Fallito il referendum macedone

Fallito il controverso referendum sull’abrogazione della nuova legge sul decentramento amministrativo, varata dal governo all’inizio di quest’anno. I motivi vanno rintracciati nella scarsa affluenza alle urne e nell’improvviso riconoscimento degli USA del nome "Repubblica di Macedonia"

09/11/2004, Risto Karajkov -

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Mappa della divisione amministrativa della Macedonia

Il controverso referendum macedone sulla organizzazione territoriale del Paese, tenutosi domenica 7 novembre 2004, è fallito. Alle urne non si è presentato un numero sufficiente di elettori per poter appoggiare la mozione sulla sospensione della nuova legge sulle frontiere amministrative, varata dal governo all’inizio di quest’anno.

Ciò significa che la legge rimane in vigore e riduce il numero delle municipalità della Macedonia da 123 come regolato dalla vecchia legge del 1996, a 84 unità territoriali più ampie. Queste nuove entità locali più ampie assicurano una più forte autonomia alla seconda, per dimensioni, comunità della Macedonia, quella albanese.

Il ritaglio dei confini municipali fatto mediante la nuova legge ha modificato la composizione etnica e il bilanciamento del potere locale in alcune comunità, nelle quali, secondo la vecchia mappa territoriale c’era una maggioranza macedone, mentre ora con la nuova legge c’è una maggioranza albanese.

Ciò è stato percepito a svantaggio dei Macedoni e delle comunità minori presenti nel Paese, come i Turchi, Valacchi, Rom, ad esclusivo vantaggio degli Albanesi, dando vita ad una raccolta di firme per sostenere il referendum. L’impeto iniziale è scaturito dal Congresso Pan macedone al quale, più tardi, si è unito il fronte dei partiti politici dell’opposizione.

La costellazione di forze rivolte alla questione del referendum è stata vista in particolare, da un lato, nell’atteggiamento del governo e della comunità internazionale, in difesa della nuova legge, e dall’altro dall’opposizione e dalle diverse associazioni di cittadini impegnati nel tentativo di contestarla.

La prima si basa sull’argomento che la nuova legge è un importante passo verso l’implementazione dell’Accordi di Ohrid del 2001, che ha impegnato il Paese verso un processo di devoluzione con l’intento di una migliore sistemazione della sua diversità interna, e grazie a ciò, un ulteriore passo verso la sua integrazione internazionale.

La seconda sostiene che l’accordo si oppone agli interessi nazionali macedoni e sta "svendendo" l’integrità territoriale del Paese. Da questo punto di vista, il fallimento del referendum è un vero trionfo per il governo e un sollievo per la comunità internazionale, la quale temeva che il successo del referendum potesse guidare ad un nuovo periodo di instabilità.

"Il risultato del referendum è chiaro; consente al Paese di proseguire con l’implementazione delle riforme nel processo di decentramento", ha commentato, il giorno successivo, Javier Solana, Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza dell’UE.

Per far sì che il referendum avesse successo, avrebbero dovuto votare almeno la metà più uno degli elettori registrati, ossia 854.769 elettori più uno, i quali avrebbero dovuto rispondere affermativamente alla domanda "volete mantenere l’organizzazione territoriale del governo locale del 1996".

In realtà l’affluenza è stata decisamente inferiore. Il governo e l’opposizione hanno avuto, come al solito, stime differenti e manipolate sulla percentuale di votanti, e se i risultati ufficiali sono attesi nei prossimi giorni, già si parla di un dato inferiore al 30%.

Un motivo per la basa affluenza alle urne lo si trova nel fatto che tutti i partiti albanesi hanno boicottato il referendum, un fatto annunciato e atteso. Invece, tutte le fazioni, incluse quelle macedoni, che hanno svolto una campagna contro il referendum, hanno sostenuto che sarebbe stato meglio non votare affatto. Sicché i seggi elettorali nelle zone dove la comunità albanese è maggioritaria, sono rimasti praticamente vuoti.

Il leader di uno dei partiti albanesi di opposizione, Partito per la prosperità democratica, Arben Xhaferri, recentemente ha commentato dicendo che "questo non è il nostro gioco, sicché lo osserverò come se fosse una partita di calcio".

Più seriamente, Ali Ahmeti, uno dei leader della guerriglia albanese durante il conflitto del 2001, ed ora capo del maggior soggetto politico albanese, l’Unione per l’integrazione democratica (DUI), ha indirizzato una lettera aperta all’opinione pubblica macedone, alcuni giorni prima del referendum: "…dovremmo andare a votare e con ciò diventare un ostacolo alla integrazione del nostro Paese nell’UE o dovremmo votare per l’Europa ignorando il referendum? Io sono convinto che il 7 novembre la maturità e la consapevolezza della responsabilità storica che ci stiamo portando appresso prevarranno".

Solo qualche giorno fa, sembrava proprio che il referendum passasse, i sondaggi aveva predetto una massiccia affluenza alle urne, gli esperti dicevano che il referendum si sarebbe trasformato in un veicolo dell’espressione del malcontento generale per le condizioni in cui versa il Paese. Ma poi i seggi elettorali sono rimasti vuoti. Cosa è successo?

Una svolta drammatica c’è stata giovedì scorso, quando è giunta la notizia che gli USA avevano riconosciuto la Macedonia, con il suo vero nome "Repubblica di Macedonia" al posto del consueto "Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia" (FYROM). Questa decisione improvvisa, presa praticamente mentre le elezioni per la presidenza degli USA non erano ancora del tutto terminate, ha causato shock e confusione nei circoli diplomatici. Inoltre, ha causato panico e amarezza nei confronti del vicino meridionale della Macedonia, la Grecia, ed infine ha portato un’ondata di gioia nazionale in Macedonia, con la gente che spontaneamente scendeva per le strade a festeggiare. Una gioia che sembra aver sgonfiato l’incalzante frustrazione dei giorni prima del referendum.

Nei giorni a venire gli analisti valuteranno quanto sia stata cruciale l’influenza del riconoscimento improvviso. Da questa prospettiva sembra proprio essere uguale alla scena finale di un film americano, dove l’eroe marcia e salva tutti. La frustrazione accumulata nell’ultimo decennio, insieme ad uno dei maggiori problemi delle relazioni internazionali della Macedonia, che guidò ad una disputa diplomatica, ritardando il suo riconoscimento internazionale e continuando ad ostacolare la sua affiliazione alle istituzioni internazionali, in prevalenza dovuto all’opposizione della Grecia all’uso del nome, sembra essersi dissolto in un secondo.

Con il riconoscimento da parte degli USA, del nome costituzionale della Macedonia, ora sale a tre il numero dei membri permanenti al Consiglio di sicurezza dell’ONU, con la Cina e la Russia, che hanno fatto lo stesso. Gli analisti locali concordano che questo "de facto" chiude la annosa disputa, ancora da negoziare sotto gli auspici dell’ONU.

La Grecia, invece, si è trovata in uno stato di shock a seguito della decisione degli USA. La prima reazione del premier greco, Kostas Karamanlis, è stata quella di dire che la Macedonia non può entrare nell’UE prima di aver trovato una soluzione alla questione del nome, che sia reciprocamente accettata. Più tardi, dopo contatti intensi con i funzionari statunitensi, Karamanlis si è espresso con più moderazione, invitando alla calma e dicendo che la Grecia non bloccherà la strada della Macedonia verso le istituzioni europee.

Tuttavia, il presidente greco ha avanzato una protesta all’ambasciatore degli USA in Grecia, e alcuni partiti minori hanno persino invitato a troncare i rapporti diplomatici con gli USA.

L’UE e i governi di parecchi Paesi europei hanno rilasciato dichiarazioni dicendo che si differiscono dagli USA su questo argomento e che continueranno ad adottare la referenza ufficiale dell’ONU nei contatti con la Macedonia.

Dal canto loro, i funzionari degli USA hanno detto che il riconoscimento giunge come una ricompensa per il supporto della Macedonia alla guerra contro il t[]ismo, ma anche che il momento scelto non è casuale perché gli USA vogliono aiutare la stabilità della Macedonia in questa fase cruciale.

Il portavoce del Dipartimento di Stato, Richard Boucher, ha risposto in modo esteso alle domande dei giornalisti durante la conferenza stampa, dicendo che: "…era il momento in cui abbiamo ritenuto importante trovare una via per dimostrare il nostro appoggio alla piena implementazione dell’Accordo di Ohrid… il referendum era una parte dell’equazione".

Ancora una vola, come molte altre nel passato, nelle crisi balcaniche, come in Bosnia e in Kosovo, sembra che gli USA abbiamo un miglior senso dell’urgenza immediata, del momento opportuno, e pure della capacità di un’azione effettiva.

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