Generazione jugoslava (I)
La memoria della seconda guerra mondiale in Jugoslavia, tra discorso pubblico e privato. Il ruolo della cinematografia e dei Memoriali. La generazione dei figli e la responsabilità per il passato, l’Europa e le guerre degli anni ’90: intervista a Rada Ivekovic
Foto: Luka Zanoni
Rada Ivekovic, filosofa, insegna al Collège International de Philosophie di Parigi e all’Università di St-Etienne
Come è stata tramandata l’esperienza antifascista nella
Jugoslavia del dopoguerra?
L’esperienza dell’antifascismo è stata trasmessa in diversi modi. All’interno delle famiglie, in forma di trasmissione personale del vissuto, e nella dimensione pubblica, tramite la celebrazione degli anniversari delle battaglie della Lotta Popolare di Liberazione NOB: Narodno Oslobodilacka Borba, ndt. A scuola poi si studiava quella storia e si festeggiavano quegli stessi anniversari. Tutti i media trasmettevano le immagini delle celebrazioni e quindi, già negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, in un certo senso avevamo un calendario parallelo, fatto degli avvenimenti determinanti per la costruzione della Jugoslavia socialista.
Qual è il ruolo svolto da Memoriali quali quelli di Jasenovac, Kozara e Sutjeska nella costruzione del discorso ufficiale sulla seconda guerra mondiale?
Non sono sicura di potermi addentrare nella storia della creazione di questi parchi memoriali. Infatti non mi ricordo dell’istituzione dei parchi della memoria come di qualcosa di specifico ma li ricordo all’interno del mio tempo personale. Esiste infatti un tempo ufficiale, pubblico, ed esiste poi un tempo privato, personale.
All’interno del mio tempo personale li ricordo – Jasenovac, ad esempio – perché mio padre è stato a Jasenovac. E’ stato scambiato, e così si è salvato, e a casa si è sempre parlato di questa sua esperienza. Un altro motivo per cui ricordo quel luogo è che il parco, che poi è diventato il simbolo di Jasenovac, è stato costruito da Bogdan Bogdanovic, quindi ora lo ricordo anche per via di Bogdan.
Sutjeska e Kozara li ricordo per i film, e credo che molti altri della mia generazione li ricordino per questo. Sutjeska però la ricordo anche per le gite scolastiche. Da bambini infatti andammo in gita a Sutjeska, dormimmo in tenda, fu un grande avvenimento. Il paesaggio era bellissimo. A Sutjeska avevo trovato alcune foto di partigiani, in una delle quali c’era anche mio padre, e ricordo di aver spedito a casa questa cartolina. A Kozara invece non sono mai stata.
In generale questi parchi sono certamente legati alla storia ufficiale, storia che per la mia generazione ha funzionato, nel senso che non l’abbiamo messa in discussione. Ma la storia ufficiale ha i suoi confini, e limita tutte le storie alternative che sono avvenute e che non sono state registrate. Un problema ulteriore è che nell’ex Jugoslavia non c’era molto spazio nella dimensione pubblica, quindi non c’era neanche lo spazio mentale per mettere in discussione tutto ciò. Non c’era spazio intellettuale per mettere in discussione i paradigmi fondativi della costruzione della Nazione.
Quali sono stati i racconti che sua madre e suo padre le hanno trasmesso sul periodo della seconda guerra mondiale? Erano coerenti con la rappresentazione ufficiale?
Io vengo da una famiglia partigiana: entrambi i miei genitori erano partigiani, come molti altri membri della famiglia. Sono nata subito dopo la guerra, nel ’45, praticamente sono nata dalla guerra. Mio fratello invece è nato nel ’38, e mia madre lo ha portato tra i partigiani quando era ancora bambino. Lì, per le difficoltà del tipo di vita e delle operazioni, non lo ha potuto tenere, e come molte donne o famiglie ha dovuto mandare il piccolo Ivan in una zona più interna, tramite i contatti che i partigiani avevano. Così mia madre ha trascorso il resto degli anni tra i partigiani da sola, senza sapere esattamente cosa ne era del bambino, e questo è un trauma che è rimasto nella mia famiglia, che mia madre non ha mai superato del tutto. Il senso di colpa di mia madre per avere «abbandonato» il figlio non l’ha mai lasciata, anche se è andato tutto bene. Allo stesso modo mio fratello ha avuto per vari anni la sensazione di essere stato abbandonato da bambino. Questo è un trauma familiare, che non appartiene alla sfera dei racconti ufficiali di quel periodo della guerra.
Erano molti i racconti, tra quelli che i nostri genitori ci hanno tramandato, che non erano legati all’ambito pubblico-ufficiale. In particolare i racconti di mia madre, che facevano riferimento ad esecuzioni troppo veloci, a casi in cui i partigiani fucilavano molto velocemente qualche giovane per motivi politici o di altro tipo. Nei casi che mia madre ricordava si trattava di solito di partigiani che nel corso di un’azione avevano rubato qualcosa, o avevano fatto alla popolazione locale qualcosa che non era stato concordato. Era un aspetto molto rigido della Lotta di Liberazione Popolare, si faceva molta attenzione a che i partigiani non approfittassero della popolazione. In quei casi sapevano fucilare i giovani che lo avevano fatto. C’erano sicuramente anche delle altre ragioni, ideologiche forse, e mia madre fino alla fine dei suoi giorni ripeteva queste storie di vittime inutili e del fatto che c’era stato un numero troppo grande di morti per cose che più tardi non sembravano più così in bianco e nero. Insomma, esisteva una differenza tra le storie che ascoltavamo a casa e le storie ufficiali. La storia ufficiale era ripetitiva e noiosa ed era la stessa ogni anno, sempre le stesse feste… Le storie di casa invece erano più personali. In qualche modo la memoria ricorda alcuni elementi ma l’esperienza non viene trasposta per intero. In questo c’è una sorta di riserva, sia da parte di coloro che parlano che di quelli che ascoltano. Oggi mi dispiace di non aver domandato alcune cose, ma non ho chiesto semplicemente perché nella mia esperienza non avevo elementi per fare domande.
I nostri genitori non ci parlavano di alcune cose, probabilmente dei loro dolori più grandi. Probabilmente hanno voluto proteggerci, o forse quel tipo di esperienza non può essere tramandata. In ogni caso non ci hanno raccontato tutto. E noi non abbiamo sentito tutto quello che raccontavano. Ci hanno parlato di alcuni episodi. Mio padre ci raccontava di terribili massacri avvenuti a Glina, dove moltissimi zingari sono stati uccisi, gettati in fosse scavate nel terreno. Mia madre, comunque, sosteneva che in vita sua non ha mai riso tanto e non è mai stata così allegra come tra i partigiani, quando era possibile. Che non c’è stato mai, né prima né dopo, un periodo così intenso e che quelli sono stati i momenti più forti. Ha pure parlato spesso della durezza di quella vita, come scappare di notte tra i boschi, sotto la pioggia, con un equipaggiamento pesante. Mi ha raccontato anche che quando lei e mio padre, che erano in due diverse unità dell’esercito, si sono incontrati alla fine della guerra (che è anche stato l’inizio della mia vita), quasi non si sono riconosciuti. Erano passati, non so, era da due o tre anni che non si vedevano, e fisicamente non si sono riconosciuti. Mia madre mi ha detto che ha incontrato anche suo fratello partigiano, che non era arrivato assieme alla sua divisione e si era presentato lì, e finché lui non le ha detto chi era lei non lo aveva riconosciuto, non sapeva chi era la persona con cui stava parlando. Ci raccontavano di queste cose, fatti umani che non avevano legame con la trasmissione della storia ufficiale. Forse esisteva uno scarto tra l’una e l’altra, ma questa distanza io la percepivo unicamente come determinata dalla noiosa ripetizione del discorso ufficiale. E dopo alcuni anni i miei genitori hanno ammesso che sì, era noioso, che non tutto era andato così e che non era necessario ripetere tutto continuamente.
Non credo che si tratti di qualcosa di tipico della storia jugoslava, ma invece di come si costruisce la memoria. Penso che la memoria ufficiale, la storia ufficiale, la storia accettata come definitiva, debba astrarre dagli elementi personali, anche se utilizza alcuni di questi elementi come casi paradigmatici. Non so, quel caduto, la madre di quel caduto, ma anche le singole storie partigiane che vengono raccontate. Ma non è mai possibile portare nello spazio pubblico tutte le storie individuali. Esse vengono trasmesse nelle storie private, nelle tradizioni familiari. Vengono messe in letteratura, nei film ecc. Nessuna memoria ufficiale, collettiva, può raccogliere tutte le memorie individuali. Ecco perché è importante il modo in cui queste storie ufficiali si incrociano e si uniscono alle esperienze individuali e personali. Il racconto ufficiale è in realtà il fondamento della nazione, in questo caso di una nazione a partito unico. Ecco perché queste narrazioni devono essere completamente definite dall’inizio alla fine. Qui non c’è molto spazio per il dubbio, non ci può essere, perché questo è ciò che deve fondare e legittimare il potere.
Il posto per i racconti individuali, in tutto ciò, è ridotto ed è lasciato solo alla prima generazione di testimoni, a quelli che hanno vissuto quegli avvenimenti, gli ex partigiani. Alcuni di loro sono andati a raccontare ciò che hanno vissuto nelle scuole, dove si creavano molti momenti umani ed emotivi: lacrime negli occhi di chi raccontava la propria esperienza e qualche volta anche negli occhi di noi bambini e degli altri che ascoltavano. Alla fine queste storie sono state bloccate in un testo chiuso. Penso che fosse inevitabile. Che questo venga poi museificato oppure no dipende molto dall’uso che il potere fa di questo suo discorso ufficiale, e da quanto è profondo e stabile il fondamento di questa narrazione.
Quale era la relazione, se esisteva, tra culto del patriarcato e della violenza e ricordo della seconda guerra mondiale?
La struttura patriarcale è stata parte fondativa della memoria nazionale e del partito. Non era necessario il culto del patriarcato. Il modo stesso di conservare queste memorie, la costruzione del potere era patriarcale. Non c’è stato il retrocedere ad un’ideologia patriarcale che era necessario coltivare in quanto tale. La società era patriarcale in modo assolutamente naturale. Anche questo non credo fosse tipico della ex Jugoslavia. Questa verticalità patriarcale è in realtà caratteristica della costruzione di un potere di questo tipo, in particolare del potere di uno Stato a partito unico.
La violenza poi è uno degli elementi costitutivi nel senso di violenza promessa, di possibilità di esercitare una violenza fisica. Il potere minaccia di usare la violenza, non è sempre necessario farne uso. Non è necessario usarla perché la si minaccia. Esiste un equilibrio che prevede che la gente sia protetta dalla violenza diretta quando si esce dal periodo di guerra, ma questa violenza potenziale in realtà costituisce, costruisce il potere. E costruisce la stabilità. L’aspetto positivo è dunque la stabilità, che viene mantenuta tramite la minaccia della violenza. Questa è la caratteristica di ogni potere. Penso che neanche in questo aspetto ci siano delle caratteristiche particolari tipiche della situazione jugoslava.
L’affermazione di posizioni nazionaliste e fasciste negli anni ’80 e ’90, in Jugoslavia e nei nuovi Stati, può essere messa in relazione con una mancata elaborazione della memoria della seconda guerra mondiale nel periodo socialista?
Penso dipenda dal modo in cui consideriamo la storia. Credo che il modo in cui interpretiamo la storia influisca sulla storia stessa di cui parliamo. Non possiamo estrapolare e parlare della storia come se le cause e le conseguenze che si sono verificate non abbiano alcun legame con il fatto che noi ora stiamo parlando di ciò. Penso che noi siamo responsabili e corresponsabili degli stessi avvenimenti di cui parliamo, anche retrospettivamente. Credo che nella storia sia molto importante questo rileggere indietro, ma se vogliamo de-strutturare questa bomba temporale della violenza storica, è meglio che non saltiamo troppo presto dalle cause alle conseguenze dicendo che le guerre negli anni ’90 in ex Jugoslavia sono il diretto proseguimento della seconda guerra mondiale, e che questi nazionalismi sono la diretta conseguenza del nazismo, del fascismo e dei nazionalismi di allora. Questa lettura incrociata e retrospettiva della storia mi sembra davvero fondamentale, ma nessuno all’epoca ce lo ha insegnato. Ed è difficile impararlo, è forse qualcosa che si può ricostruire con l’esperienza. Penso che sia molto più proficuo leggere la storia all’indietro, non per poter dire: "Gli anni ’90 sono stati una prosecuzione della seconda guerra mondiale", ma in modo da analizzare e vedere come tutti siamo stati corresponsabili di quello che ci è successo e, nella situazione in cui ci troviamo oggi, siamo corresponsabili sia per il passato che per il futuro. E questo dipende dal modo in cui ci costituiamo soggetti pensanti e soggetti politici.
C’è stata una generazione, o più generazioni – a cui appartengo anch’io – che non si sono costituite come soggetti politici, con libertà di azione e di pensiero politico, tali da poter ricostruire il nostro passato e costruire il nostro futuro. Il problema non è che il contesto politico fosse repressivo e non permettesse di pensare, anzi. C’era abbastanza libertà di pensiero in ex Jugoslavia, e diverse libertà di pensiero – al plurale. C’erano spazi pubblici di discussione, anche se non sufficienti. Ma il fatto è che la generazione dei nostri genitori ha voluto proteggerci dalla necessità che anche noi passassimo attraverso lo stesso processo di lotta politica e di assunzione di un’identità. Hanno voluto servirci tutto pronto sul piatto. Con le migliori intenzioni, hanno pensato di porgerci su un piatto il socialismo e la democrazia, la democrazia socialista, così che noi potessimo godere dei frutti di ciò che loro avevano creato. Non è passato loro per la testa che ogni generazione deve prendere parte attivamente alla vita politica e che non si può ricevere la libertà pronta su un piatto. Ogni generazione la deve creare per sé. In questo senso, noi non siamo stati soggetti politici, non abbiamo avuto spazio politico, non siamo stati una generazione politica. E queste sono tutte situazioni pericolose per potenziali conflitti. Quando non c’è soggettività politica individuale e collettiva si crea lo spazio per la cementificazione delle identità, di identità definitive in contrasto l’una con l’altra, che sono per definizione potenzialmente violente e reciprocamente assassine. Chi ha descritto al meglio questo processo è Radomir Konstantinovic, nel suo libro "Filosofia del borgo" Filozofija palanke. Lo ha fatto negli anni sessanta, ma quando noi lo abbiamo letto non ci siamo riconosciuti in quel libro, o non ci siamo riconosciuti abbastanza, credo non avessimo gli strumenti per riconoscerci. Penso che sia successo questo: non siamo stati soggetti in misura sufficiente.
Le generazioni che si affacciano allo spazio pubblico oggi, dopo le guerre degli anni ’90, vivono una condizione simile a quella di voi nati dopo la seconda guerra mondiale?
Esistono sicuramente delle analogie, ma esistono anche delle situazioni completamente nuove, storicamente nuove, che non c’erano durante o dopo la seconda guerra mondiale. Allora c’era la speranza di un progetto nuovo. Oggi ci troviamo in un mondo globalizzato e alle frontiere dell’Europa – qualcuno è già entrato, la Slovenia. In un certo senso quella degli anni ’90 è stata una guerra per l’ingresso in Europa. Ora il problema si allarga, non c’è solo il problema della soggettività politica negli Stati dei Balcani. Il fatto è che io non sono sicura che l’Europa abbia davvero un qualche progetto politico. Perché possano esistere dei soggetti politici bisogna avere dei progetti politici che li
creino, che diano loro forma, e questo oggi non c’è. Penso che lo spazio dell’ex Jugoslavia partecipi ad un processo generale di de-politicizzazione che non è una caratteristica solo dei Balcani, ma è una caratteristica dei nostri tempi, dell’Europa e del mondo. Ma questa de-politicizzazione è molto drammatica in ex Jugoslavia e lo è particolarmente in quelle zone che dopo le ultime guerre non hanno vissuto un processo di de-nazionalizzazione. I programmi nazionalisti sono ancora tutti più o meno presenti, non c’è nessuno che voglia regolare i conti con essi né c’è stato un taglio netto.
Dopo la seconda guerra mondiale, ad esempio in Germania o nell’Italia fascista, c’è stato un taglio netto. Noi invece siamo usciti da queste guerre nei Balcani senza aver risolto nulla, e ora pensiamo che l’adesione all’Europa risolverà ogni problema, mentre
si tratta di un processo molto lungo.
Se si è trattato di una guerra per l’ingresso in Europa possiamo dire che solo la Slovenia l’ha vinta. Sono passati molti anni ormai…
In un certo senso. Però l’Europa ora si è impegnata con tutti, così ora è lo stesso. Se fosse dipeso da me, non avrei mai permesso che la Slovenia entrasse prima degli altri in Europa. Avrei detto o tutti o nessuno. Penso che davvero la responsabilità sia da ripartire, anche se non nella stessa misura. Ma credo che gli anni ’90, e queste guerre, siano state costitutive per l’Europa, che l’Europa prima di quelle guerre non avesse progetti di allargamento, verso i Balcani e l’Europa orientale. Ora le frontiere europee hanno incluso le repubbliche baltiche, alcuni Stati dell’Europa dell’est e dell’ex Jugoslavia, per ora la Slovenia. Penso che questo sia il risultato delle guerre balcaniche degli anni ’90.
(1 – continua)