Giovani e riconciliazione nei Balcani, la sfida di RYCO
La riconciliazione nei Balcani occidentali attraverso i giovani: questo l’obiettivo del Regional Youth Cooperation Office, iniziativa emersa dal processo di Berlino. Ne abbiamo parlato col nuovo Segretario generale, Đuro Blanuša
Già senior advisor per la Cooperazione internazionale nel ministero per la Gioventù e lo Sport serbo, Đuro Blanuša è stato recentemente nominato Segretario generale di RYCO. Prima del suo incarico istituzionale, Blanuša ha lavorato a lungo nel settore non governativo, tra gli altri per l’organizzazione internazionale “Save the Children”. Ha ricoperto anche il ruolo di rappresentante ufficiale per la Serbia nello European Steering Committee for Youth (CDEJ), organismo che co-gestisce le strutture giovanili del Consiglio d’Europa. Prima di diventarne il Segretario generale, ha rappresentato Belgrado nel processo di creazione di RYCO.
Qual è il contesto in cui nasce l’idea di creare il Regional Youth Cooperation Office (RYCO)?
L’iniziativa è stata lanciata all’inizio del “processo di Berlino”, durante la conferenza inaugurale nella capitale tedesca dell’agosto 2014. Una delle prime idee lanciate allora dal premier [ora presidente] serbo Aleksandar Vučić è stata di creare un’ “unione giovanile” nei Balcani occidentali. L’obiettivo era connettere i giovani dei Balcani occidentali per discutere in modo costruttivo il recente passato di conflitti nella regione e per affrontare il delicato tema della riconciliazione.
Il modello di riferimento è l’Ufficio franco-tedesco per la gioventù, creato nel 1963 dalla volontà congiunta del generale De Gaulle e di Konrad Adenauer. RYCO nasce quindi innanzitutto come strumento di riconciliazione: il focus immediato è rappresentato dai giovani, ma si cerca un impatto più ampio su tutte le società interessate.
L’idea nasce come iniziativa inter-governativa: quale spazio e contributo è stato previsto per le organizzazioni della società civile?
La dichiarazione di intenti sulla creazione di RYCO è stata sottoscritta nell’estate 2015, alla vigilia della conferenza di Vienna: sebbene la proposta sia stata spinta soprattutto dai governi, è stato previsto uno spazio importante per il contributo della società civile. Ad esempio, all’interno della dichiarazione, si delineava l’idea di creare dei “gruppi di lavoro regionali” con l’intento di proporre elementi concreti per la creazione e la definizione delle attività di RYCO. La metà dei membri di questi gruppi veniva dalle istituzioni, l’altra metà era rappresentata da delegati delle ONG.
Quali sono stati i frutti del lavoro portato avanti con i gruppi di lavoro?
A marzo 2016 abbiamo presentato la prima bozza di statuto di RYCO, bozza poi sottoposta ai decisori politici che dovevano definire aspetti fondamentali, dalla sede operativa agli strumenti finanziari a disposizione. Sulla sede alla fine l’ha spuntata Tirana, mentre sul budget la decisione è stata mettere a disposizione, almeno in fase iniziale, due milioni di euro. E’ importante sottolineare che metà di questo budget sarà garantito dai governi della regione: un impegno che ribadisce l’ownership regionale dell’ufficio. L’accordo definitivo sulla creazione di RYCO è stato poi raggiunto nel summit di Parigi (2016) con impegni concreti da parte dei governi sul ruolo della società civile nel funzionamento della struttura. Sono stati quindi definiti lo statuto, il mandato e la struttura di RYCO. Il passo successivo è stato creare la struttura di governance (dicembre 2016), quando è stato aperto il concorso per scegliere il segretario generale.
Quali saranno il ruolo e le responsabilità del segretario generale di RYCO?
Nella mia posizione, naturalmente, rispondo al Consiglio di amministrazione di RYCO: il mio vero ruolo, in questo momento, è soprattutto quello di coordinare gli aspetti organizzativi in corso, come la scelta di un vicesegretario generale e dello staff nella segreteria dell’ufficio. La sede, come detto, sarà a Tirana, ma RYCO avrà uffici in ognuno dei paesi che partecipano all’iniziativa. In questo momento RYCO è materia di dibattito soprattutto a livello politico: una delle mie priorità e principali sfide sarà quella di tradurre il dibattito politico in qualcosa di comprensibile ed accessibile ai giovani dei Balcani occidentali.
Quali saranno le priorità perseguite in questa prima fase?
La priorità è consolidare il lavoro fatto finora, ma anche dare visibilità e promuovere l’ufficio. Finora RYCO è nota a giornalisti, politici e forse ad una parte della società civile dei Balcani occidentali. Giovani ed associazioni giovanili, però, non hanno ancora un’idea chiara di quello che RYCO può offrire. Ecco perché sarà importante lanciare i primi bandi per le organizzazioni giovanili: il 15% del budget sarà infatti dedicato ai programmi operativi, mentre il restante 85% verrà riservato a ONG e scuole attive negli scambi giovanili.
I programmi, naturalmente, avranno a che fare col tema della riconciliazione e dell’interscambio interculturale, promuovendo allo stesso tempo la mobilità nella regione. Purtroppo nei Balcani occidentali dobbiamo ancora superare molti pregiudizi: secondo alcune statistiche, circa il 70% dei giovani nella regione hanno un atteggiamento negativo nei confronti dei giovani di paesi vicini, soprattutto se parliamo di Serbia e Albania. Per superare tali pregiudizi, abbiamo bisogno di azioni forti ed efficaci.
C’è già una strategia per raggiungere i giovani dei Balcani occidentali e presentare loro l’iniziativa?
Questa, come detto, è una sfida importante ed una delle priorità di RYCO. Fino ad ora non abbiamo ancora sviluppato una vera strategia di comunicazione, sia verso gli stakeholders che nei confronti dei giovani. Dobbiamo trovare strade efficaci per comunicarne l’esistenza di RYCO: sicuramente investiremo sui social media, ma io credo che nei Balcani occidentali sia estremamente importante essere sul territorio ed avere occasioni di scambio faccia a faccia. Parlo di giornate dedicate all’informazione e campagne mirate di branding. Dobbiamo dare una forte caratterizzazione alle attività e alla organizzazione: ecco perché nel segretariato avremo una persona dedicata specificatamente alla comunicazione, e qualcuno che insieme a me svilupperà una strategia complessiva.
Quali azioni concrete saranno messe in campo per contribuire a programmi di scambio e mobilità giovanile?
In questo momento è difficile prevedere quale sarà il contenuto dei progetti: dipenderà innanzitutto da quali soggetti parteciperanno al programma e chiederanno contributi. Ciò non toglie che saremo noi a definire priorità e temi. Il modello di scambi può prendere ispirazione dall’Ufficio franco-tedesco per la gioventù: anche in quel caso gli organizzatori hanno dovuto affrontare forti pregiudizi, che sono però riusciti in gran parte a decostruire. Sarà importante creare e sviluppare determinate competenze: ad esempio, gli scambi tra studenti dovranno essere gestiti da professori ed insegnanti. Dovremo quindi creare programmi per la formazione di questi insegnanti, per essere sicuri che abbiano le competenze necessarie per affrontare con i giovani temi altamente sensibili e controversi. Ad esempio, non sarà facile far incontrare giovani di Bosnia Erzegovina e Serbia e parlare di Srebrenica o altri temi altrettanto divisivi. Ci sono poi forti ostacoli politici e istituzionali da superare, come il regime di visti tra vari paesi dell’area. Andare dalla Bosnia al Kosovo è oggi una vera e propria “mission impossible”: c’è quindi bisogno di un lavoro prettamente politico da fare all’interno di questo processo.
Fino a che punto il modello di collaborazione franco-tedesco è applicabile al caso dei Balcani occidentali? Quali sono le differenze e le somiglianze tra le due diverse esperienze?
Dal punto di vista manageriale quella franco-tedesca è una cooperazione bilaterale, con due uffici, due sedi (a Parigi e Berlino), molto più facile da gestire. Nel caso dei Balcani occidentali abbiamo invece una dimensione multilaterale e piattaforme di interazione molto diversificate. Durante i gruppi di lavoro, ad esempio, abbiamo discusso a lungo su quale sarebbe stata la lingua ufficiale di lavoro: viste le difficoltà a gestire la comunicazione attraverso le lingue regionali, abbiamo deciso di passare all’inglese.
Nel caso delle relazioni franco-tedesche, c’era poi una lettura ampiamente condivisa su quanto accadde durante la Seconda guerra mondiale. Nei Balcani, invece, se parliamo dei tragici eventi degli anni ’90 tale visione comune è assente o molto limitata. Questo rende estremamente difficile trovare un punto d’incontro: credo comunque che sia molto importante assicurare ai giovani almeno condizioni minime per poter discutere di quanto accaduto, in quello che potremmo definire un “ambiente protetto”. Anche se le divergenze sull’interpretazione del passato restano, questo non significa che la cooperazione non sia possibile: in questo contesto, credo sia fondamentale investire in questa generazione, che a breve prenderà le decisioni sul futuro della regione.
Quali sono le aspettative rispetto al prossimo summit di Trieste? Ci saranno passi avanti concreti per quanto riguarda RYCO?
Le aspettative, da tutte le parti, sono sicuramente alte, e talvolta non prendono in considerazione il fatto che RYCO non è ancora operativa e che tale operatività richiede alcuni prerequisiti squisitamente amministrativi, come aprire conti in banca, registrare le organizzazioni coinvolte eccetera, una serie di azioni che necessitano tempo per essere effettuate. I governi dell’Europa occidentale vorrebbero vedere risultati concreti già a Trieste, visto che il processo è già in moto da due anni. D’altra parte però la scelta di un segretario generale non è sufficiente perché RYCO sia effettivamente operativa. C’è ancora bisogno di regole, procedure e linee guida per chi vorrà sfruttare delle opportunità che saremo in grado di offrire. Di certo useremo il palcoscenico del summit di Trieste per rilanciare – anche simbolicamente il progetto -, forse attraverso musica e cucina. Il messaggio è ribadire – ancora una volta – la centralità del tema della riconciliazione, soprattutto tra i giovani: soprattutto ora che il mondo politico dei Balcani sembra aver riscoperto il fascino della narrativa nazionalista, soprattutto come strumento di raccolta del consenso in contesto pre-elettorale.