Gabriel Keller: verso la guerra del Kosovo

Durante l’inverno 1998-1999, l’Osce dispiegò una missione di "verifica del cessate il fuoco" in Kosovo. L’ambasciatore francese Gabriel Keller ne fu il numero 2. La sua è una testimonianza importante per comprendere le dinamiche che hanno portato ai bombardamenti, ora riportata in un libro. Intervista

24/03/2021, Jean-Arnault Dérens -

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Missione di verifica OSCE in Kosovo, 14 novembre 1998 - Bela Szandelszky/OSCE

(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans )

Nell’ottobre 1998 lei è diventato il numero due della missione Osce in Kosovo. Come è arrivato a questo incarico?

Ero già stato di stanza a Belgrado nel 1995-1996, dopo la firma degli Accordi di pace di Dayton, prima come incaricato d’affari e poi come ambasciatore. Nel 1998 ero a Londra, ma ho continuato ad interessarmi di questioni legate alla ex Jugoslavia.

La missione Osce è stata creata all’improvviso, dopo forti pressioni della Nato e rapidi negoziati con Belgrado… Venne subito sottolineato che la guida della missione sarebbe stata degli Stati Uniti, ma la Francia ha insistito per avere anche un “numero 2”. Gli Stati Uniti erano contrari, avrebbero preferito che William Walker fosse circondato da quattro o cinque persone allo stesso livello. È stato Hubert Védrine, il ministro degli Affari esteri francese, a insistere sul fatto che venisse nominato un vero numero due.

Durante il suo primo soggiorno a Belgrado, stavate già seguendo la questione del Kosovo?

Certo, e ci andavo abbastanza regolarmente. Abbiamo predicato moderazione ad entrambi, agli albanesi, che avevano proclamato una "Repubblica del Kosovo" sotto la guida di Ibrahim Rugova, come ai serbi. Abbiamo ricordato che l’unica soluzione possibile era quello della negoziazione.

Le relazioni con William Walker sono divenute presto tese…

Sì, ma non subito. All’inizio eravamo tutti ufficialmente sulla stessa linea, quella dei negoziati. E abbiamo dovuto fare i conti con le emergenze, in particolare l’emergenza umanitaria, poiché decine di migliaia di persone vivevano in montagna, nei boschi, dopo essere state cacciate dai loro villaggi dalle offensive serbe dell’autunno. Va ricordato che all’epoca nessuno nella comunità internazionale vedeva l’indipendenza come un’opzione. Si trattava di portare tutti al tavolo per definire uno statuto di ampia autonomia per il Kosovo, nel quadro della Federazione jugoslava dell’epoca.

Ben presto divenne chiaro, tuttavia, che William Walker aveva un programma diverso. È diventato perfettamente chiaro quando si verificarono gli eventi del 14 dicembre 1998: l’esercito jugoslavo aveva ucciso 31 membri dell’Uck che cercavano di attraversare il confine dall’Albania e sei giovani serbi vennero uccisi in un bar nella città di Peć/Peja. L’inviato statunitense Richard Holbrooke, che era in Kosovo, tenne davanti a noi un discorso inequivocabile: l’attacco al bar di Peć/Peja era stato un atto di t[]ismo, mentre l’agguato al confine un atto di guerra. Non si poteva biasimare la Jugoslavia per aver difeso il proprio confine…

Al contrario, interrogato dalla stampa, William Walker dichiarò di condannare “la violenza in tutte le sue forme”, il che equivaleva a mettere questi due atti sullo stesso piano.

Quindi c’erano due linee all’interno della stessa amministrazione americana?

Sì, c’erano falchi e colombe. Christopher Hill ha davvero cercato un percorso negoziato. Può sembrare difficile non classificare Richard Holbrooke tra i falchi, ma non era quello con l’atteggiamento più radicale. Madeleine Albright lo era molto di più. Già in autunno, aveva detto che il problema era Milošević. Come è possibile negoziare con qualcuno se si dice che è il problema?

Lei dedica molte pagine [del suo libro] al massacro di Račak del 15 gennaio 1999, che ebbe un ruolo decisivo nella marcia verso la guerra…

In effetti, e non sono a conoscenza di tutte le informazioni, ancora non capisco tutto quello che è successo a Račak. Continuo a interrogarmi su alcuni punti. Račak è stato un punto di svolta, un punto focale. In molte argomentazioni dei serbi si dice che sia stato uno scontro come tanti altri, ma seguito da un successivo depistaggio, una messa in scena, servita poi da pretesto per affossare i negoziati e per i bombardamenti. Questo ovviamente non è vero, ma mi interrogo anche sulla versione albanese, che la interpreta esclusivamente come un massacro, un crimine contro l’umanità.

So che alcuni cadaveri sono stati sottoposti a mutilazioni post mortem, per rendere la scena ancora più terribile, e mi resta l’impressione che due eventi si siano susseguiti: un combattimento, uno scontro militare e poi delle esecuzioni.

Il famoso rapporto di Helena Ranta, la scienziata forense finlandese, su quanto è accaduto è stato determinante nella strada che ha portato ai bombardamenti…

Sì, ma non ha aggiunto nulla di decisivo. Non ha potuto recarsi sul campo, ha solo esaminato i corpi, molto tempo dopo la loro morte. Lei stessa ha ammesso di essere stata sottoposta a fortissime pressioni dal suo governo e dagli Stati Uniti. Durante la sua famosa conferenza stampa del 17 marzo a Pristina, una settimana prima dei bombardamenti, ha dichiarato che sì, il massacro di Račak era un crimine contro l’umanità, ma che per lei la morte di un singolo civile era già un crimine contro l’umanità… Comunque, in quella data, la decisione di bombardare era già stata presa e i preparativi erano entrati nella fase finale. La decisione era stata presa dopo il fallimento dei negoziati di Rambouillet.

Nel suo libro fornisce informazioni sui preparativi per questi negoziati, visti da chi viveva sul campo, in particolare si sofferma sulla difficile partenza dei rappresentanti dell’Uck che si è trovato a negoziare con i serbi… A quel tempo, cosa sapevamo, cosa sapeva lei di Hashim Thaçi?

C’erano voci molto diverse nella missione… Non occorre dimenticarsi che vi era molto personale locale, albanesi o serbi, che ci portato le loro informazioni. Dai nostri contatti con politici albanesi non UÇK arrivavano notizie terrificanti. Un dirigente dell’LDK, di cui non farò il nome, ci disse che Thaçi uccideva e torturava con le sue stesse mani. All’inizio del 1999 vi furono in media da tre a cinque morti al giorno in tutto il Kosovo, per lo più albanesi, ovviamente. Ma, durante la missione, abbiamo stimato che due albanesi su tre venissero uccisi dallo stesso Uck.

Tra questi vi è ovviamente il noto caso del giornalista Enver Maloku, capo del servizio stampa dell’LDK, assassinato all’inizio di gennaio. Venne ucciso dall’UCK, non vi è mai stato il minimo dubbio. Ricordo il compianto Fehmi Agani, primo consigliere di Ibrahim Rugova, che non poteva dirci pubblicamente che era l’UCK ad essere responsabile, ma che ci disse, con il suo famoso sorriso: "C’è sempre qualcosa di misterioso negli omicidi…".

Venne contattato da Dick Marty quando quest’ultimo redasse il suo rapporto sui crimini attribuiti all’UCK, e pensa che la chiameranno a testimoniare davanti alle nuove Camere specializzate dell’Aja?

No, non venni mai contattato da Dick Marty, il cui rapporto ovviamente ho letto con attenzione. Non credo che sarò chiamato a testimoniare nei processi in corso, non ho informazioni da fornire. D’altra parte, sono stato interrogato a lungo dai magistrati dell’Aja dopo i bombardamenti, in particolare sul ruolo del vice primo ministro Šainović e su Račak. In seguito fui invitato a testimoniare al processo contro Milošević, ma poiché all’epoca ero ambasciatore a Belgrado, preferii non farlo.

Il fatto che fosse Hashim Thaçi a dirigere la squadra negoziale albanese a Rambouillet fu una sorpresa?

Totale! Nessuno se lo aspettava. Naturalmente, sapevamo che l’UCK era la forza in ascesa e che l’LDK era in declino, che molte persone si stavano avvicinando all’UCK, anche nelle città. La posizione di Ibrahim Rugova, che parlava del "popolo delle montagne", assicurando che si sarebbero uniti a lui, era del tutto irrealistica.

Ora sappiamo che a quel tempo Hashim Thaçi era già collegato ai servizi americani, ma anche ai servizi francesi…

Ne ero totalmente all’oscuro! L’ho scoperto più tardi.

Ma vi erano anche due linee di pensiero diverse nell’amministrazione francese?

La linea di Quai d’Orsay era chiara. Hubert Védrine mi disse di parlare con tutti. Credo anche che le cose fossero chiare da parte del Presidente della Repubblica, Jacques Chirac, ma non dimentichiamo che eravamo in un periodo di convivenza. Dal fallimento di Rambouillet, quando i bombardamenti sono diventati inevitabili, mi è sembrato che Hubert Védrine fosse meno favorevole del primo ministro Jospin e persino del presidente.

Parlare con tutti… Ma riuscì a farlo con l’UCK?

Provai a mettermi in contatto con l’UCK, ma fu difficile. Loro stessi volevano parlare solo con gli americani. Per negoziare il passaggio della delegazione che doveva recarsi a Rambouillet, incontrai Jakup Krasniqi: William Walker si infuriò quando venne a saperlo. Gli americani volevano monopolizzare tutti i contatti con l’UCK.

Veniste infine evacuati dal Kosovo, la missione venne spostata in Macedonia e il 24 marzo iniziarono i bombardamenti. Cosa stava accadendo?

Il periodo macedone è stato molto interessante. Per me era chiaro che la missione era finita, ma ufficialmente continuavamo a dire che sarebbe tornata in Kosovo, sotto la protezione della Nato… Il problema è che la Nato e l’Osce non sono la stessa cosa. A quel tempo, l’Osce era composta da 54 paesi e la Nato da 19 – i 35 stati membri dell’Osce e non della Nato si sentivano sempre meno rappresentati e spesso erano in aperta opposizione alle decisioni prese. Fu allora che i russi, per esempio, se ne andarono.

Dopo lo scioglimento della missione in maggio, lei si pronunciò davanti alle più alte cariche dell’Osce parlando di un suo fallimento. Perché questo fallimento?

L’Osce è un’organizzazione complessa e politicamente debole, quindi facilmente influenzabile dai grandi stati. La presidenza era allora detenuta dalla Norvegia, e vorrei rendere omaggio qui a quella presidenza norvegese, molto obiettiva e coraggiosa. Ma non poteva competere con il protagonismo degli Stati Uniti, in una situazione in cui gli europei erano molto divisi tra loro. Trovai in quel periodo un po’ di sostegno dai miei colleghi tedeschi e soprattutto italiani, ma l’Unione Europea era totalmente assente, mentre i britannici erano allineati sulle posizioni di Walker.

Una missione partita già all’inizio con un’organizzazione così squilibrata rischiava di perdere di vista l’obiettivo che era quello di sostenere una soluzione negoziale. Sapendo che tutto è finito con i bombardamenti, parlare di fallimento è ai miei occhi una tautologia. È un peccato, perché se gli europei fossero stati uniti e avessero parlato a voce alta, avremmo potuto ottenere risultati molto diversi. Alla fine del 1998 si credeva davvero nella possibilità di una grandissima autonomia per il Kosovo, con il suo Parlamento, il suo sistema giudiziario, istituzioni indipendenti e multietniche. Era fattibile e questo è ciò che contiene la parte politica degli accordi di Rambouillet. All’epoca, va anche notato che la Serbia si è sparata in un piede. Avrebbe dovuto accettare il lato politico degli accordi, che l’avrebbero messa in una posizione forte per rinegoziare la parte militare che non era accettabile così come era stata posta. Gli albanesi, dal canto loro, capivano bene il gioco, e accettavano tutto, anche se la parte politica, in verità, era distante da quanto volevano.

Rifiutando l’accordo, la Serbia ha reso inevitabili i bombardamenti. Ma Milošević li ha voluti pensando di rafforzare il proprio potere?

Questo è ciò che molti pensavano allora a Belgrado, e credo che rimanga un’interpretazione valida.

Lei è tornato in Serbia nel 2000, come ambasciatore di Francia, dopo la caduta di Milošević. In retrospettiva, sono state perse occasioni per compiere progressi sulla questione delle relazioni tra Serbia e Kosovo in questi anni?

Era difficile. Il presidente Koštunica era un nazionalista, che non voleva in alcun modo sentir parlare dell’indipendenza del Kosovo, il primo ministro Zoran Đinđić dal canto suo poteva anche lasciarsi convincere… A Belgrado ho incontrato anche molti "realisti" che stavano valutando una divisione territoriale del Kosovo, un’opzione che è riemersa nelle discussioni tra Aleksandar Vučić e Hashim Thaçi, ma che fortunatamente non sembra più essere all’ordine del giorno.

Quest’opzione rappresenterebbe un rinnegare tutta la politica europea nei Balcani negli ultimi tre decenni volta a sostenere società democratiche e plurali, non a creare demarcazioni etniche.

In qualità di ambasciatore, lei ha affrontato diverse questioni legate al Kosovo, tra cui quella del rilascio di Albin Kurti, allora detenuto in Serbia… Nel suo libro, però, non gli risparmia critiche…

No, lo presento come un giovane dai capelli ricci un po’ intransigente… Ma il mio sguardo è benevolo! Dopo la guerra, abbiamo lavorato con il mio assistente Christian Thimonier per farlo uscire dalle prigioni serbe il più rapidamente possibile. Il politico che è ora deve poter guardare al giovane militante che era con un po’ di ironia.

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