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Ex Jugoslavia. Dopo 10 anni una pace ancora da costruire
27 GIUGNO 1991. Primi scontri lungo il confine tra Trieste e Gorizia tra la difesa territoriale slovena e l’armata jugoslava. Preludio, più o meno artefatto, della disgregazione della Jugoslavia.
Sei diverse guerre combattute (tra Slovenia e Federazione Jugoslava, tra Croazia e serbi delle Krajine, tra serbi e croato-musulmani e tra croati e musulmani di Bosnia Erzegovina, tra Serbia e albanesi kosovari e infine l’intervento della Nato del 1999), almeno 300.000 morti, 2.700.000 tra profughi e sfollati a causa di una pulizia etnica spaventosa, l’assedio di Sarajevo durato oltre 1.000 giorni: questi i tristi dati "contabili" del bilancio decennale di una guerra che ha sconvolto il cuore dell’Europa. Accolto da molti come una improvvisa escrescenza violenta della crisi del dopo ’89, sottovalutato come una parentesi dai responsabili di governo, utilizzato inizialmente per provare ad estendere l’area di influenza economica o politica, il conflitto in Jugoslavia ha sconvolto il ruolo degli organismi internazionali, ha riportato la guerra generalizzata, la pulizia etnica, i campi di concentramento sul suolo europeo, ha permesso alla NATO di affermare il proprio ruolo in un’area fino a qualche tempo prima "off limits".
A dieci anni dall’inizio delle guerre jugoslave, i Balcani sono ancora sospesi tra emergenza e ricostruzione, conflitti e pacificazione. Una vera pace, ancora non c’è, nonostante la scatola mezza vuota del Patto di Stabilità, che ha esaurito rapidamente la sua piccola "spinta propulsiva" e anche i tanti soldi (in gran parte, solo promessi). E ancora grandi le incognite, nonostante l’uscita di scena dei "signori della guerra" e delle leadership più nazionaliste.
Altrettanto critico il bilancio "politico": inadeguatezza e fallimento dell’Europa di fronte allo scoppio del conflitto, crisi e umiliazione delle Nazioni Unite sacrificate sull’altare della realpolitik occidentale ("L’ONU è morta a Sarajevo", recita il titolo di un libro di G. Riva e Z. Dizdarevic), violazione del diritto internazionale con l’intervento della Nato e diffusa impotenza di fronte alle tante violazioni dei diritti umani. E così, due anni fa, per 78 giorni, bombardieri occidentali da 7-8.000 metri in nome di una falsa "ingerenza umanitaria" hanno ribadito l’idea di un ordine internazionale fondato sulle armi, provocando una guerra mai decisa da nessun organismo democratico, né dall’ONU, né da nessun parlamento nazionale, ma solamente dal "club esclusivo" delle grandi potenze. I Balcani hanno dunque rappresentato un laboratorio per sperimentare nuovi assetti di potere (economici e militari) nelle relazioni internazionali dopo la vittoria occidentale nella guerra fredda.
Il conflitto mette così in luce contraddizioni, nodi politici e culturali non sciolti. Questi sono: il nazionalismo come reazione ai processi di modernizzazione, il difficile rapporto tra i principi della cittadinanza e la pratica della convivenza multietnica (interrogando anche validità, limiti e regole del principio di autodeterminazione), la ridefinizione del ruolo degli stati messo in crisi dalla globalizzazione, le forme e gli strumentidell’intervento delle Nazioni Unite di fronte alle violazioni dei diritti umani. Ed infine la questione di un’Europa ancora dimezzata dal perdurare di nuove mura, come recentemente denunciato dal sindaco di Sarajevo.
LO SPECCHIO, DI LÀ DEL MARE
Un’Europa che in questi anni ha sostanzialmente rimosso la tragedia che si andava consumando di là dell’Adriatico. Una rimozione che non riguardava solo le cancellerie, una rimozione collettiva che non corrispondeva semplicemente al chiudere gli occhi di fronte a quanto stava avvenendo a poche decine di chilometri dal nostro quotidiano, e che affondava le proprie radici nei luoghi comuni e nel vuoto di conoscenza del contesto balcanico, come se lì qualcosa di ineluttabile stesse accadendo, quasi ad alleggerire il peso sulle coscienze. "È sempre andata così …"
In realtà quanto stava avvenendo nel sud est europeo corrispondeva all’avvio di un nuovo tipo di conflitto, un conflitto che pure utilizzando gli arcaici richiami ai fondi genetici dei popoli, rappresentava in realtà le forme post moderne della riorganizzazione degli assetti geopolitici ed economici del dopo ’89.
Basti pensare alle strette relazioni fra il nord est italiano e le dinamiche assunte dalla transizione economica nei paesi post comunisti. Se dieci anni fa la città di Timisoara diede il la, nell’artefatta manipolazione di una rivoluzione decisa nel palazzo come ci hanno spiegato le mirabili pagine di Paolo Rumiz in "Maschere per un massacro", alla caduta del regime di Ceaucescu, oggi questa stessa città ospita le riunioni degli industriali del miracolo economico italiano. C’è dunque qualcosa di terribilmente moderno nelle vicende che hanno segnato i Balcani degli anni ’90, che ha a che vedere con le dinamiche della globalizzazione e la crisi degli stati nazione, dell’accumulazione finanziaria, del controllo dei corridoi strategici fra l’Europa, il Caucaso e l’Oriente, della sperimentazione dei più sofisticati sistemi d’arma, nell’intreccio fra deregolazione e neoliberismo.E dunque di terribilmente cinico. Ecco perché i Balcani sono lo specchio dell’Europa, dell’Italia, di ciascuno di noi. A pensarci bene si tratta di una rimozione che affonda le proprie radici nella storia, nell’inquietudine di un intreccio di culture e di religioni che proprio lì si sono incontrate e spesso scontrate, nel classico rincorrersi di vincoli ed opportunità. Così la parola balcanizzazione è diventata nell’immaginario collettivo (ma anche nei dizionari) sinonimo di caos e di instabilità. In realtà del nostro vicino di casa non sappiamo nulla, non la storia, non la letteratura, non la lingua. E nel tempo della semplificazione questa complessità era meglio fosse cancellata, rimossa appunto.
MACERIE E UNA PACE CHE NON C’È
La ferita dei Balcani non è guarita, nonostante le iniezioni di aiuti internazionali, un protettorato che riguarda direttamente la Bosnia e il Kosovo e una "protezione" militare che interessa anche la Macedonia e l’Albania. I rischi di guerra in Macedonia e nel Sud della Serbia, la crisi degli accordi di Dayton in Bosnia Erzegovina, gli interrogativi sul futuro del Kosovo e il protagonismo sempre maggiore di un aggressivo nazionalismo panalbanese, senza dimenticare i nodi irrisolti delle Krajine, del Sangiaccato e della possibile secessione del Montenegro disegnano scenari per i Balcani che li tengono sospesi tra integrazione e disintegrazione.
A questo si aggiunga la grave situazione sociale con la disoccupazione oltre il 50%, stipendi e pensioni che non vengono pagate (o con mesi e mesi di ritardo) e che non coprono il costo della vita, il venir meno di ogni elementare forma di protezione sociale; la crisi ambientale, dal Danubio, agli effetti dei bombardamenti Nato, alle conseguenze ereditate da sistemi economici e produttivi insostenibili ed inquinanti; il mancato rientro di almeno 2.000.000 di profughi nelle loro case; la debolezza politico-istituzionale che ha lasciato mano libera alle forme più perverse della criminalità economico- finanziaria, che ha potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenza della deregolazione estrema, così come nel traffico di armi, nel riciclaggio, nel trafficking, nel mercato della droga o dei rifiuti.
LE RESPONSABILITÀ DELL’EUROPA E LA SCELTA DELL’INTEGRAZIONE
A dieci anni dall’inizio della tragedia dei Balcani, l’Unione Europea continua a non riflettere sulle cause e sulla natura del conflitto. Si pensa invece ancora a quest’area solo come ad un terreno di incursione, rischiando di perseverare nella mera ricerca di proprie aree di influenza nazionale senza sviluppare un approccio d’area complessivo. Oppure si interviene con una logica puramente emergenziale, per poi affidarsi nella ricostruzione al presunto potere taumaturgico dell’economia di mercato e della sua capacità di auto-regolamentazione.
In sostanza l’Europa deve fare un bilancio autocritico del suo comportamento (che è stato concausa delle guerre) verso i Balcani, caratterizzato da latitanza politica, inefficacia diplomatica, incapacità di prevenzione e, soprattutto, commistione con i nazionalismi jugoslavi. L’Europa deve ancora fare i conti con la sua parte sud orientale, e più in generale con la transizione del "dopo ’89", affrontata più con iniezioni di "turbocapi-talismo" e di neoliberismo selvaggio che con politiche di integrazione e di cooperazione.
L’Unione Europea deve oggi fare una scelta precisa e coraggiosa: quella dell’integrazione, superando le lentezze, abbattendo le barriere (anche quelle dei visti, delle tariffe, delle protezioni commerciali) che impediscono uno sviluppo economico significativo di queste aree e la circolazione delle persone e dell’incontro delle culture e delle storie dei popoli e dei paesi. Il nazionalismo alligna nella chiusura e nell’isolamento. Obiettivo dell’Europa è rompere questo isolamento e questa chiusura sostenendo concretamente anche la fine delle barriere tra i paesi dell’Europa sudorientale e l’inizio di una cooperazione transbalcanica.
LE PROSPETTIVE DELLA PACIFICAZIONE E DELLA RICOSTRUZIONE
Una strada da seguire, dunque, per la pacificazione dell’area è quella dell’integrazione europea, mettendo al bando ogni geopolitica o pretesa di condizionamento neocoloniale o occidentale, ogni civetteria con qualsiasi nazionalismo locale. L’integrazione non può avvenire seguendo i parametri tradizionali, economici, contabili, di reddito. Non si può affrontare il tema dell’integrazione dei Balcani e dell’Europa del dopo ’89 come se fossimo rimasti alle procedure contabil-finanziarie di quindici anni fa quando dovevano accedere alla Comunità Europea il Portogallo o la Spagna.A fianco e prima dei parametri economici ne vadano individuati altri che riguardano gli standard dei diritti umani e delle minoranze e in campo sociale (servizi per i disabili, pensioni, servizi socio-sanitari, tassi di istruzione), ambientale (aree protette, difesa e gestione delle foreste e dei corsi d’acqua, gestione rifiuti, servizi idrici, interventi per il disinquinamento), di democrazia reale, di presenza e partecipazione della società civile organizzata. Sta qui, attorno a questo nodo cruciale, la possibilità di superare il vuoto progettuale che caratterizza la diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche molta parte del mondo non governativo. Si tratta di riempire il vuoto tracciando un possibile itinerario di ricostruzione incardinato a nostro giudizio su tre concetti di fondo: l’opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, l’autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identità sociale, la cooperazione dal basso come strategia per rafforzare un tessuto civile e istituzionale democratico e sano.
E l’Italia? Il nostro paese – nonostante l’importanza del suo ruolo nell’area – non ha un vero progetto unitario e organico della sua partecipazione alla ricostruzione e alla cooperazione nei Balcani: i soggetti che intervengono non sono coordinati, manca un’idea armonica degli interventi sociali, economici e istituzionali, non esistono strumenti normativi adeguati. La crisi strutturale della Cooperazione allo sviluppo e la frammentazione degli interventi istituzionali producono effetti contraddittori e negativi.
Occorre immaginare invece un percorso economico inedito, fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze, unite alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali.
Bisogna costruire un disegno di sviluppo integrato del territorio, sul quale far convergere le risorse locali e gli aiuti internazionali. Questo approccio ha come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di prendere come punto di partenza la logica dei bisogni: la salute, l’istruzione, i trasporti, le infrastrutture collettive, ecc.
IL RUOLO DELLA SOCIETÀ CIVILE E DELLE COMUNITÀ LOCALI
Un concetto di fondo per immaginare una rinascita dei Balcani è l’autogoverno democratico delle comunità. C’è bisogno di ricucire, sulle macerie dei regimi e delle guerre, un legame con le istituzioni pubbliche fondato sulla partecipazione e su un diffuso sistema di autonomie locali anziché su rapporti gerarchici e di delega. In altre parole, un approccio comunitario capace di affrontare i bisogni individuali e collettivi in un’ottica diversa tanto dallo statalismo, quanto dalla privatizzazione mercantile di ogni segmento della vita economica e sociale di un territorio. Questo percorso si è già manifestato negli anni scorsi attraverso le mille relazioni della cooperazione decentrata e della diplomazia delle città, che hanno cercato di ricostruire i ponti di dialogo e di civiltà demolitidalla guerra. Molte organizzazioni nongovernative e associazioni italiane in questi annihanno lavorato nei Balcani – anche in collegamento con quell’"altra Jugoslavia" fatta di associazioni e gruppi indipendenti, comunità democratiche che hanno resistito al nazionalismo – con l’idea di scardinare la cittadinanza fondata sull’appartenenza etnica e di promuovere i principi dello stato sociale e dei diritti per tutti. In ciò si è capito che a nulla serve impegnare risorse ed energie, se contestualmente non cambia il quadro socia-le e politico dell’area. E questa riflessione tocca anche noi, le nostre comunità. In questo senso la vicenda jugosava parla anche di noi. La sfida della convivenza è comune a tutte le società figlie in diverso modo della globalizzazione.
Dunque nei Balcani, l’integrazione, la lotta per la democrazia e contro il nazionalismo, la ricostruzione economica e sociale procedono insieme influenzandosi l’una con l’altra, appoggiandosi spesso sugli stessi soggetti e condividendo un’unica prospettiva di trasformazione pacifica di tutta l’area. Le guerre jugoslave in questi anni ci hanno insegnato molto e continuano a farci riflettere su noi stessi, sul destino delle istituzioni e dei valori dell’Europa, sulle prospettive della democrazia nel continente. Lo spazio jugoslavo, da giungla inestricabile, può diventare un giardino dove affondino le radici della pace. Sta anche a noi coltivarlo e seguirlo, consapevoli che si tratta di un impegno e di un futuro comune.