Gente di Srebrenica

Il parlamento della Bosnia Erzegovina ha approvato una legge che consentirà ai profughi di Srebrenica di votare per la propria città alle prossime amministrative, ovunque oggi risiedano. Viaggio tra gli abitanti della città simbolo della pulizia etnica in Europa

16/05/2008, Azra Nuhefendić - Trieste

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Srebrenica (foto Gughi Fassino)

Mesi prima che cominciasse la guerra in Bosnia Erzegovina, l’ingegner Nenad indossava la divisa militare. Si faceva chiamare il comandante. Cittadino quasi invisibile prima della guerra, diventò il militare più importante di Ilijas, un sobborgo industriale di Sarajevo. Evocava il patriottismo, incoraggiava i giovani serbi, e qualche anziano, a prendere le armi "per difendere dagli infedeli la terra e le tombe serbe". Lo seguivano. Fino, più o meno, alla linea del fronte. La strada più lunga però, quella verso Belgrado, il comandante Nenad la faceva da solo, o con qualche fedelissimo.

Mentre in Bosnia si combattevano le battaglie decisive, il comandante Nenad riuscì a comperare due begli appartamenti a Belgrado. Giravano voci che contrabbandasse macchine, armi, sigarette e altra roba.

Firmati gli accordi di Dayton, i serbi di Ilijas furono trasferiti a Srebrenica, "la città liberata dai turchi dopo 500 anni" – come ha dichiarato il generale Ratko Mladic, principale accusato per il genocidio di Srebrenica. Dopo averla distrutta e svuotata dai suoi abitanti principali, bosniaci, Mladic "l’ha regalata al popolo serbo".

Gli abitanti di Ilijas sono andati malvolentieri a Srebrenica. Gli toccava, perchè così è stato previsto dagli autori del "trasferimento umano dei popoli". Questo era l’eufemismo che utilizzava lo scrittore serbo Dobrica Cosic, uno che ha creato i fondamenti teorici di quello che conosciamo come pulizia etnica.

L’esodo dei disperati serbi di Ilijas, però, non era guidato dal loro comandante Nenad. Lui era sparito da Ilijas prima di quell’ultima fase. Fa una vita comoda e tranquilla a Belgrado.

I suoi concittadini hanno capito troppo tardi che sono stati usati, ingannati, fregati. Ma indietro non si poteva andare. E poi la massa, da sola, non si ferma a riflettere o cambiare. Va avanti ciecamente, seguendo l’ideologia, pensiero e comportamento, indipendentemente da quanto sbagliato possa essere.

Oggi maledicono la guerra, i comandanti, i generali, i capi, la politica. Sono demoralizzati, arrabbiati e delusi. Ma continuano a considerare i bosniaci, "colpevoli per tutto quello che gli è successo".

Questo è il profilo psicologico di quanti danno il benvenuto ai bosniaci, perlomeno ai pochi che osano tornare a Srebrenica, loro città natale, da dove sono stati cacciati via 13 anni fa.

Oggi ci sono circa trenta mila bosniaci che provengono da Srebrenica o dai villaggi intorno. Sono sparpagliati per tutta la Bosnia, tanti sono emigrati nei vari paesi nel mondo, la parte più piccola è tornata a Srebrenica. Ovunque siano, tuttavia, la maggior parte di loro non ha abbandonato il desiderio di tornare. Ma con il passare del tempo quel sogno si fa sempre più difficile.

Hajra, vedova, madre di quattro figlie, abita in un villaggio a circa 50 chilometri da Srebrenica. Avrebbe voluto tornare a casa: "Ma come faccio, dimmi tu, a portare i miei figli là da dove siamo scappati dal coltello? Chi mi può garantire che non succederà di nuovo? Eravamo protetti dalle Nazioni Unite, eppure sai bene cosa è successo. I miei due figli maschi non ci sono più, mio marito, mio padre neanche, neppure i nipoti, gli zii, parenti, più di 20 nomi. La mia casa non c’è più. Oggi, con l’erbaccia, non si vedono più neanche i muri. Nei campi non posso entrare. Ci sono mine dappertutto. Come faccio a tornare, e aspettare che qualcuno bussi alla mia porta nella notte profonda?", mi spiega Hajra.

Il parlamento della Bosnia Erzegovina ha recentemente approvato una legge che consentirà agli abitanti prebellici di Srebrenica di votare, alle prossimi elezioni amministrative, nella propria città, ovunque risiedano ora. Con questa legge si può prevedere che il prossimo sindaco di Srebrenica sarà un bosniaco, visto che il 70% degli abitanti di Srebrenica, prima della guerra, erano bosniaci. Ma è chiaro che si tratta di una misura "usa e getta", perché la legge vale solo in questa occasione e solo per Srebrenica. E’ un tentativo ingannevole di annullare i risultati della pulizia etnica.

Dopo dieci o quindici anni la gente in Bosnia Erzegovina non si sposta più, se non per avvicinarsi o stare più all’interno dei confini della propria etnia. Come pensano di fare Mara e Nikola, serbi di Gracanica. Nati là, mai nessun problema, neanche durante la guerra. Anzi, tanti bosniaci cercavano rifugio nella loro casa ben protetta. Ma oggi questa coppia si sente sempre più sola in un ambiente sempre più bosniaco.

A parte le ragioni politiche ci sono anche ragioni pratiche che impediscono alla gente di tornare. Come ci spiega Hadzira, vedova di Srebrenica. Tre figli e la vecchia madre sono tutto quello che è rimasto di una numerosa famiglia. Oggi abita a Gracanica in un piccolo appartamento costruito dal governo olandese. Dopo 10 anni di spostamenti da un centro di accoglienza all’altro, si è fermata là. E’ stanca di trasferimenti, di incertezze e di aspettare: "Che cosa, non so neanche io. Prima pensavo, appena possibile torno a casa. Ma non è cosi semplice. Siamo residenti qui adesso. Abbiamo la casa, l’indirizzo, la carta d’identità e tutto quello che segue, le cure mediche, la scuola per i figli. Ci dicono di registrarci a Srebrenica. Questo vuol dire rinunciare a quel poco che ho qui dove sto adesso. Non posso tirare la mia famiglia di qua e di là. Siamo tutti stanchi. Basta. I miei figli sono cresciuti qui, per loro Srebrenica è solo un brutto passato. Come tutti i giovani vogliono vivere, lavorare e andare avanti".

Per quelli che sperano, sia serbi che bosniaci, che si possa ricominciare da dove si era rimasti all’inizio della guerra, ci sono i gruppi dei nazionalisti "ultra": ogni tanto sfilano per Srebrenica con delle maglie con le immagini dei criminali di guerra, i latitanti Ratko Mladic e Radovan Karadjic. Il messaggio è chiaro. Oppure cantano canzoni che celebrano i crimini compiuti, o urlano lo slogan-minaccia: "Noz-zica-Srebrenica" (coltello, filo spinato, Srebrenica).

Per quelli che non si fanno intimidire dalle parole ci sono ogni tanto piccoli incidenti, esplosivo, spari o graffiti sui muri delle moschee o sulle case di quelli che sono tornati.

I rinforzi arrivano dai nazionalisti della Serbia. Tra quelli, una figura distinta è il primo ministro uscente Vojislav Kostunica per il quale "la pulizia etnica in Bosnia non è mai avvenuta, non c’è mai stato un massacro a Srebrenica" (Carla del Ponte, "La Caccia" p. 102).

I bosniaci coraggiosi che tornano a Srebrenica, e non solo là, devono prepararsi anche per gli eventuali incontri con i poliziotti serbi, tra i quali ci sono circa 800 identificati come persone che hanno, in qualche modo, partecipato a crimini di guerra. Capita che uno riconosca la persona che gli ha portato via un membro della famiglia, che poi non è mai tornato, e che anche oggi fa il poliziotto.

L’Europa ha insistito a lungo perchè si facesse una riforma della polizia in Bosnia Erzegovina, proprio per ripulirla dai criminali, da quelli che si sono macchiati di crimini. Alla fine si è rinunciato, scegliendo un compromesso.

Superate le varie barriere psicologiche, storiche o etniche, resta il fatto che Srebrenica è un posto già povero di natura, poca terra fertile schiacciata dalle montagne. Una scarsa industria che zoppicava ancora prima della guerra e che è stata distrutta.

Quello che oggi pesa a tutti, indipendentemente dalla religione o etnia, è il fatto che di lavoro ce n’è poco. Ogni tanto politici, locali o stranieri, fanno promesse ma la situazione economica non cambia.

"Vendiamo la nebbia, gli uni agli altri", mi dice Dragan, un serbo proprietario di un piccolo chiosco di verdura.

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