Georgia-territori separatisti: se le distanze si acuiscono

Da 11 anni la comunità internazionale media i rapporti tra Georgia e sue regioni secesioniste nel tavolo Discussioni Internazionali di Ginevra (GD). Ma l’ultimo incontro tra le parti ha evidenziato distanze che si stanno acuendo. A farne le spese, le comunità locali

24/12/2019, Marilisa Lorusso -

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(© Lightspring/Shutterstock)

Il 10 e 11 dicembre 2019 si è tenuta la cinquantesima sessione delle Discussioni Internazionali di Ginevra (GD), il meccanismo di mediazione diplomatica attivato nel 2008 dopo la guerra russo-georgiana. Al tavolo siedono rappresentanti  delle due entità secessioniste Abkhazia e Ossezia del Sud, la Georgia cui legalmente appartengono, la Russia che le ha riconosciute come stati autonomi e gli Stati Uniti. Mediano gli incontri 3 co-presidenti, rappresentanti speciali dell’Unione Europea, delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa. Gli incontri si tengono a Ginevra, da cui il nome, e sono articolati in due gruppi contemporanei, uno che si occupa di sicurezza, l’altro di questioni umanitarie.

Ginevra sino ad ora ha prodotto le hotline telefoniche per episodi di escalation o allerte, i meccanismi di prevenzione e risoluzione che si tengono fra le parti sul territorio (IPRM) e l’iniziativa è in stretto contatto con la missione dell’Unione Europea che opera nel territorio. Dopo più di dieci anni rimane un formato cui tutte le parti fanno riferimento per la soluzione del conflitto e vi partecipano con rappresentanti di rango massimo di vice ministro degli Esteri.

La cinquantesima sessione non si è potuta permettere il lusso di essere autocelebrativa. Mala tempora currunt nella risoluzione dei conflitti georgiani. Uno dei due IPRM, quello con l’Abkhazia, è infatti interrotto, l’impegno condiviso al non uso della forza rimane per ora solo una dichiarazione unilaterale della Georgia e nessuna misura condivisa è stata finora approvata, il rientro degli sfollati viene sistematicamente boicottato dall’abbandono del tavolo di Ginevra dai secessionisti. Queste sono situazioni che si ripetono ormai da diverse sessioni, ma questa volta, se possibile, il quadro si è dimostrato ancora più critico.

La prassi è che fra una sessione e l’altra i co-presidenti visitino l’area di conflitto, che negozino le questioni della sessione seguente con i partecipanti, che lavorino sulle proposte, fra le quali il non uso della forza, come piattaforma condivisa. Alla fine della sessione i co-presidenti emettono un comunicato stampa. Poi ci sono situazioni eccezionali che possono portare i co-presidenti a farsi sentire pubblicamente anche fra una sessione e l’altra. Da agosto questo è accaduto già più volte – eccezione in più di 10 anni dall’istituzione del meccanismo – e tradisce un netto peggioramento soprattutto nel quadro orientale, cioè la parte sud-ossetina.

Una cortina contro i diritti

Il 28 agosto scorso i co-presidenti hanno denunciato un processo di frontierizzazione: l’istituzione di una cortina contro i diritti delle popolazioni interessate che impedisce l’accesso a beni di proprietà e ad affetti. E che limita diritti di movimento, di sicurezza e anche alle salute. I co-presidenti hanno denunciato i numerosi arresti e detenzioni di quanti cercano di attraversare il confine amministrativo, che attraverso la demarcazione e la chiusura diventa una linea di separazione sempre più invalicabile.

Il 15 settembre i co-presidenti hanno richiamato a valutare il grave impatto umanitario della frontierizzazione. Un appello che è rimasto però inascoltato. Il processo divisivo è andato avanti e, come prevedibile, a farne le spese sono le comunità locali. Il 30 ottobre vi è stata la prima vittima ufficiale del filo spinato che separa le comunità che vivono fra la zona che si è sottratta alla sovranità georgiana e Tbilisi: Margo Martiashvili, residente nel paesino di Ikoti ad Akhalgori ha avuto un infarto. In tre quarti d’ora si sarebbe potuto trasportarla in un ospedale di Tbilisi, ma da dove la settantenne viveva occorreva attraversare il check point Mosabruni/Razdakhan, che è rimasto chiuso. È stata allora trasportata a Tskhinvali, ma è morta prima di arrivarci, durante le oltre tre ore di viaggio.

A novembre i co-presidenti hanno portato di nuovo l’attenzione sui rischi e i drammi che la politica di frontierizzazione comporta. L’unica misura adottata a seguito di quest’appello è stata l’istituzione di un permesso concesso da parte di Tskhinvali per curarsi in Georgia. Ma il permesso è discriminante in base alla nazionalità di appartenenza: chi ha passaporto ossetino o russo non può beneficiarne . Il 5 dicembre finalmente un malato oncologico georgiano ha potuto cominciare il suo trattamento salvavita a Tbilisi, dopo più di cinque mesi di chiusura totale sulla questione.

Una strategia

Non c’è solo la frontierizzazione. L’escalation sta prendendo diverse strade. A inizio novembre i sud ossetini hanno dichiarato che da parte georgiana si stava sparando. Scambi di armi da fuoco non se ne registrano da anni, e stando agli osservatori internazionali della missione dell’Unione europea non si stava sparando nemmeno nell’autunno 2019. E sono proprio gli osservatori un inedito bersaglio di questa involuzione della fase post-conflitto: il 24 ottobre per la prima volta da quando la missione è sul territorio, quindi dal settembre 2018, una pattuglia europea è stata fermata e trattenuta da personale di sicurezza sud ossetino . La pattuglia si trovava in territorio che dovrebbe essere amministrativamente controllato da Tbilisi, ma è molto vicino ad una zona che è invece controllata dall’Ossezia del Sud, e quest’ultima lamenta la creazione di una nuova presenza di polizia georgiana, fatto che è divenuto fonte di tensioni.

Frontierizzazione, presunti spari, inedite misure contro il personale internazionale, mentre continuano gli arresti. È il 13 novembre e in un quartetto di georgiani fermati dagli ossetini per attraversamento illegale c’è un nome che porterà a una nuova esacerbazione dei rapporti: Vazha Gaprindashvili. Gaprindashvili è un dottore, e dal fermo passa a due mesi di detenzione. La misura sarebbe stata adottata perché come dottore era operativo durante la guerra del 2008. Ad oggi si trova ancora nelle carceri di Tskhinvali, nonostante la mobilitazione dei co-presidenti, di tutta la classe politica georgiana e della società civile, oltraggiata da questo episodio, non certo circoscritto e particolarmente sentito. Basti sapere che solo a ottobre sono stati 40 i fermi per attraversamento.

E la lista di quelli che i georgiani definiscono non altro che rapimenti e detenzioni illegali continua ad allungarsi: pochi giorni fa un 96enne è stato fermato per “attraversamento illegale”, il suo intento era di recarsi al cimitero ove sono sepolti i suoi cari.

Tornando all’incontro dello scorso 10 e 11 dicembre. Recita laconicamente il comunicato della 50esima sessione di Ginevra: “Nell’ultimo decennio, l’impegno dei partecipanti ha contribuito alla relativa stabilità, mentre le questioni fondamentali di sicurezza e umanitarie sono rimaste irrisolte. Ora ci troviamo di fronte a un deterioramento della situazione sul campo e le posizioni divergenti dei partecipanti su questioni chiave dell’agenda si sono ulteriormente trincerate.”

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