Giornaliste investigative nei Balcani: “Non ci metterete a tacere”

Le giornaliste nei Balcani subiscono ogni giorno minacce, insulti sessisti, attacchi verbali e fisici che restano perlopiù impuniti, alcune di loro vivono costantemente sotto scorta. Nonostante tutto, però, continuano a fare con coraggio il proprio lavoro

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Illustrazione

Non è facile organizzare un incontro con Jelena Jovanović, giornalista del quotidiano Vijesti di Podgorica. Da quattro anni ormai Jelena vive, lavora e viaggia accompagnata da due agenti di polizia che devono approvare tutti i suoi incontri. È stata messa sotto scorta della polizia nel 2021, dopo che i servizi di sicurezza del Montenegro avevano constatato che la sua sicurezza era a rischio.

“Da anni indago sulla criminalità organizzata e sulla corruzione, impegno che inevitabilmente comporta grandi rischi. Nel momento in cui pubblico informazioni sulle azioni sospette di personalità di alto rango, provenienti dal sottobosco criminale o dalle strutture politiche, divento una minaccia diretta per i loro interessi”, afferma Jovanović.

“Per questo reagiscono così violentemente. Parliamo di individui abituati a muoversi nell’ombra, pronti a tutto pur di proteggere la propria posizione e gli affari illegali in cui sono coinvolti”.

L’ultima di una lunga serie di minacce di morte è arrivata nell’aprile di quest’anno da una donna di nome Milica Ćuk, presumibilmente sorella di un cittadino serbo menzionato da Jelena Jovanović in uno dei suoi articoli. La giornalista è stata minacciata via telefono ed email. Le indagini della polizia sono in corso.

Jelena afferma di aver sempre saputo chi e perché si nascondeva dietro ad ogni attacco contro di lei, ma di non aver mai nemmeno pensato di abbandonare il giornalismo investigativo. “Nonostante tutto quello che hanno fatto, non sono riusciti a raggiungere il loro obiettivo: mettermi a tacere”, spiega la giornalista.

Purtroppo, l’esperienza di Jelena Jovanović non è un caso isolato nei Balcani. Le giornaliste, in particolare quelle che si occupano di giornalismo investigativo, subiscono pressioni, minacce, attacchi verbali e fisici, insulti ed estenuanti cause legali tese a silenziare e intimidire voci critiche.

La nostra inchiesta dimostra che gli attacchi contro le giornaliste in Albania, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Serbia sono aumentati negli ultimi cinque anni, soprattutto sui social. Nel frattempo, le istituzioni di questi paesi non sono capaci – o rifiutano – di proteggere le giornaliste.

Jelena Jovanović (foto archivio privato)

Jelena Jovanović (foto archivio privato)

Anche gli attacchi ai giornalisti sono molto frequenti, però quelli contro le giornaliste evidenziano una dimensione di genere: le donne nel giornalismo si trovano ad affrontare insulti e commenti sessisti e misogini quasi quotidianamente. Vengono attaccate non solo per il loro lavoro, ma anche per essere donne.

I dati presentati in questa inchiesta, come anche le storie personali delle giornaliste intervistate, mettono in luce una tendenza preoccupante: nella maggior parte dei paesi presi in considerazione, le misure per proteggere le giornaliste sono quasi inesistenti, il silenzio delle istituzioni competenti continua ad essere la risposta dominante, quindi gli attacchi restano impuniti.

Da un’analisi dei dati forniti dalle autorità di Albania, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Serbia – ma anche dei database dell’organizzazione regionale SafeJournalists Network e del progetto Media Freedom Rapid Response (MFRR) che riunisce alcune delle principali organizzazioni mediatiche europee – emerge che le giornaliste subiscono principalmente attacchi verbali (sia online che offline), campagne denigratorie, minacce e insulti sessisti, intimidazioni provenienti dai politici e querele temerarie (SLAPP) volte a intimidire finanziariamente e professionalmente le donne nel giornalismo.

Fortunatamente, le aggressioni fisiche sono meno frequenti, ma si verificano comunque, soprattutto durante eventi pubblici, proteste e cronache giudiziarie.

“Oggi io sono a Tirana e lui è in prigione”

Da gennaio 2020 a fine aprile 2025, un attacco su quattro ai professionisti dell’informazione in Albania, Bosnia Erzegovina e Montenegro era diretto contro le giornaliste: in 200 dei 750 casi segnalati di attacchi a professionisti e organizzazioni dei media, ad essere prese di mira sono state donne.

Il ministero dell’Interno serbo ha risposto alla nostra richiesta di accesso alle informazioni pubbliche, affermando di conservare solo dati generali sugli attacchi agli operatori dell’informazione, ma nessuna statistica specifica sugli attacchi contro le donne nei media.

Stando ai dati disponibili, negli ultimi cinque anni in Serbia sono stati registrati 43 attacchi fisici e 72 attacchi ai professionisti dell’informazione durante lo svolgimento del loro lavoro. Il numero effettivo, con ogni probabilità, è più elevato, considerando che molti episodi non vengono denunciati per timore di rappresaglia o per mancanza di fiducia nel sistema giudiziario.

Questa tendenza è particolarmente evidente in Montenegro e Albania.

In Montenegro, il numero di attacchi alle giornaliste è aumentato in modo significativo, passando dal 35,3% nel 2020 a oltre il 52% nel 2024, la percentuale più alta nella regione.

Anche in Albania si registra un aumento costante: gli attacchi alle giornaliste sono aumentati dal 30% nel 2020 a oltre il 44% all’inizio del 2025.

Ola Xama è una delle giornaliste più frequentemente prese di mira in Albania. Definisce le minacce subite come una forma di campagna di intimidazione , iniziata nel 2023 dopo la pubblicazione di una sua inchiesta sull’allora sindaco di Tirana, Erion Veliaj, e sul suo coinvolgimento in alcuni casi di corruzione.

“Non ha risposto alla mia richiesta di commento prima della pubblicazione dell’articolo. Poi una volta pubblicato il testo, mi ha mandato un messaggio, definendomi una serial killer e dicendo che avrei dovuto vergognarmi di quello che avevo fatto perché il mio articolo era inesatto”, spiega Xama.

Concludendo il messaggio, Veliaj le ha augurato un buon fine settimana. Tuttavia, durante quel “buon” fine settimana, i media filogovernativi di tutto il paese hanno pubblicato un articolo su Xama, diffondendo le accuse lanciate dal sindaco.

Ma non è finita qui. La campagna denigratoria è proseguita con una serie di fake news su Xama e suo marito, accuse infondate e commenti sessisti.

Nonostante tutte queste sfide, Ola Xama non ha mai pensato di abbandonare il giornalismo investigativo.

“Continuo a fare il mio lavoro e, dopo tutto questo, ho pubblicato molti articoli sulla criminalità organizzata e la corruzione. Oggi sono a Tirana e Veliaj è in carcere ”.

Il caso di Xama è tutt’altro che isolato. Dietro agli attacchi spesso si cela lo stato, ossia gli alti funzionari e i leader politici che insultano apertamente le giornaliste, definendole mercenarie al soldo degli stranieri e negando l’accesso alle conferenze stampa.

Il ministro della Giustizia montenegrino ha sequestrato con la forza il telefono di una giornalista durante una conferenza stampa, mentre in Bosnia Erzegovina, la foto di una giornalista con contenuti offensivi è stata pubblicata e condivisa nel suo quartiere.

In Serbia, risuona ancora il commento sessista pronunciato nel 2015 dall’allora – e attuale – ministro della Difesa Bratislav Gašić: “Amo le giornaliste che si inginocchiano così facilmente”.

Ola Xama (foto archivio privato)

Ola Xama (foto archivio privato)

“Stiamo facendo qualcosa di importante per il pubblico e per la professione”

Anche le giornaliste serbe subiscono attacchi nel mondo digitale, tra cui insulti, minacce di morte, talvolta persino aggressioni fisiche. Alla fine di marzo di quest’anno, un’analisi forense di Amnesty International ha rivelato che due giornaliste di BIRN Serbia sono state vittima di un fallito tentativo di installare il software israeliano Pegasus sui loro telefoni.

Hanno ricevuto un SMS da un numero sconosciuto con un link, che fortunatamente non hanno cliccato. Se lo avessero fatto, Pegasus avrebbe ottenuto l’accesso a tutti i loro messaggi, email e dati, senza che le due giornaliste se ne accorgessero.

Gli attacchi, purtroppo, non finiscono qui.

In Serbia, le SLAPP (Strategic Lawsuits Against Public Participation) sono diventate più frequenti negli ultimi anni. Queste azioni legali vengono utilizzate per intimidire, mettere a tacere e scoraggiare le voci critiche e gli oppositori, abusando del sistema legale e soffocando finanziariamente e professionalmente i giornalisti e le organizzazioni mediatiche.

Le SLAPP sono diventate uno strumento per colpire i giornalisti indipendenti e gli attivisti che si occupano di temi di interesse pubblico e denunciano le violazioni della legge e i legami tra politica e criminalità. La Serbia non dispone di una legge per arginare queste cause legali, spesso intentate dai funzionari governativi e da persone a loro vicine.

Secondo l’ultimo rapporto della Coalizione contro le SLAPP in Europa (CASE), la Serbia è al decimo posto in Europa – e al primo posto nei Balcani – per numero di SLAPP avviate.

I giornalisti del pluripremiato portale investigativo KRIK sono quasi abituati a questi processi: attualmente ne stanno affrontando diciotto.

Vesna Radojević, giornalista di KRIK, spiega che queste cause legali richiedono molto tempo e denaro, ma anche “uno sforzo mentale per comprendere le azioni dei giudici, preparare la migliore difesa e comunicare con il pubblico”.

Vesna lo ha sperimentato in prima persona quando lei e la sua collega Dragana Pećo sono state denunciate da Nikola Petrović, padrino del presidente serbo Aleksandar Vučić.

Il procedimento si è protratto per anni. Vesna è stata costretta ad andare in tribunale a gravidanza ormai inoltrata, e poi quando il bambino aveva solo due mesi. È capitato spesso che suo marito la aspettasse fuori dal tribunale per permetterle di allattare il bambino appena terminata l’udienza.

Il caso è caduto in prescrizione quest’anno, Vesna però ricorda ancora chiaramente tutti i dettagli.

“Il processo si è rivelato spiacevole e a tratti inquietante. Nel mio caso, si è trattato di una causa penale privata, quindi abbiamo affrontato il tribunale da ‘imputate’. A differenza di Nikola Petrović, siamo state costrette a presentarci ad ogni udienza. Sembrava che tutto il peso fosse stato scaricato sulle imputate: eravamo presunte colpevoli e dovevamo dimostrare la nostra innocenza, non il contrario”.

A giocare a loro favore, come afferma Vesna, è stato il fatto che non hanno inventato nulla nel loro articolo e che tutte le loro affermazioni erano corroborate da prove.

“Credo che la prima linea di difesa sia la consapevolezza collettiva del fatto che i giornalisti fanno qualcosa di importante per il pubblico, ma anche per la professione. Questa consapevolezza ci spinge ad andare avanti e ci rende più forti. Un altro aspetto, che può essere problematico, è che col tempo ci si abitua a situazioni analoghe. Da anni ormai i tabloid e il governo ci presentano come nemici, mercenari al soldo degli stranieri e criminali. E noi scriviamo continuamente di veri criminali e scandali di corruzione, siamo noi a rivelare i fatti”.

Vesna Radojević (archivio privato)

Vesna Radojević (archivio privato)

“Le istituzioni non sono riuscite a giustificare la propria esistenza”

Stando ai dati raccolti nell’ambito del progetto internazionale Media Freedom Rapid Response (MFRR), nel 2023 gli attacchi verbali hanno rappresentato il 42,7% di tutti gli attacchi contro le giornaliste, rispetto al 31% contro i loro colleghi maschi. A preoccupare ancora di più sono le molestie online: quasi un quarto di tutti gli attacchi contro le giornaliste avviene nel mondo digitale, il doppio rispetto agli attacchi ai giornalisti.

Anche quando questi casi finiscono in tribunale, le giornaliste solitamente non ottengono giustizia. Lo stato di avanzamento della maggior parte dei casi denunciati è scoraggiante e le condanne sono rare.

Anche nei casi in cui la polizia interviene o vengono sporte denunce, la magistratura spesso riduce gli incidenti a reati minori o non avvia alcun procedimento, quindi gli epiloghi giudiziari sono molto rari. Le indagini, anche quelle preliminari, spesso si trascinano per anni o finiscono in un vicolo cieco.

Ad esempio, in Montenegro e in Bosnia Erzegovina molti casi risalenti al 2020 non sono ancora stati risolti.

In Serbia, nonostante il crescente numero di attacchi segnalati, solo poche denunce hanno portato a incriminazioni formali e praticamente nessuna a condanne significative. Inoltre, gli omicidi di giornalisti avvenuti tra gli anni ‘90 e i primi anni 2000 in Serbia restano ancora irrisolti.

Nel 2024, la Corte d’appello ha assolto in via definitiva gli imputati dell’omicidio del giornalista Slavko Ćuruvija, ucciso a Belgrado nel 1999. Una sentenza che ha suscitato indignazione delle organizzazioni mediatiche locali e internazionali e degli attivisti per i diritti umani.

In Bosnia Erzegovina, tra i casi irrisolti spiccano le minacce e gli attacchi subiti da Nataša Miljanović-Zubac, giornalista dell’emittente pubblica della Republika Srpska (RTRS). Negli ultimi cinque anni, Nataša è stata sottoposta a continui attacchi, minacce e intimidazioni. Un’organizzazione internazionale l’ha aiutata a trasferirsi da Trebinje, la sua città natale, dove non si sentiva più al sicuro, in un luogo più adeguato.

Nonostante la polizia abbia constatato che la sua incolumità era minacciata, Nataša non ha mai ricevuto alcuna protezione né una scorta.

“Sono stata esposta a diversi attacchi per molto tempo, dai tentativi di screditarmi pubblicamente e moralmente, alla distruzione della mia auto, data alle fiamme, passando per atti intimidatori – come quello con una Barbie senza testa ricoperta di vernice rossa, lasciata sulla porta di casa dove vivevo – ed esplicite minacce di morte”, spiega la giornalista.

“Nella casa dei miei figli, qualcuno ha scritto ‘NMZ muori’, e sulla mia porta d’ingresso è stato lasciato un messaggio agghiacciante: ‘Le bocche morte non parlano’”.

In una conversazione su Zoom, Nataša racconta che per anni è stata pedinata e intimidita, ricevendo minacce scritte sui muri e vari avvertimenti.

“Tutto questo è diventato parte della mia vita quotidiana”, afferma Nataša.

Sottolinea che le istituzioni della Republika Srpska e della Bosnia Erzegovina non hanno fatto nulla per proteggerla.

“Queste istituzioni non sono riuscite a giustificare la propria esistenza. Solo di recente la procura, l’intelligence e l’Agenzia per la sicurezza statale (SIPA) hanno intrapreso alcune misure, che però non hanno portato a risultati concreti”, precisa la giornalista.

“La mia sfiducia nelle istituzioni è diventata ancora più profonda dopo che il capo della polizia della Republika Srpska ha modificato la valutazione della mia sicurezza nell’agosto 2022, esponendomi così a maggiori rischi. Da allora, la mia vita dipende esclusivamente da una protezione ad hoc”.

Nataša Miljanović-Zubac (archivio privato)

Nataša Miljanović-Zubac (archivio privato)

Nel vicino Montenegro, quasi il 40% di tutti gli attacchi contro gli operatori dei media è rivolto contro le giornaliste. Nel 2024, più della metà dei casi segnalati hanno riguardato le giornaliste. Come accade anche in altri paesi della regione, solo un numero esiguo di questi casi ha avuto un epilogo giudiziario adeguato.

Danica Nikolić, caporedattrice del portale M, ha ricevuto minacce di morte e di stupro, ma nessuno di questi casi è stato risolto. Le giornaliste di Vijesti, Jadranka Ćetković e Jelena Jovanović, sono state aggredite fisicamente davanti al tribunale e minacciate per i loro reportage su criminalità e corruzione.

Il 26 aprile 2025, Magdalena Čelanović , giornalista di Gradska TV di Podgorica, ha sporto denuncia contro il dottor Vladimir Peruničić del Centro clinico del Montenegro per averle inviato messaggi offensivi, minacciosi e sessisti.

Il tribunale per reati minori di Podgorica ha disposto una sanzione amministrativa di mille euro contro Peruničić con la misura di sicurezza del trattamento obbligatorio per l’alcolismo, in regime ambulatoriale e in libertà vigilata.

La cultura dell’impunità

Le risposte inadeguate del sistema giudiziario inviano il messaggio che i giornalisti, in particolare le donne nel giornalismo, sono bersagli legittimi.

Stando ai dati di SafeJournalists Network, nel periodo 2022-2024 sono stati segnalati alla polizia e/o alla procura in Albania, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Serbia complessivamente 239 attacchi ai giornalisti. Di questi, solo circa il 17% (40 casi) ha avuto un epilogo giudiziario.

Alla domanda se lo stato e le istituzioni competenti stiano facendo abbastanza per proteggere i giornalisti, in particolare le donne che si occupano di giornalismo investigativo, Jelena Jovanović risponde sottolineando che è difficile parlare di protezione dei giornalisti in un paese, come il Montenegro, dove, a più di vent’anni dall’accaduto, non si sa ancora chi abbia ordinato l’omicidio del giornalista Duško Jovanović.

“Sono consapevole che le autorità stanno compiendo certi sforzi e che sono stati messi in atto alcuni meccanismi, ma non credo che bastino, soprattutto per quanto riguarda le donne nel giornalismo investigativo. Spesso subiamo maggiori pressioni, compresi i tentativi di screditarci e intimidirci sui social”, afferma Jelena Jovanović.

Nataša Miljanović-Zubac concorda.

“I giovani che stanno pensando ad una carriera nel giornalismo investigativo devono capire che in Bosnia Erzegovina quasi nessuno li sosterrà; il sostegno arriva solo da pochi individui”, spiega la giornalista.

“Nel mio caso, anche i vertici dell’azienda mediatica dove lavoro non mi hanno sostenuta. Perché? Perché io sfido chi è al potere e i vertici dell’azienda proteggono le strutture dominanti, indipendentemente dal fatto che le loro azioni siano lecite o meno. Quindi, nel mio caso, persino il mio datore di lavoro si è rivoltato contro di me”.

Vesna Radojević spiega che KRIK ha unito le forze con diverse organizzazioni in Serbia alle prese con le SLAPP, per combattere insieme questa pratica e sensibilizzare l’opinione pubblica, ma anche la magistratura sulla vera natura delle querele temerarie.

“Ognuno può intentare una causa, il problema sorge quando si abusa del sistema e quando la magistratura (per paura o per ignoranza) non riconosce che si tratta di un abuso”, sottolinea la giornalista.

Anche i social rappresentano un ambiente pericoloso. Le giornaliste vengono minacciate di stupro su Facebook, TikTok e X (ex Twitter), subiscono doxing e accuse infondate. In alcuni casi sono state pubblicate foto private e videoclip falsi.

La rete regionale Safe Journalists, che unisce le organizzazioni mediatiche di tutti i paesi dei Balcani occidentali, sottolinea che la mancanza di un forte sostegno istituzionale è uno dei maggiori problemi per le giornaliste nella regione.

In Bosnia Erzegovina, ad esempio, la violenza online non è riconosciuta dalla legge, nonostante sia una delle forme di violenza più diffuse contro le giornaliste nel paese.

In Albania non ci sono meccanismi di protezione specifici per le giornaliste, le strutture di supporto sono deboli e le possibilità di denunciare le minacce sono molto limitate.

“Insulti sessisti, commenti misogini e campagne mirate e prolungate contro le giornaliste si verificano in tutti i paesi dei Balcani occidentali. L’esperienza dimostra che la migliore difesa è ancora quella di portare minacce all’attenzione dell’opinione pubblica, con il supporto di redazioni, associazioni dei giornalisti e della società civile” affermano gli esperti di Safe Journalists Network.

“Le minacce sui social sono particolarmente gravi perché le giornaliste sono spesso soggette a molestie prolungate. Purtroppo, la polizia e la procura non riconoscono questi attacchi né tanto meno tutelano adeguatamente la sicurezza, perché sono fortemente influenzati dai rappresentanti del governo, e questi ultimi sono i principali istigatori di violenza nella società”, concludono gli esperti.

Cosa va cambiato?

Le nostre interlocutrici, come anche le associazioni dei media locali e internazionali, ritengono che nei Balcani occidentali sia necessario intervenire con urgenza per garantire la libertà di stampa e porre fine alla lunga impunità di quelli che soffocano questa libertà.

A loro avviso, è fondamentale che la polizia, i procuratori e i tribunali conducano indagini regolari e in conformità con la legge sugli attacchi ai media. Inoltre, occorre introdurre modifiche legislative relative a diffamazione, insulti, querele temerarie e altre forme di attacco e pressione sui media. I politici devono assumersi le responsabilità delle proprie azioni e dichiarazioni, e le aziende come Meta e X devono rispondere in modo più efficace a molestie e minacce sui social.

In attesa di questi cambiamenti i giornalisti, e soprattutto le giornaliste, non dovrebbero lasciarsi scoraggiare dalla paura, afferma Jelena Jovanović.

“Il giornalismo non è un mestiere facile. Presenta sfide, rischi e pressioni. Però sono fortemente convinta che chi lavora nell’interesse della verità e del pubblico sia spinto da un’enorme forza morale. E non bisogna mai accettare di rimanere in silenzio se la tua storia può aiutare anche solo una persona a trovare la strada della giustizia”, aggiunge la giornalista.

Jelena Jovanović – come anche Vesna Radojević, Nataša Miljanović-Zubac e Ola Xama – sottolinea quanto sia importante creare una rete di supporto all’interno delle redazioni, coinvolgendo i colleghi, ma anche chi non si occupa di giornalismo.

Inoltre, è fondamentale investire nel lavoro con le giovani generazioni di giornalisti che si stanno affacciando alla professione. Per KRIK, questa è la principale difesa contro le crescenti pressioni e attacchi.

“Penso che, a lungo termine, questa sia la migliore difesa da tutte le pressioni: una nuova rete di persone che continueranno questo lavoro e lo svolgeranno nel miglior modo possibile”, afferma Vesna Radojević.

Nonostante tutte le pressioni, le minacce, i trasferimenti, le auto date alle fiamme, le Barbie insanguinate e la mancanza di supporto istituzionale, Nataša Miljanović-Zubac continua a fare giornalismo.

“Non è facile vivere sapendo che qualcuno ti ha messo un bersaglio sulla fronte. Ma finché potrò parlare e scrivere, non mi arrenderò. Se i giornalisti vengono messi a tacere, chi rimarrà a dire la verità?”, conclude Miljanović-Zubac.

 

Questa ricerca è stata finanziata dal Fondo europeo per i Balcani nell’ambito dell’iniziativa "Engaged Democracy". Le opinioni espresse in questa pubblicazione sono esclusivamente quelle degli autori e non rappresentano necessariamente le posizioni o i punti di vista del Fondo europeo per i Balcani.

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