Genocidio armeno: per lo stato turco resta un tabù

Negli ultimi anni la società turca è molto più pronta a discutere la questione del genocidio armeno. Per lo stato e i suoi rappresentanti, però, a cento anni di distanza, il tema resta un tabù. Intervista con Yetvart Danzikyan, direttore del giornale turco-armeno Agos

23/04/2015, Fazıla Mat - Istanbul

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Yetvart Danzikyan

In che misura la questione del "Genocidio armeno" riesce a essere discussa oggi in Turchia?

La questione oggi è dibattuta molto più che in passato, per vari motivi. Prima di tutto si parla di genocidio per via del centenario. In secondo luogo, per via delle risoluzioni assunte negli ultimi anni dai parlamenti dei paesi occidentali e anche grazie all’aumento dei gruppi di cittadini che in Turchia mantengono viva la questione. Possiamo dunque dire che se ne parla. Se consideriamo invece le dichiarazioni fatte dai rappresentanti dello stato, vediamo che il genocidio rappresenta ancora una linea rossa. Non solo il genocidio è una linea rossa, ma lo stato non ha alcuna intenzione di affrontare la questione. Quando si rilasciano dichiarazioni si utilizza un tono che tende a sminuire quanto accaduto, si spiega che nel contesto della Prima guerra mondiale tutti hanno sofferto, gli armeni come i turchi. Lo stato pretende quasi che i dolori degli uni debbano bilanciare quelli degli altri. Per quanto riguarda invece la società civile, sebbene al suo interno si parli del genocidio, è tuttavia difficile dire che si stia veramente affrontando il problema.

Qual è secondo lei l’ostacolo più grande ad affrontare il problema? Eventuali richieste di risarcimento? Rivendicazioni territoriali?

Ci sono molti pregiudizi. Fino a poco tempo fa le correnti politiche che hanno orientato il paese erano rappresentate da due principali movimenti politici: quello laico e nazionalista da una parte e quello religioso e conservatore dall’altra. Ma nessuna delle due correnti ha intenzione di affrontare la questione. Sembrano addirittura contenti di vedere la comunità degli armeni sempre meno numerosa e subordinata, da un punto di vista nazionalistico, ai turchi e da un punto di vista religioso, all’Islam. Personalmente penso che le giustificazioni dello stato riguardo al pericolo di eventuali richieste di risarcimento e di rivendicazioni territoriali siano delle scuse. Niente può impedire di affrontare questo problema se lo si vuole fare. Ritengo che tutte le giustificazioni servano solo a mantenere intatto il sistema gerarchico e le condizioni vigenti. Negli ultimi anni è però emerso un terzo attore, il movimento politico curdo, le cui posizioni sono molto più avanzate rispetto a quelle delle formazioni politiche preesistenti.

Da quello che dice sembra che in un certo senso le antiche suddivisioni della popolazione ottomana basata sulla religione [millet, che in turco moderno significa nazione] continuino a vivere

Sì, naturalmente si tratta di una percezione più che un dato scientifico, ma quando si considerano tutte le rimostranze contro il Parlamento europeo e le dichiarazioni del Papa dei giorni scorsi, l’atmosfera in cui viviamo da quando è stata fondata la repubblica turca 90 anni fa, per non contare i cento anni trascorsi dal genocidio, sembra che mandare via gli armeni abbia solo reso la vita più facile alle due correnti politiche principali del paese. Secondo me è proprio questa la vera questione con cui fare i conti e che purtroppo non si affronta ancora.

Dove si posiziona la comunità armena della Turchia in questo contesto? In che modo partecipa al dibattito?

Non esiste una comunità armena omogenea in Turchia, perché è formata da strati e gruppi diversi. Detto in tutta franchezza, per una parte della comunità armena tutto questo dibattito risulta molto stancante. Non obietterebbero se non ci fosse alcuna discussione, perché ogni volta che torna a riproporsi la questione armena i politici e i media adottano a riguardo un linguaggio molto aggressivo. Questo linguaggio è veramente estenuante per una parte della comunità armena, rappresentata essenzialmente da una generazione più anziana. Tutto questo è anche indice di come lo stato sia oppressivo nei confronti degli armeni. Un altro gruppo all’interno della comunità pensa invece che lo stato, o per lo meno la società, debba ormai cercare di affrontare la questione, perché sono cent’anni che viviamo in una menzogna. Quanto ancora si può continuare a vivere in questo modo? È questa la domanda di cui non conosciamo ancora la risposta.

Qual è l’apporto del Patriarcato al tentativo di dialogare sulla questione?

Dossier dedicato al centenario del Genocidio armeno

Il Patriarcato è un’autorità religiosa e la sua posizione richiede che non possa essere in conflitto con lo stato o che possa operare fuori da esso. È sempre stato così fin dalla fondazione della repubblica. Per questo motivo, il ruolo che potrebbe assumere in questa questione è un po’ dubbio. Si consideri che, su invito del Patriarcato dell’Armenia, nelle chiese armene di tutto il mondo la notte del 23 aprile verranno suonate le campane [cento rintocchi previsti per le ore 19:15, che richiamerà simbolicamente il 1915, nda], tranne che in quelle presenti in Turchia. Il Patriarcato, volente o nolente, cerca di non discordare con il governo e lo stato, e comunque mantiene lo stesso orientamento da sempre. Ma, Patriarcato a parte, ci sono anche le organizzazioni della società civile armena che sono impegnate a cercare di instaurare un dialogo. E se questo manca, non è perché  non lo vogliono gli armeni della Turchia, perché loro dimostrano già questa apertura continuando a vivere qui. Se ci fosse un terreno adatto al confronto, gli armeni sarebbero i primi a farsi avanti. 

Di cosa c’è bisogno, secondo lei, per far sì che la società civile turca maturi una comprensione autonoma degli eventi e si confronti con il problema, svincolandosi dalla ragion di stato?

A mio avviso è importante che le organizzazioni della società civile assumano il compito che spetta loro. Non possiamo regolarci sempre su quello che fa lo stato. Ci sono partiti politici e organizzazioni, alcune delle quali provengono da una tradizione democratica e di sinistra, ma anche loro mantengono il silenzio. Ad esempio l’Unione nazionale dei medici (TİB), la Confederazione dei sindacati dei lavoratori del settore pubblico (KESK) o l’Unione delle camere degli architetti e degli ingegneri (TMMOB) sono formazioni civili rilevanti che hanno un numero di affiliati molto ampio. Mi chiedo se il 24 aprile vorranno far sentire la loro voce. Non dico che debbano usare il termine genocidio, ma che almeno dimostrino la volontà di confrontarsi con il passato. Il Partito repubblicano del popolo (CHP) che appartiene alle file delle formazioni politiche social-democratiche, ancora una volta ha scelto di adottare la linea dello stato. È quindi importante anche la posizione che assumeranno questi attori nella questione. Non so se hanno fatto dei preparativi per quest’anno, ma è sicuramente importante ciò che diranno.

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