Giornalismo in Europa centro-orientale: pressioni inaccettabili
Branko Čečen, direttore del Centro di giornalismo investigativo della Serbia (CINS) interviene su un recente rapporto pubblicato dall’Istituto Reuters dedicato alle difficoltà che subiscono i giornalisti dei paesi ex socialisti
(Originariamente pubblicato da Cenzolovka , il 30 gennaio 2020)
L’Istituto Reuters per lo studio del giornalismo (Reuters Institute for the Study of Journalism), una fonte preziosa di dati rilevanti e aggiornati sullo stato di salute dei media e del giornalismo a livello globale, ha recentemente pubblicato un rapporto sulla situazione della libertà dei media in un’area, quella dell’Europa centro-orientale, che raramente suscita l’interesse degli esperti di settore.
L’oggetto della ricerca sono le pressioni a cui sono sottoposti i giornalisti nei paesi dell’Europa centro-orientale, un fenomeno che i giornalisti serbi conoscono molto bene, ma spesso faticano a suscitare l’interesse dell’Occidente democratico per questo argomento. Quindi ben venga ogni ricerca di questo tipo che può contribuire allo sviluppo – in quella parte del mondo dove è concentrata gran parte della ricchezza e del potere politico – di una maggiore consapevolezza delle difficoltà incontrate dai giornalisti nei paesi dell’Europa centro-orientale.
Giornalisti ostacolati nel loro lavoro in gran parte d’Europa
Benché effettuata su un campione piuttosto limitato e rivolta ad un pubblico che non conosce bene i principali meccanismi usati per esercitare pressioni sui giornalisti nell’Europa centro-orientale, la ricerca dell’Istituto Reuters rivela alcuni elementi che accomunano vari metodi di pressione – dannosi e volutamente contrari ai principi democratici – usati da diverse organizzazioni politiche, imprenditoriali e criminali in un continente, quello europeo, che viene considerato come culla e roccaforte della democrazia.
Nonostante l’Europa, nel suo insieme, ancora oggi rappresenti un bastione della democrazia, è evidente che in molte parti del continente i giornalisti non possono svolgere liberamente il loro lavoro e sono sottoposti a pressioni inaccettabili.
La parte introduttiva della ricerca – su cui chi conosce bene l’argomento di solito non si sofferma – offre un riassunto terrificante della situazione della libertà dei media e del giornalismo nel mondo.
Alcuni paesi come India, Messico e Turchia – dove nel corso del tempo si è sviluppato un panorama mediatico pluralistico e i cambiamenti pacifici di governo, a seguito delle elezioni democratiche, sono diventati una prassi consolidata – oggi sono illiberali al punto da reprimere con forza la libertà di stampa. La Turchia, che un tempo era considerata un paese musulmano moderno, oggi è diventata la più terribile prigione per giornalisti al mondo; in India il giornalismo è diventato un mestiere pericoloso (dal 2017 ad oggi, in India sono stati uccisi 11 giornalisti, di cui 3 sono stati assassinati nel 2018 nell’arco di 24 ore in circostanze identiche), mentre in Messico gli omicidi di giornalisti investigativi per mano dei cartelli del narcotraffico sono diventati così frequenti che – come si legge nel rapporto dell’Istituto Reuters – oggi il Messico è considerato il paese più pericoloso al mondo per i giornalisti, se si escludono i paesi afflitti da guerre.
I recenti omicidi di giornalisti in Slovacchia, in Bulgaria e a Malta, nonché l’aggressione alla giornalista montenegrina Olivera Lakić, che è stata ferita ad una gamba a colpi di pistola, sono un chiaro segnale di forti pressioni a cui sono sottoposti i giornalisti in Europa.
Benché nella parte introduttiva del rapporto siano stati citati anche alcuni eventi che hanno segnato un punto di svolta positivo, come ad esempio le proteste contro la corruzione organizzate in diversi paesi inclusi nell’indagine, nonché i recenti trionfi elettorali di alcuni politici liberali e moderati, che hanno vinto le elezioni presidenziali (in Slovacchia, Macedonia del Nord, Lituania e Lettonia) con un programma incentrato sulla lotta alla corruzione e sulla tutela della libertà dei media, lo studio condotto dall’Istituto Reuters, così come molte altre recenti ricerche su questo tema, evidenzia la drammatica situazione della libertà di stampa in Europa centro-orientale, una situazione che mette a repentaglio la democrazia.
Come avverte l’autrice dello studio, citando l’esempio di paesi come Turchia, Messico e India, “la libertà dei media può essere minacciata in tanti modi diversi, e quando la situazione diventa critica, allora è troppo tardi”.
È troppo tardi per noi?
Sperando che, malgrado tutto, non sia ancora troppo tardi per invertire lo stato delle cose, diamo un’occhiata ai risultati dell’indagine condotta dall’Istituto Reuters.
Alla domanda se nei loro paesi, a partire dal gennaio 2015 (quando è stata condotta l’ultima ricerca sulle pressioni subite dai giornalisti nei paesi dell’Europa centro-orientale) fino ad oggi, la retorica ostile nei confronti dei giornalisti sia aumentata, diminuita o rimasta uguale, più del 60% dei giornalisti intervistati ha risposto che la retorica è aumentata, poco meno del 20% ritiene che la situazione sia rimasta uguale, mentre meno del 5% degli intervistati ritiene che la retorica ostile sia diminuita.
Per quanto riguarda la tipologia di minacce riportate dai giornalisti intervistati (qui il termine minaccia è da intendersi in senso lato, in quanto si riferisce a tutti i fattori che mettono a repentaglio il giornalismo indipendente), le minacce sono state classificate, in ordine di frequenza e importanza, nelle seguenti categorie:
– la retorica ostile nei confronti dei giornalisti indipendenti, a cui ricorrono i politici e alcuni media
– gli attacchi verbali in rete e fuori dalla rete
– il fenomeno della media capture e la strumentalizzazione della pubblicità governativa ai danni dei media indipendenti
– il deterioramento del contesto giuridico
– le preoccupazioni sulla capacità dei giornalisti di proteggere le loro fonti
– la mancanza di collaborazione e solidarietà tra giornalisti
Se l’elenco di cui sopra vi mette in imbarazzo, è perché conoscete molto bene tutti i fenomeni citati. È triste constatare che questi fenomeni ormai abbiano preso piede in un’area così vasta come quella dell’Europa centro-orientale.
Un altro dato contenuto nel rapporto dell’Istituto Reuters che lascia l’amaro in bocca è quello secondo cui il 63% dei giornalisti intervistati è stato (ha avuto “il piacere” di essere) criticato pubblicamente dai politici per qualcosa che ha scritto. Il 58% degli intervistati è stato esposto a critiche verbali (nel corso delle conferenze stampa, nei discorsi pubblici, etc.), mentre il 58,1% è stato bersaglio di critiche sul web.
Per quanto riguarda i contenuti delle critiche rivolte ai giornalisti, riportiamo la testimonianza di una redattrice presso la redazione politica di Radio Free Europe, la quale ha dichiarato che a volte, quando nel corso di una conferenza stampa fa una domanda scomoda a un politico, i giornalisti leali al governo si alzano e la accusano di essere una spia al soldo di George Soros, cercando in tal modo di screditarla e di impedirle di fare il suo lavoro.
Per quelli che non lo sanno, simili critiche vengono spesso rivolte anche ai giornalisti indipendenti in Serbia durante le conferenze stampa del presidente Aleksandar Vučić, con l’unica differenza che, invece di tirare in ballo Soros, Vučić di solito parla di “traditori”, Dragan Đilas [uno dei leader dell’opposizione serba], etc.
Telefoni intercettati, minacce di morte, corrispondenza violata
Tra i vari esempi riportati nel capitolo dedicato al fenomeno della media capture e all’uso della pubblicità governativa come arma contro i media critici e indipendenti, citiamo quello del quotidiano indipendente polacco Gazeta Wyborcza. Nei primi sette mesi del 2017 il quotidiano ha guadagnato 520.000 dollari grazie alle pubblicità di vari ministeri e aziende pubbliche. Quando il nuovo governo polacco, guidato dai populisti di destra, è venuto a conoscenza di questo dato ha ritirato le sue pubblicità da Gazeta Wyborcza, e nello stesso periodo del 2018 i ricavi pubblicitari del quotidiano sono diminuiti di dieci volte (55.000 dollari).
Subito dopo l’esempio del quotidiano Gazeta Wyborcza l’autrice del rapporto cita il caso della Serbia – che viene menzionata nel rapporto solo tre volte – affermando che “la Serbia ha intrapreso una strada simile”, nel senso che “i media filogovernativi stipulano contratti di pubblicità lucrativi con aziende pubbliche, mentre i media indipendenti faticano a sopravvivere”.
Una delle conseguenze di questa disparità di trattamento è l’autocensura di cui parla il giornalista ungherese Attila Mong, membro del Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ).
“Per i giornalisti del servizio pubblico e di altri media filogovernativi il problema più pressante è quello dell’autocensura. Questi giornalisti non hanno la libertà di scegliere cosa pubblicare […]. Forse si rendono conto della propria faziosità professionale ed etica, ma continuano a comportarsi nello stesso modo perché hanno accettato il fatto che, nelle circostanze attuali, da loro ci si aspetta un comportamento simile”, spiega Attila Mong.
Le violazioni della privacy dei giornalisti e i tentativi di scoprire l’identità delle loro fonti sono un lascito dei servizi segreti dei regimi socialisti. Mentre nell’Occidente coloro che violano le norme sulla privacy di solito pagano un caro prezzo (se vengono rintracciati e denunciati), nei paesi inclusi nello studio dell’Istituto Reuters la situazione è ben diversa: dei 97 giornalisti intervistati 25 credono che i loro telefoni siano stati intercettati o che le loro conversazioni telefoniche siano state registrate; a 20 giornalisti intervistati è stato chiesto di rivelare l’identità delle loro fonti alle autorità; 8 giornalisti hanno ricevuto minacce di morte; la posta elettronica di 8 giornalisti è stata intercettata o reindirizzata; 7 giornalisti hanno dichiarato che i loro dati personali, come l’indirizzo di residenza o il numero di telefono privato, sono stati pubblicati online senza il loro consenso.
Molti dei giornalisti che hanno dichiarato che i loro telefoni sono stati intercettati hanno ricevuto anche minacce di morte. Il denominatore comune di tutte queste azioni è l’intimidazione. Purtroppo, sotto questo aspetto la Serbia non si differenzia da altri paesi inclusi nello studio, e sarebbe interessante condurre una ricerca simile, prendendo in esame solo il caso della Serbia.
I giornalisti indipendenti non sono supereroi
Se tralasciamo il triste capitolo sulla (mancata) solidarietà tra giornalisti – in cui viene descritto il modus operandi di alcune associazioni dei giornalisti filogovernative e altri fenomeni abominevoli che i giornalisti serbi conoscono molto bene, e dove l’unico dato positivo è che oltre il 90% dei giornalisti che sono stati attaccati pubblicamente dai politici ha ricevuto messaggi di solidarietà e sostegno da parte dei colleghi – arriviamo alle conclusioni della ricerca.
Una delle prime conclusioni riguarda le forme di sostegno ai giornalisti vittime di attacchi. Oltre la metà dei giornalisti intervistati ritiene che il sostegno più significativo sia quello fornito dalle associazioni di categoria. Al secondo posto per importanza è il sostegno al pagamento delle spese legali, poi il sostegno di organizzazioni internazionali, le modifiche al quadro normativo, le dichiarazioni degli esponenti del governo in cui vengono condannati gli attacchi contro i giornalisti, e infine le dichiarazioni di sostegno da parte dei governi di altri paesi.
Per quanto riguarda quest’ultimo punto, cioè la questione del sostegno ai giornalisti sotto attacco, sembra che la situazione in Serbia sia diversa, ma dal momento che non è mai stata condotta alcuna ricerca su questo argomento su un campione più grande, è difficile dire come stanno veramente le cose.
Tenendo conto del fatto che in Serbia i giornalisti investigativi e altri giornalisti indipendenti che hanno un atteggiamento critico facilmente diventano vittime di pregiudizi pericolosi, ci sembra importante citare la seguente affermazione dell’autrice del rapporto pubblicato dall’Istituto Reuters: “È molto importante sottolineare che il giornalismo nell’Europa centro-orientale, così come nel resto del mondo, non deve abituarsi all’idea secondo cui i giornalisti indipendenti sarebbero una sorta di eroi, da cui ci si aspetta di rischiare di essere uccisi, feriti a colpi di pistola e minacciati di stupro mentre svolgono il loro lavoro”. Un avvertimento che, per quanto riguarda il giornalismo serbo, sembra arrivare troppo tardi.
Infine, il rapporto dell’Istituto Reuters offre alcune raccomandazioni che, se da un lato non possono essere semplicemente implementate in un contesto, come quello serbo, ormai svuotato da ogni senso, dall’altro lato vengono troppo facilmente respinte dai giornalisti serbi come inattuabili, con affermazioni del tipo: “Voi non capite com’è la situazione qui”. Come se il giornalismo nei paesi che oggi vantano un sistema democratico avanzato un tempo non fosse stato bersaglio di attacchi e pressioni simili, se non peggiori di quelli a cui oggi sono sottoposti i giornalisti in Serbia.
È difficile dire cosa deve accadere affinché i nostri colleghi occidentali si rendano conto di quanto sia profondo l’abisso in cui è sprofondato il giornalismo in Serbia, ma noi, giornalisti serbi, potremo riflettere, senza emozionarci né deprimerci troppo, sulle soluzioni applicate nei paesi dove oggi il giornalismo gode di buona reputazione e rispetto, e cercare di adottare alcune di queste soluzioni. Un tentativo in questa direzione non può provocare alcun danno, e ogni passo in avanti è significativo.
Il campione degli intervistati è piuttosto limitato, tanto che anche l’autrice della ricerca si è astenuta dall’estendere le conclusioni tratte a tutti i giornalisti nei paesi presi in considerazione.
Occorre inoltre precisare che l’indagine si è perlopiù concentrata sulla situazione in Ungheria e Polonia, due paesi con grandi sistemi mediatici, e su quella in Slovacchia e Bulgaria, dove recentemente si sono verificati omicidi di giornalisti.
L’autrice non ha fornito informazioni dettagliate sulla struttura del campione, per cui non sappiamo quante giornaliste e giornalisti provenienti dalla Serbia abbiano preso parte all’indagine né se abbiano solo partecipato al sondaggio o abbiano anche rilasciato un’intervista.
Oltre ai quattro paesi sopracitati, nella ricerca sono stati inclusi altri 12 paesi dell’Europa centro-orientale. Per quanto pochi siano i giornalisti indipendenti nei 16 paesi presi in considerazione, il campione composto da 97 giornalisti sembra piuttosto limitato, soprattutto tenendo conto del fatto che questi paesi, messi insieme, contano una popolazione di quasi 120 milioni di abitanti.
L’Ucraina e la Moldavia, altri due paesi dell’Europa orientale (che hanno un passato socialista, come tutti i paesi inclusi nella ricerca), non sono state prese in considerazione. Gli esperti dell’Istituto Reuters probabilmente hanno avuto buoni motivi per non includere questi due paesi nella ricerca, ma non hanno ritenuto opportuno spiegarli.
L’autrice della ricerca è Meera Selva, giornalista professionista con molta esperienza alle spalle, attualmente direttrice del Fellowship Programme promosso dall’Istituto Reuters.
All’indagine hanno partecipato solo “i giornalisti indipendenti”, che hanno sperimentato le più gravi conseguenze dei problemi di cui hanno parlato, motivo per cui la ricerca è focalizzata su alcuni temi specifici. Tuttavia, i risultati della ricerca sono molto generici e non riflettono sempre l’attuale situazione in Serbia, il che non stupisce, data la metodologia usata.
Dall’altra parte, la conclusione che emerge implicitamente da questa interessante ricerca – ovvero il fatto che la situazione della libertà dei media in Serbia è molto peggiore rispetto a quella ad esempio in Estonia o Slovenia, due paesi che nelle classifiche della libertà di stampa si collocano in posizioni più alte rispetto ad alcune “democrazie mature” – non è priva di importanza, in quanto dimostra che, purtroppo, le nostre osservazioni pessimistiche sulla situazione della libertà di stampa e di espressione in Serbia si sono rivelate vere. Almeno sappiamo come stanno realmente le cose.