Forum cooperazione: secondo Alberto Bobbio occorre investire sulla cultura

Intervista ad Alberto Bobbio, inviato del settimanale "Famiglia cristiana" nei Balcani. Una fitta trama di fonti locali non convenzionali. Durante i suoi viaggi ha inoltre incrociato più volte le rotte di volontari, operatori umanitari e pacifisti.

11/03/2002, Redazione -

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il logo del settimanale Famiglia Cristiana

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L’intervista è stata tratta dal libro "Ricostruire il domani. La Caritas italiana e le Caritas diocesane per una nuova convivenza in Kosovo" edito recentemente dalla Caritas italiana. Un ulteriore contributo al "Forum cooperazione".

Dieci anni di guerre nei Balcani, seguiti con coraggio ed acume critico sin dallo scoccare dalle prime scintille. Alberto Bobbio, inviato speciale di Famiglia cristiana, è tra i pochissimi giornalisti italiani a poter vantare, rispetto alla dissoluzione violenta della ex Jugoslavia, una memoria professionale ininterrotta, nutrita da passione e da una fitta trama di fonti locali non convenzionali. Durante i suoi numerosi viaggi nei Balcani ha inoltre incrociato più volte le rotte di volontari, operatori umanitari e pacifisti, italiani e non. L’identità e la sensibilità della testata per cui lavora lo hanno indotto a non trascurare questa galassia di storie e di volti, di slanci e di progetti – capace di un’azione parallela a quella delle diplomazie, delle istituzioni, degli eserciti locali e internazionali. Un’azione ricca di vita e di attenzione a ogni vita umana, ma in certi casi e in certi frangenti segnata anche da ambiguità e contraddizioni.

Alberto, hai visto prima distruggere e poi ricostruire tanti luoghi della ex Jugoslavia. Hai visto all’opera una schiera innumerevole di organismi umanitari, governativi e non. Come giudichi l’impegno della comunità internazionale per la rinascita di quei territori?

Come premessa, vorrei distinguere due livelli di intervento della comunità internazionale nei Balcani. Il primo è quello militare. Senza i soldati Kfor in Kosovo, e prima senza i soldati delle altre missioni nei Balcani, tutto sarebbe stato più difficile. L’azione politica infatti non è riuscita a far sì che le varie comunità dei Balcani convivessero pacificamente, o perlomeno trovassero un interesse comune a stare insieme. Quando c’era la Jugoslavia unita, l’interesse comune era rappresentato dai rapporti economici interni, una sorta di "mercato comune jugoslavo" che cementava popoli che nemmeno allora si amavano. Inoltre, c’erano l’ideologia comunista e le spinte provenienti dallo scenario internazionale. E aree di vera democrazia e di fertile dibattito culturale. Ma all’inizio degli anni ’90 – anzi, addirittura dalla morte di Tito, quando è apparsa evidente l’assenza di un atteggiamento comune del resto del mondo riguardo ai Balcani, perché ognuno aveva i propri interessi da promuovere e difendere in quell’area, dove si sperava che emergesse un’altra personalità in grado di garantire unità e stabilità – le istituzioni politiche internazionali non hanno saputo prevenire e frenare l’aggravarsi dei conflitti. Così, a un certo punto, la comunità internazionale ha dovuto inventarsi uno strumento militare per stabilizzare l’area, garantendo che i popoli in lotta venissero divisi, per tornare in futuro a convivere e cooperare, in qualche forma. Il livello militare ha consentito alle organizzazioni umanitarie di entrare in Kosovo (e prima in altri scenari) in condizioni di sicurezza, che non è cosa da poco. Non si può sostenere, con un discorso ideologicamente pacifista, che la presenza umanitaria e internazionale avrebbe potuto fare a meno del supporto militare, che garantiva un quadro di sicurezza. Io non conosco a fondo l’esperienza di altri contingenti, mentre conosco bene quella dei contingenti italiani, sia in Kosovo che in Bosnia: ritengo che tra militari italiani e organismi internazionali vi sia stata una buona cooperazione. Non è, peraltro, un’impressione soltanto mia: me l’hanno confermata molti volontari.
Detto dello strumento militare, ci si può concentrare sul ruolo degli organismi umanitari. Si può dire solo bene?

Bisogna operare alcuni distinguo. Come sempre accade in contesti segnati da un lacerante conflitto, quando è garantito un minimo di sicurezza si precipitano molte organizzazioni umanitarie. Nei Balcani, c’è stato, a più riprese, un proliferare di sigle. In futuro, però, bisognerebbe trovare forme più efficaci di coordinamento, forse una sorta di "parlamento delle ong", uno strumento che consenta di stabilire chi fa cosa, e perché. E anche se le cose che si fanno rispondono agli interessi delle popolazioni locali, oppure ad altre logiche, dettate magari dagli interessi dei paesi d’origine delle ong, o di alcune lobby politiche e finanziarie che in quei paesi operano.
Sovente, infatti, ho visto organismi e individui lavorare in maniera disinteressata, per ricostruire case e occasioni di convivenza. Altri soggetti, invece, mi hanno dato l’impressione di agire perché devono sopravvivere, e dunque hanno bisogno di "appalti" e finanziamenti. Ritengo poi che le grandi ong e gli organismi delle Nazioni Unite mettano in campo forze enormi, ma con risultati inversamente proporzionali rispetto alle forze schierate. Un esempio? I grandi campi profughi, in Albania e Macedonia, all’epoca della guerra in Kosovo: finché, nelle prime due settimane, sono stati gestiti dai militari, hanno funzionato bene; poi, quando sono passati alle agenzie Onu, hanno smesso di funzionare a dovere. Capita sovente che i grandi organismi internazionali non ascoltino le ong locali, gli intellettuali locali, le piccole organizzazioni straniere che hanno rapporti diretti con le comunità, i leader, i rappresentanti religiosi del luogo in cui si interviene. Condannandosi così a interventi non incisivi, se non addirittura controproducenti.

Dunque, andrebbero escogitate forme di coordinamento, anche per evitare che ci siano luoghi, città, villaggi e comunità che ricevono grandi aiuti, e altri che vengono dimenticati. Bisognerebbe inventarsi qualche forma di coordinamento o controllo, che renda più capillare, equa ed efficace la gestione umanitaria delle crisi e delle fasi di ricostruzione.
In altri scenari segnati da gravi crisi, negli anni ’90, la grande mobilitazione umanitaria è stata macchiata da episodi equivoci, che hanno avuto per protagoniste organizzazioni mosse da interessi inconfessabili. È accaduto anche nei Balcani? E si è trattato di episodi veniali e limitati, o di una pratica diffusa?

Ci sono stati sicuramente episodi poco edificanti, in un decennio di presenza umanitaria nei Balcani. Però il problema vero è un altro. Il caso della Bosnia, a questo proposito, è emblematico. Questo paese è stato sottoposto a prove durissime e dopo la guerra è stato teatro di un’ampia ricostruzione, grazie alla fortissima presenza internazionale. Ma il prezzo da pagare a questa presenza non è stato irrilevante. Essa ha infatti alimentato un’economia "drogata". La ricchezza reale prodotta, in Bosnia, ancora oggi è inconsistente, ha valori infinitesimali rispetto alla falsa ricchezza indotta o importata nel paese dagli operatori internazionali. Il velo dell’illusione è stato definitivamente strappato negli ultimi mesi: la presenza internazionale ha comincia a ritirarsi dalla Bosnia, e l’economia è tornata ai livelli disastrosi dell’immediato dopoguerra. Il caso bosniaco insegna che sarebbe necessario trovare forme di intervento che badino a ricostruire anche una capacità produttiva e una ricchezza reale. È inevitabile che, in un paese sfasciato, arrivino dall’estero aiuti per l’emergenza. È inevitabile che gli internazionali, con i loro salari e i loro tenori e stili di vita, facciano lievitare i prezzi in alcuni settori e condizionino almeno in parte un’economia e una società. Ma bisognerebbe formare le nuove leve politiche locali ad affrontare questi problemi. E, parallelamente, sarebbe bene che gli operatori internazionali facessero un passo indietro. Mutando il loro stesso atteggiamento mentale: le grandi organizzazioni devono formare il personale secondo criteri di responsabilità, perché non si può andare in un teatro di crisi – sia esso un paese balcanico, oppure il Ruanda o Timor Est – come mercenari della solidarietà.
In definitiva, penso che nei Balcani abbiano lavorato bene le ong medio-piccole, quelle che hanno avuto direttamente a che fare con le persone, che non si sono chiuse negli uffici, che hanno camminato nel fango senza limitarsi a escursioni nei villaggi a bordo di gipponi blindati. Queste realtà hanno espresso un modello di vicinanza reale alle vittime delle guerre: era come se dicessero "io mi interesso di te, perché tu sei importante per me. Non solo per la mia formazione professionale, ma anche per la mia dimensione umana".

L’operatore internazionale come mercenario. Ma non esiste anche un rischio di "paternalismo umanitario"?
Può capitare, in certe fasi storiche, che ci siano paesi che per cultura, per storia e per posizione geografica debbano quasi diventare fratelli di altri paesi, per accompagnarli sulla via della democrazia, del diritto, dell’organizzazione di uno stato libero e moderno. Non perché gli uni siano superiori agli altri, ma perché vi possono essere state circostanze che hanno prodotto traumi o ritardi. Ciò deve avvenire comunque nel rispetto delle culture locali. E questo spesso nei Balcani non è si è verificato, soprattutto per quanto riguarda i grandi organismi internazionali.
Il tema della cultura secondo me è essenziale e va applicato agli individui, oltre che agli organismi. Io ho conosciuto, in dieci anni di Balcani, operatori umanitari che di quell’area conoscevano poco o nulla. Anche le cose più normali, a cominciare dalla lingua. Ma se si va a operare in un luogo senza averlo studiato prima, senza continuare a studiarlo mentre vi si lavora, senza cercare interlocutori da cui conoscere e apprendere, si finisce per fare più danno che bene. Non ci si può accostare a un popolo, pensando che sia privo di cultura, storia e tradizioni. La ricostruzione materiale e infrastrutturale può essere deleteria, se non rispetta l’identità e le esigenze di crescita culturale di una società.

Con l’andar degli anni, la comunità internazionale ha maturato un approccio d’area allo scenario balcanico. Verso la fine del decennio questa istanza si è tradotta nel Patto di stabilità: uno strumento efficace? In generale, c’è stato un miglioramento, da parte di organismi governativi e non governativi, nelle forme di aiuto e cooperazione?
L’approccio ai problemi dell’area balcanica è sicuramente migliorato. Ai tempi della guerra in Croazia, nel ’91, tutti si organizzavano spontaneamente, prendendo contatti con l’uno o con l’altro interlocutore, a volte l’uno contro l’altro, provocando magari contrattempi e finendo per non aiutare le comunità e le persone, dal momento che le situazioni erano molto delicate e complicate. C’era chi andava non conoscendo le strade, o comunque non conoscendo il contesto, senza sapere che in Croazia non tutti i preti erano uguali e tutti i referenti ugualmente onesti.

Indubbiamente, gli slanci spontanei sono una grande prova di generosità, che però serve solo – se non fa danni – nella prima fase dell’emergenza. È vero che negli ultimi dieci anni nei Balcani le emergenze si sono succedute l’una dopo l’altra, e forse non sono ancora finite. Però, faticosamente la cultura dell’emergenza – i camion carichi e pronti a partire – ha lasciato spazio, negli operatori umanitari, a una più chiara consapevolezza dei referenti, del contesto e delle conseguenze. Dove andiamo? Chi aiutiamo? A chi chiediamo collaborazione? Chi lasciamo a lavorare sul terreno? Domande che si sono fatte via via sempre più presenti, nelle organizzazioni umanitarie, soprattutto le medio-piccole.
Non so invece valutare se le campagne dei grandi organismi internazionali e oggi il Patto di stabilità siano serviti davvero ad aiutare le popolazioni e a sostenere la ricostruzione e la cooperazione allo sviluppo, oppure abbiano costituito la semplice legittimazione politico-ideologica dell’intervento di un numero ingente di operatori internazionali nell’area. Nello scorso decennio flussi di denaro enormi hanno preso la strada dei Balcani: in fondo non si sa nemmeno bene dove siano finiti e se siano serviti. Si calcola che in Bosnia, dal ’95 al 2000, siano piovuti aiuti superiori, in rapporto alla popolazione e al tempo, a quelli erogati in Europa dal Piano Marshall. Sarebbe anche giusto che i donatori e i singoli parlamenti chiedessero conto di come sono stati utilizzati questi fondi, che dovevano servire non solo a ricostruire edifici, strade e ponti, ma anche un tessuto democratico, un clima sociale più disteso, una vita culturale, risorse educative, di studio e intellettuali. Il Patto di stabilità forse doveva proporsi come cornice di controllo di certi flussi, piuttosto che come struttura deputata a drenare fondi dai paesi donatori e a gestirli in maniera un po’ misteriosa.

Inoltre la comunità internazionale, insieme ai quattrini, ha inviato anche uomini, alcuni dei quali chiamati a esercitare poteri molto vasti, fino a diventare quasi viceré: è il caso degli Alti commissari in Bosnia e Kosovo. Costoro hanno svolto anche un buon lavoro, in certi casi, dipanando dissidi tra le comunità locali e sovrintendendo alla ricostruzione di un tessuto amministrativo. Il lavoro che hanno svolto nell’emergenza è stato tutto sommato positivo. Ma è servito a formare responsabilità e coscienze politiche locali all’altezza, o ha ritardato la loro maturazione? Forse era opportuno prevedere l’insediamento di viceré, che prendessero decisioni che non potevano essere rimandate, ma favorire nel contempo la crescita di un ceto politico locale affidabile e all’altezza, con il quale condividere sempre più, con l’andar del tempo, poteri e decisioni. Anche in questo caso, l’approccio dei grandi organismi internazionali è rimasto prigioniero di uno schema emergenziale.
L’impegno di ricostruzione è stato maggiore sul versante infrastrutturale e materiale, minore su quello intellettuale e culturale. Da questo punto di vista, ci ritroviamo con Balcani molto simili a quelli di dieci anni fa?

Ci troviamo addirittura con Balcani molto più poveri, dal punto di vista intellettuale, culturale, della produzione di idee, della capacità di incontro tra le persone. Oggi nei Balcani, negli ambienti universitari e intellettuali, circola una grande "jugonostalgia". Per alcuni si tratta di una parolaccia che sfiora la bestemmia, ma sicuramente è il sintomo del rimpianto per un’epoca più vivace e ricca, dal punto di vista culturale e intellettuale. I motivi? Moltissimi. Ma certamente ha un peso anche il fatto che gli aiuti sono stati indirizzati prevalentemente ad altri settori. La guerra ha fatto fuggire dai paesi della ex Jugoslavia la maggior parte degli artisti, dei giornalisti, dei professori universitari, insomma il ceto intellettuale: coloro che avevano messo da parte due soldi e potevano permettersi di espatriare in Europa o negli Usa, magari a fare i traduttori per la Bbc, quando in patria erano direttori di giornali. Questo processo ha impoverito il tessuto culturale delle repubbliche ex jugoslave, non solo dove più violenti sono stati gli scontri e le distruzioni. Il mondo ha lasciato soli, per esempio, i serbi e i belgradesi: su questo terreno, nel deserto della società civile, ha potuto prosperare un personaggio come Milosevic.
L’aiuto umanitario, su questo punto, è stato condizionato da una certa cecità. Non è detto che tutti debbano ricostruire case o dispensare cure mediche; è anzi possibile – e non è sicuramente di minor valore – che vi sia una cooperazione allo sviluppo che si prende cura della vita intellettuale. Negli anni precedenti alla guerra, a Pristina i professori universitari non potevano vivere del loro lavoro. Non ricevevano soldi da nessuno, e allora si dedicavano al contrabbando. Io sono stato in Kosovo parecchie volte, prima della guerra, e il mio fornitore di benzina era un professore dell’università di Pristina, che con il fratello – altro docente – contrabbandava il carburante, vendendolo sulle strade. Su questo traffico viveva una catena multietnica: altri albanesi; il poliziotto serbo che stava all’angolo, gratificato di qualche "mancia" per non impedire la vendita; il doganiere serbo che faceva passare la Mercedes con 400 litri di benzina; il fornitore macedone. La situazione era obiettivamente difficile, ma appariva chiaro che, aiutando quei due professori – come moltissimi altri in tutti i Balcani – si sarebbe investito su persone e coscienze che, a loro volta, avrebbero potuto formare generazioni meno prigioniere dei pregiudizi nazionalistici ed etnici che oggi intrappolano tanti giovani. Perché quest’aiuto non è stato dato?

Ma gli intellettuali balcanici hanno avuto anche gravi responsabilità, nella diffusione di pregiudizi e visioni storiche distorte. Il documento che ha alimentato un decennio di "panserbismo" si deve all’Accademia delle scienze di Belgrado…
Gli esempi di schieramento etnico da parte degli intellettuali dieci anni fa non erano tanto diffusi. Se si fosse intervenuti con maggiori risorse e iniziative in questo campo, si sarebbero potute evitare tante degenerazioni cui in seguito si è assistito. L’Accademia delle scienze di Belgrado è solo un esempio: forse il "Memorandum" l’avrebbe partorito comunque, ma nell’88-’90 non rappresentava certo la totalità degli intellettuali di Belgrado. Però gli altri non avevano nulla – né aiuti, né risorse, né sponde all’estero – per poter contrastare quella voce. Il ceto intellettuale non è stato aiutato in alcun luogo dei Balcani, nemmeno a Sarajevo durante la guerra, quando tutti i giornalisti del mondo decantavano la resistenza intellettuale di una città, simboleggiata dall’orchestra da camera che si riuniva per suonare, tutti i giorni alle 5 del pomeriggio, anche sotto le bombe. Anche per questo, la popolazione e l’atmosfera della Sarajevo multietnica, che tanti articoli hanno fatto scrivere durante la guerra, oggi non esistono più.

Gli organismi umanitari, ripeto, su questo versante hanno mancato. Anche perché hanno arruolato, in alcuni casi, personale senza adeguate motivazioni e soprattutto senza adeguata preparazione culturale, o quantomeno conoscenza del contesto. Per agire in maniera adeguata, in un territorio straniero, bisogna conoscere e studiarlo. Io ho conosciuto operatori che a Belgrado ignoravano la storia della Jugoslavia, e a Skopje che esistesse una lingua macedone. Il decadimento delle motivazioni e dello spessore culturale degli operatori si è manifestato, ancora una volta, soprattutto nelle grandi organizzazioni. In quelle medio-piccole ho trovato persone motivate, preparate e piacevoli. Queste critiche, comunque, valgono anche per lo stuolo di giornalisti e diplomatici riversatosi nei Balcani nell’ultimo decennio. L’impreparazione e l’incultura hanno prodotto guasti evitabili in tanti settori.
Impreparazione e in cultura espongono anche al rischio che, inavvertitamente, gli interventi umanitari diventino funzionali agli interessi delle parti in guerra …

Sicuramente questo rischio, nei Balcani, non è rimasto teorico. D’altra parte, in un contesto come quello, era inevitabile che certe strumentalizzazioni si verificassero. Sta all’intelligenza del singolo, e alla forza dell’organizzazione che gli sta alle spalle (forza che non si misura dal parco-auto disponibile, ma va intesa come forza culturale e pedagogica, rispetto alla formazione degli operatori), evitare di cadere in certe trappole. D’altronde i signori della guerra da sempre cercano di utilizzare gli operatori e gli aiuti umanitari a proprio vantaggio. Torniamo al discorso precedente: si devono conoscere bene le parti in lotta, i loro obiettivi, le loro strategie, badando a portare a casa la pelle, per operare in maniera equa e trasparente in un teatro di guerra. È la base per evitare spiacevoli errori, sebbene se ne possano commettere di inconsapevoli. Ci sono poi comportamenti determinati da interessi inconfessabili, che inducono magari a mettersi d’accordo con il banditello locale, pur di poter agire e gestire un flusso di aiuti e di risorse. Ma questo non autorizza a condannare il grande lavoro umanitario complessivamente svolto nei Balcani.
Un’altra strumentalizzazione è possibile: l’umanitario come copertura di una scelta di intervento militare, anziché politico, in un’area di crisi. In Kosovo questo schema è emerso con grande evidenza…

Ritengo che anche la strumentalizzazione dell’umanitario da parte di chi ha gestito la soluzione militare del conflitto e la successiva presenza militare Nato in Kosovo fosse entro certi limiti inevitabile. Ci sono stati casi spiacevoli ed eclatanti. Io ne ho registrato uno chiarissimo, per esempio, a Mitrovica, dove il contingente francese, subito dopo la guerra, ha giustificato la divisione in due parti della città anche con l’esigenza di favorire una miglior distribuzione degli aiuti. Mesi dopo, i responsabili di alcune ong hanno raccontato una storia diversa, secondo cui la decisione militare di dividere in due la città – rispondente a logiche politiche – ha creato notevoli difficoltà al loro lavoro, oltre a esasperare le tensioni etniche preesistenti.
In generale, direi che la neutralità dell’umanitario (ma questo vale anche per il giornalismo) in un certo senso è una chimera, e comunque va guadagnata giorno per giorno. Bisogna sempre partire dal presupposto che, in contesti complessi e contraddittori, non ci si può fidare acriticamente di qualcuno. Inoltre bisogna cercare di capire sempre più a fondo i contesti e i problemi. Certe cose – insisto su questo punto, perché lo ritengo cruciale – si capiscono solo se si ha una cultura, ovvero solo se si sono letti i libri su un certo contesto e un certo problema, per non lasciarsi condizionare da interpretazioni parziali (della storia e della cronaca) fornite da chi ha interessi etnici, nazionalistici, politici e di potere da affermare. La conoscenza della storia e del passato, in un’area di crisi, è fondamentale per non lasciarsi irretire dai travisamenti, dalle mitologie, dalle strumentalizzazioni.

In definitiva, bisogna sfatare la convinzione secondo cui l’operatore umanitario è comunque un eroe, un santo, un benefattore, sempre dalla parte del giusto. La santità è compiere bene il compito che si è stati chiamati a svolgere o che si è scelto di svolgere. L’operatore umanitario ha a che fare con la verità più profonda di persone provate da situazioni terribili. Ci sono stati sicuramente, nei Balcani, molti operatori encomiabili: però i migliori sono quelli che non solo consegnano aiuti, ma lavorano, discutono, si informano, ascoltano. Da costoro le popolazioni balcaniche hanno ricevuto un’autentica testimonianza di solidarietà e prossimità. Gli abitanti dei Balcani hanno imparato abbastanza in fretta che bisognava anzitutto distinguere tra organizzazioni, poi distinguere l’uomo dall’organizzazione. Così, oggi, ci sono operatori umanitari che non vivono più nei Balcani, ma continuano a mantenere contatti con persone conosciute laggiù. Sono le persone che sono scese dalle jeep, che non hanno frequentato solo i ristoranti vistosi, magari gestiti dal bandito di turno, sono entrati nelle case, parlato con le famiglie, passato qualche notte nelle cantine sotto le bombe. Operatori umanitari, ma anche giornalisti e diplomatici: le popolazioni dei Balcani hanno imparato a conoscerli, capendo che bisognava distinguere. Discernere tra buoni e cattivi, non è mai un esercizio semplice e predeterminato.

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