Fratelli armeni
Un gruppo di intellettuali turchi lancia un appello alla riconciliazione con gli armeni. La Procura di Istanbul denuncia l’iniziativa, ma la petizione sta raccogliendo migliaia di adesioni. Il dibattito nel Paese e le iniziative per il secondo anniversario dell’omicidio Dink
Ha raggiunto le oltre 28mila e cento adesioni la petizione online Chiedo scusa agli armeni lanciata alla fine dello scorso dicembre da un gruppo di accademici e intellettuali turchi. Le poche righe uscite dal pugno dei suoi promotori, i docenti universitari Baskın Oran, Ahmet İnsel, Cengiz Aktar, i giornalisti Ali Bayramoğlu e Aydın Engin, sono il frutto di una meditazione durata un anno per arrivare ad esprimere la propria posizione di fronte a uno dei temi più spinosi per la Turchia, quello del riconoscimento del genocidio armeno, che la storiografia turca identifica come "migrazione forzata". "Il mio cuore non accetta il fatto che la gente stia insensibile alla grande tragedia che gli armeni ottomani hanno vissuto nel 1915" – si legge nel teso redatto in più lingue, tra cui l’italiano – "respingo questa ingiustizia e condividendo il loro dolore e sentimento chiedo scusa ai miei fratelli armeni".
Come specifica il prof. İnsel, il documento vuole essere anzitutto "una presa di posizione individuale di fronte alla responsabilità storica. Noi cittadini abbiamo il diritto di esprimere le nostre opinioni sulla storia della Turchia in modo indipendente dalla storiografia ufficiale. Non bisogna trasformare questa campagna in uno strumento politico". Il Prof. Aktar ricorda invece quale sia la versione della storiografia ufficiale su questo tema: "Un avvenimento comune e di secondo piano; spiegata con i massacri reciprochi giustificati con le condizioni della Prima guerra mondiale. Tuttavia, purtroppo, la realtà è alquanto diversa. Forse c’è una sola verità, e cioè che gli armeni non sono più presenti in Anatolia, mentre le altre ‘presenze’ turche e curde ci sono ancora. Le cose capitate agli armeni, in Turchia sono pochissimo note, sono state fatte dimenticare, rimuovere. I turchi le hanno sentite dai racconti dei loro nonni. Ma l’argomento non è mai potuto diventare un racconto oggettivo di storia. Ed è per questo che molte persone oggi credono in completa buona fede che non sia capitato niente agli armeni. I firmatari di questa petizione sono dei singoli soggetti. Si tratta di una voce proveniente dalla coscienza del singolo. Chi vuole chiede scusa, chi non vuole no."
Nonostante nella dichiarazione non compaia l’espressione "genocidio", per i suoi ideatori e tutte le persone che si sono unite successivamente alla campagna è scattata una denuncia presso la Procura generale di Istanbul, per avere infranto l’articolo 301 del codice penale per "offesa della identità turca". Nella denuncia si fa notare che la petizione è "un’aperta umiliazione del popolo turco", "un’imputazione al grande popolo turco di un genocidio" gesti, questi ultimi, "comprovati" dal metodo di diffusione della petizione "realizzata su internet per essere propagata al mondo intero".
In seguito alle modifiche apportate lo scorso anno dal parlamento all’articolo 301, spetterà ora al ministro della Giustizia valutare se il testo rappresenti un’offesa alla "turchità". Nel frattempo il premier turco Erdoğan ha preso le distanze dall’appello affermando: "Evidentemente loro hanno commesso un tale genocidio e quindi chiedono scusa. La Repubblica della Turchia non ha alcun problema di questo tipo … Non accetto e non sostengo questa campagna. Noi non abbiamo commesso alcuna colpa e dunque non chiedo scusa. Se fossi colpevole, lo farei." Il presidente della Repubblica Abdullah Gül, dal suo canto, si è invece lamentato del fatto che chi intraprende tali iniziative "non chieda il permesso alle istituzioni", ritenendo che la petizione abbia avuto un "effetto negativo" nel processo di ristabilimento dei rapporti tra la Turchia e l’Armenia, congelati dal 1993, e ripresi timidamente lo scorso settembre in occasione di una partita di calcio tra le nazionali dei due paesi, cui Gül ha assistito a Erevan assieme al presidente armeno. Anche lo Stato maggiore si è unito al coro delle disapprovazioni: "Riteniamo che non sia corretto quello che si sta facendo. Chiedere scusa oltre che sbagliato può anche essere dannoso".
Se per quanto riguarda la "grande tragedia" prevale ancora un atteggiamento di paura che vuole evitare il confronto con il passato, la recentissima pubblicazione del libro dello storico Murat Bardakçı "Talat Paşa’nın Evrak-ı Metrukesi" (I Documenti lasciati da Talat pascià) porta alla luce un nuovo dato che può far ripartire il dibattito sulla questione, giacché ristabilisce per la parte turca il numero degli armeni coinvolti negli eventi del 1915, e questa volta con una prova inoppugnabile: 972 mila persone che risultano assenti al conteggio demografico successivo al biennio 1915-16, secondo quanto registrato nel diario tenuto dal pascià Talat, che fu ministro dell’Interno dell’allora governo guidato dal movimento Unione e Progresso e anche responsabile diretto dell’ordine di far "evacuare" gli armeni dall’Anatolia.
In queste ultime settimane, mentre la Turchia assiste ogni giorno a nuovi arresti di personalità di spicco del passato recente e del presente del paese, da ex generali a politici, da fanatici nazionalisti a giuristi, accusati di essere coinvolti nelle trame dell’organizzazione eversiva Ergenekon, prende forma anche il faticoso processo per portare alla luce i fatti e i responsabili dell’omicidio del giornalista armeno Hrant Dink, cui il sito della petizione dedica un’ampia sezione. Il secondo anniversario della sua morte cadeva proprio il 19 gennaio scorso, e 10mila persone si sono raccolte a Istanbul, davanti alla sede del suo giornale, ARGOS, per commemorarlo e chiedere giustizia.
Non è ancora stato provato un collegamento tra l’assassinio del giornalista e Ergenekon, ma l’avvocato della famiglia Dink, Fethiye Çetin, ha dichiarato al quotidiano "Taraf" che esistono grandi analogie tra il modo di operare di Ergenekon e l’omicidio Dink. Sono molte le domande che attendono una risposta. Per esempio non si sa ancora chi abbia fornito l’arma del delitto. Gli imputati che sono stati portati in aula sono un gruppo organizzato intorno all’ultranazionalista BBP (Büyük Birlik Partisi – Partito della grande unione), ma è diventato sempre più evidente che questi sono solo i pesci piccoli dietro cui si nascondono quelli più grandi.
La scoperta che Erhan Coşkun, uno dei due imputati dell’omicidio, fosse un membro "ausiliare" dei servizi segreti, ha portato a galla il legame tra l’attentato e lo Stato. Resta infine fortissima l’eventualità che Ramazan Akyürek, direttore della sezione dei servizi segreti di Trabzon, e Ali Öz, comandante della gendarmeria della stessa città, non abbiano preso le misure necessarie per evitare l’attentato pur essendo stati avvisati dallo zio di Yasin Hayal, secondo imputato principale. Tutto questo nel rapporto che la commissione di vigilanza del Primo ministro ha redatto e presentato al premier Erdoğan due mesi fa. Farà ora seguito l’istruttoria sui due responsabili delle forze dell’ordine. Non è arrivato invece il consenso ad avviare un’indagine sulla municipalità e sulla prefettura di Istanbul, altrettanto responsabili – secondo la famiglia Dink – di non aver preso alcuna precauzione nonostante anche loro fossero stati messi al corrente del programmato attentato. La famiglia Dink ha tuttavia contestato questa ultima risoluzione rivolgendosi alla Corte europea per i diritti dell’uomo.