientali diretti.
Il quarto strato problematico riguarda l’allargamento dell’Europa ad est e l’inclusione dei paesi del Sud Est Europa nell’Unione Europea. Il maggiore cambiamento umano ed ambientale si verificherà con la realizzazione delle infrastrutture viabilistiche ed energetiche legate alla nuova ridefinizione territoriale dell’Unione Europea (9). Un altro elemento che sta già portando ad una riorganizzazione territoriale del sud-est Europa riguarda l’obbligo di adozione di tutta la normativa ambientale prodotta negli ultimi 30 anni dalla comunità dei 15, da parte degli stati che intendono aderire all’Unione (10).
Questi strati problematici non si sovrappongono in maniera geometricamente parallela, ma si interdigitano e si intersecano rendendo complesso ed articolato il contesto d’azione.Ora, quando si progetta un intervento di prima o di post emergenza o di sviluppo, si rischia di concentrarsi sulle risorse ambientali visibili e solamente su uno si questi quattro strati (gli impatti della guerra) e non si vedono i territori invisibili delle regole non materializzate e dei processi preesistenti ed in corso.
La complessità degli elementi da utilizzare nella progettazione di azioni di emergenza o sviluppo non deve portare alla paralisi operativa, ma deve migliorare la qualità dell’intervento. Nei paragrafi successivi si passerà ad alcune indicazioni operative attraverso la lettura critica (sulla scorta di quanto già esposto) di alcuni documenti ufficiali.
Le linee guida ambientali dell’UNHCR
L’interesse dell’UNHCR per le questioni ambientali risale almeno alla fine degli anni ’80 con l’avvio della pubblicazione di una serie di manuali che toccava tematiche settoriali in qualche modo correlate all’ambiente (11). Nel 1993 l’UNHCR creava la Environment Unit e nel 1996 pubblicava le linee guida ambientali(12). Il manuale di fatto rende visibile l’adozione dell’attenzione ambientale nelle attività svolte dall’UNHCR in quanto l’ambiente rappresenta una questione trasversale ai diversi i settori e alle diverse fasi dell’emergenza. Il manuale nasceva da alcune constatazioni operative ricavate dalle esperienze dell’UNHCR:
-gli impatti ambientali dei rifugiati sono negativi sia per i rifugiati sia per la popolazione locale.
-le attività svolte dai rifugiati quali raccolta della legna, caccia, raccolta dell’acqua, causano seri danni agli ecosistemi portando in alcuni casi a degrado delle risorse e perdita di biodiversità.
-i paesi che ospitano i rifugiati sono sempre più attenti agli impatti ambientali (che si trasformano in danno economico) e al recupero dei siti degradati.
-la documentazione predisposta fino ad allora da UNHCR trattava l’ambiente ancora in maniera settoriale.
Il manuale intende supportare l’UNHCR nell’identificare preventivamente gli impatti ambientali delle attività umanitarie (impatto specifico a fronte di una specifica azione), e soprattutto individuare soluzioni contemporaneamente attente agli interessi dei rifugiati, dei paesi ospitanti, dei donatori, della stessa UNHCR.
Essendo un manuale esclusivamente tecnico non viene dedicato molto spazio all’approccio teorico utilizzato nell’impostazione degli strumenti operativi. Di fatto in una mezza pagina vengono elencate le quattro "assumptions", cioè le ipotesi su cui si basa il lavoro (13):
-gli impatti ambientali sono sottoprodotti inevitabili dell’esistenza umana e delle interazioni tra esseri umani e mondo fisico.
-è impossibile eliminare gli impatti negativi, ma la loro mitigazione è un obiettivo ragionevole.
-molte aree che ospitano o che "producono" rifugiati sono caratterizzate da un degrado ambientale indipendente dal movimento dei rifugiati; pertanto le attività umanitarie non si realizzano in un ambiente primario ma aggiungono impatti a problemi preesistenti.
-in molte situazioni è possibile con approssimazioni accettabili individuare il valore economico delle diverse tipologie di impatto e quindi usare criteri di efficienza economica per scegliere l’intervento.
Si noti come le ipotesi dimenticano di fatto "le strutture di mediazione" tra società e risorse, c’è in qualche modo nella terza ipotesi un’attenzione a situazioni ambientali preesistenti. In realtà le situazioni preesistenti non hanno a che vedere unicamente con il degrado ambientale, ma con l’esistenza di usi anche sostenibili, ben diversi dalla nuova pressione portata dall’attività umanitaria.
Considerata comunque questa carenza concettuale, il manuale presenta validi supporti operativi per un’attività di emergenza attenta alle questioni ambientali, entrando nei dettagli delle fasi dell’emergenza e delle diverse tipologie di azioni da adottare. L’UNHCR intende di fatto orientare le proprie attività in base a quattro principi:
– approccio integrato
– approccio preventivo
– massimizzazione dell’efficacia dei costi e dei benefici netti
– partecipazione locale
Sicuramente un approccio operativo attento alla partecipazione può superare un approccio all’ambiente esclusivamente ecosistemico, va però ribadito che nemmeno la dimensione partecipativa è scevra da ambiguità. Le due tabelle in basso presentano una sintesi dei problemi ambientali legati alle attività umanitari (n.1) e le azioni previste dall’UNHCR nella realizzazione di attività umanitarie attente all’ambiente (n.2). In sintesi dal manuale emerge che per l’attuazione di interventi umanitari attenti all’ambiente risulta centrale la fase pianificatoria che implica: la scelta degli esperti, la conoscenza delle problematiche ambientali, la localizzazione del sito, la previsione dei bisogni (legna, cibo, ecc…), la previsione di azioni che costruiscano sensibilità ambientale e relazioni tra le comunità.
Impatti ambientali associati alle attività umanitarie
Tipologia degli impatti e descrizione
Degrado delle risorse naturali – Il degrado delle risorse rinnovabili quali acqua, suolo e foreste rappresenta l’elemento più tipico delle attività correlate all’assistenza umanitaria. Il degrado delle risorse naturali è spesso accompagnato ad un impoverimento biologico. La contaminazione delle acque superficiali e profonde può avvenire quando non sono state prese misure sanitarie adeguate, a causa di un utilizzo eccessivo di pesticidi o a causa della percolazione di carburanti e lubrificanti dei veicoli. Nella predisposizione degli insediamenti una scarsa attenzione alla gestione del suolo può aumentare una situazione di instabilità o di degrado dei terreni.
Impatti irreversibili sulle risorse naturali– Si tratta in questo caso degli impatti su aree di alto valore naturalistico-ambientale caratterizzate da alta biodiversità che ospitano habitat e specie rare. Alcune di queste aree sono di importanza mondiale. Questa tipologia di danni è spesso irreversibile pertanto diviene importantissima la prevenzione e la mitigazione degli impatti.
Impatti sulla salute – L’ impoverimento delle risorse naturali in prossimità del sito minaccia la sicurezza alimentare a lungo termine e aggiunge impatti negativi sulla salute di un gruppo già debole. La scarsità di legna da ardere può causare l’uso di cibi poco cotti. Un alta percentuale di impatti negativi sulla salute sono causati dalla contaminazione chimica e biologica delle acque per l’uso umano. Polvere e fumo causate dall’utilizzo di legna fresca e di bassa qualità aumenta l’incidenza di malattie respiratorie. La maggior parte di questi problemi colpisce in maniera sproporzionata i gruppi vulnerabili: bambini e anziani.
Impatti sulle condizioni sociali -Gli effetti del degrado ambientale, particolarmente quelli correlati alla raccolta della legna da ardere sono particolarmente sentiti dalle donne e dai bambini. Le donne devono spendere molto tempo per la ricerca e il trasporto della legna. Tale tempo le espone alla fatica, agli assalti, sottraendo inoltre tempo all’attenzione per i figli, la famiglia, le funzioni sociali.
Impatti sulla popolazione locale– Le popolazioni ospitanti soffrono gli stessi impatti ambientali delle popolazioni rifugiate. La competizione tra locali e rifugiati per le risorse scarse (legna da ardere, pascolo, acqua) può causare conflitti e risentimenti. In alcuni casi il flusso di rifugiati ha portato al tracollo dei sistemi locali sostenibile di gestione delle risorse.
Impatti economici – L’influsso dei rifugiati si fa sentire anche nei mercati locali. Mentre gruppi ristretti della popolazioni locali può beneficiarne, i poveri locali sono spesso colpiti negativamente dall’aumento dei prezzi. La deforestazione, il degrado del suolo e delle risorse idriche, costituiscono un costo economico per le popolazioni locali. Lo stesso dicasi anche per la diminuita disponibilità di legna da ardere, materiali da costruzione, medicinali e cacciagione, ricavati dalle foreste vicine. Le conseguenze del degrado ambientale causato in prossimità del campo profughi può farsi sentire a distanza considerevole dal luogo iniziale: erosione del suolo, abbreviazione della vita utile dei bacini artificiali, con correlati problemi di inondazione e distruzione delle infrastrutture.
Attenzioni ambientali nella programmazione d’emergenza
Attività ambientali comuni a tutti i programmi
1.Inclusione di uno specialista nelle questioni ambientali nel team di emergenza
2.Dotazione di personale e risorse a supporto del coordinatore ambientale
3.Preparazione di un master plan ambientale o di un piano di azioni ambientali e implementazione di altri piani ambientali specifici
4.Attivazione di un data base ambientale e di un Sistema Informativo Geografico
5.Realizzazione di monitoraggi ambientali, individuazione di indicatori ambientali, raccolta di dati statistici rilevanti e di documentazione ambientale
6.Formazione dello staff sulle pratiche rispettose dell’ambiente
7.Ricerca sulle politiche, sui piani e i programmi ambientali
8.Promozione di tecnologie ambientalmente attente
9.Realizzazione di momenti formativi sulle questioni ambientali10. Realizzazione di attività di informazione sulle questioni ambientali
Attività ambientali settoriali
Logistica e forniture
Forniture attente all’ambiente "forniture verdi"
Progettazione edilizia
Promozione di materiali edilizi a ridotto impatto ambientale o raccolti in maniera sostenibile
Acqua
Protezione dei punti di prelievo
Salute
1.Gestione attenta delle latrine
2.Trattamento delle acque di scarico
3.Gestione appropriata dei rifiuti
4.Controllo della polvere
5.Controllo dei insetti e roditori
Alimentazione
1.Adozione di cibi che richiedano meno consumo energetico per la preparazione
2.Promozione dell’uso energetico efficiente nella preparazione del cibo
Energia
1.Promozione di un efficiente uso dell’energia
2.Fornitura di combustibili alternativi
3.Forniture sostenibili di legna da ardere
Foreste
1.Adozione di zone protette o di forme di accesso regolamentato alle foreste esistenti nei dintorni dei siti ospitanti rifugiati
2.Controllo delle raccolte
3.Promozione di una gestione sostenibile della foresta per favorire la rigenerazione naturale
4.Implementazione di progetti di riforestazione
Agricoltura
Minimizzazione dell’uso di fitofarmaci e promozione di metodi di produzione biologica
Allevamento
Fornitura di alternative alimentari e miglioramento del reddito (questione rifugiati allevatori e questione allevamento per i rifugiati)
Educazione e servizi di comunità
Promozione dell’educazione ambientale, della coscientizzazione e delle partecipazioneGenerazione di reddito. Promozione di attività produttrici di reddito e contemporaneamente attente all’ambiente
Nel 1999 la Environmental Unit è stata riorganizzata in un Engineering and Environment Service Section con una propria Newsletter. La questione ambientale è sempre più importante per l’UNHCR, che intende lavorare sullo sviluppo di indicatori di sostenibilità e anche su recupero ambientale a lungo termine (14). Oggi ai quattro principi di azione esposti nel manuale (approccio integrato, approccio preventivo, massimizzazione dell’efficacia, partecipazione locale) ne è stato aggiunto un quinto: l’attenzione al genere nelle problematiche ambientali.
Le missioni della Balkan Task Force in Albania e Macedonia
Tra l’11 e il 24 settembre 2000 si svolgevano due missioni della Balkan Task Force per valutare la situazione ambientale dell’Albania e della Macedonia post conflitto. Il gruppo di lavoro era organizzato in sottogruppi per l’analisi di tre aree problematiche: i siti industriali che necessitano di interventi urgenti, gli impatti ambientali dei rifugiati e le misure di rafforzamento delle capacità istituzionali per la protezione dell’ambiente. Il gruppo di lavoro sugli impatti ambientali delle attività umanitarie era costituito da un funzionario UNEP, un consulente dell’UNHCR e da un consulente UNEP area Balcani. Va ricordato che in Macedonia sono arrivati 261.000 profughi (il 58% ospitati da famiglie macedoni mentre il 42% viveva in 8 campi profughi), in Albania sono arrivati circa 459.000 profughi (il 61% ospitati da famiglie, il 18% ospitati in campi profughi, il 21% in strutture collettive)(15). La missione in Macedonia si è tenuta tra l’11 ed il 17 settembre, quella in Albania la settimana successiva. In tutte e due le missioni sono stati analizzati gli impatti dovuti ai rifiuti, ai rifornimenti idrici e agli scarichi. Per quanto riguarda le componenti ambientali vi sono delle differenze nelle analisi svolte nei due paesi: in Albania l’attenzione è stata rivolta alle foreste e alla biodiversità, ai suoli agricoli, e al recupero delle aree e degli spazi verdi urbani. Questo ultimo aspetto è particolarmente rilevante visto che alcuni insediamenti di profughi sono stati realizzati in aree ricreative o aree verdi urbane. Anche in Macedonia sono state analizzate le problematiche dei suoli agricoli, delle foreste e della biodiversità; la differenza in questo caso sta nell’analisi rivolta alla qualità delle acque, visto che cinque campi profughi erano stati allestiti nell’area di captazione della falda che alimenta l’acquedotto di Skopje (16). Per ragioni di brevità, vale la pena passare immediatamente alle "lezioni apprese" durante la missione sul campo. Innanzitutto è stato rilevato che le linee guida ambientali predisposte dall’UNHCR ancora nel 1996 non sono circolate a sufficienza e non erano conosciute da molti degli operatori umanitari (17). Inoltre, sia in Albania che in Macedonia, il comitato governativo che ha gestito la crisi non prevedeva la presenza di un’autorità ambientale; questo è comunque comprensibile, vista la situazione verificatasi. Sicuramente l’aspetto più rilevante della valutazione riguarda la proposta di una diversa modalità di affrontare la programmazione delle attività umanitarie basandosi, sul LCM (life cycle management); cioè passare da un’analisi su tre tappe (scelta del sito, costruzione del campo, gestione) alla presa in considerazione di tutte le cinque tappe: scelta del sito, costruzione del campo, gestione, pulizia e recupero, sviluppo. Questo permette di internalizzare i costi del recupero e dello sviluppo all’interno delle attività umanitarie e di non far pagare i costi al territorio e al paese ospitante(18). Bisogna in qualche modo programmare cosa si farà poi dell’ex campo. L’agricoltura, attività spesso precedente all’esistenza del campo, risulta non più realizzabile dopo la copertura del suolo parziale o totale con inerti. Altri elementi importanti rilevati dalla missione sono l’eliminazione delle latrine a fondo perduto e l’utilizzo di serbatoi metallici, da conferire in siti di depurazione con un controllo severo degli sversamenti illegali. Altra questione riguarda i rifiuti, in media un profugo in Albania produceva 1,7 kg di rifiuti al giorno contro gli 0,7 della popolazione locale, ciò richiede una maggiore attenzione alla tipologia di forniture adottate. Si sta infatti riflettendo all’interno dell’UNHCR sulla riduzione dei materiali "usa e getta", già dal 1996 erano state predisposte le linee guida sulle forniture verdi; è chiaro che l’aspetto non è stato a sufficienza preso in considerazione dagli operatori umanitari.
Le conclusioni della missione ribadiscono che gli impatti ambientali delle attività umanitarie non sono stati particolarmente rilevanti e non rappresenteranno la priorità ambientale principale dei due paesi. Nei due paesi le priorità maggiori riguardano il recupero dei siti inquinati, l’organizzazione di un sistema di gestione dei rifiuti e delle acque reflue, il rafforzamento delle istituzioni deputate alla gestione dell’ambiente. E’ chiaro che le attività umanitarie hanno creato delle pressioni aggiuntive su un sistema di relazioni società risorse naturali già piuttosto critico, è su quel sistema che vanno concentrate priorità e risorse.
Promemoria per un’azione-riflessione critica
Quanto visto ci permette di tenere presenti alcuni punti di riferimento nel progettare azioni di emergenza e di sviluppo:
– l’attenzione ai territori non visibili
– l’attenzione all’esistenza di strati articolati di problematiche ambientali e territoriali
– l’uso degli strumenti tecnici esistenti adeguandoli alla situazione
– lo scambio e la gestione partecipata delle esperienze e delle conoscenze.
Si tratta di fare proprio il pensiero di Freire (19) "la percezione parzializzata del mondo toglie agli uomini la possibilità di cambiarlo"
Per quanto riguarda le azioni di assistenza umanitaria vale la pena porsi un interrogativo di fondo oltre all’approccio intersettoriale dell’ambiente, saranno le attività umanitarie ambientalmente compatibili la conseguenza di attività militari ambientalmente compatibili? Stiamo preparando le guerre sostenibili? La tecnologia oggi, salvo errori (umani?) permette di bombardare un serbatoio vicino ad uno contenente sostanze pericolose lasciando quest’ultimo indenne. Si può addirittura prevedere armi biodegradabili?
Ma, come ricordava Pekka Haavisto(20) , nel corso dell’incontro al World Social Forum di Padova, forse è molto più sensato ricorrere ad altri modi per risolvere i conflitti.
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