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Evros, ultima porta per l’Europa
Il fiume Evros, al confine tra Grecia e Turchia è l’ultima porta aperta verso l’Unione Europea per i migranti e richiedenti asilo politico. Una strada rischiosa, segnata da decine di incidenti e vittime. Grecia e Ue, intanto, non riescono ad uscire dalla logica della crisi permanente. Nostro reportage
“Abbiamo camminato per ore alla luce della luna, in silenzio. Ad ogni rumore, il cuore mi saltava in gola: la ‘Jandarma’ turca poteva arrivare ogni momento. Poi, finalmente, ho sentito in lontananza il rumore della corrente. Ci hanno fatto salire su vecchie imbarcazioni e abbiamo remato, finché la barca ha toccato l’altra riva. Sono saltato in acqua, mi sono aggrappato a un ramo e mi sono issato sulla terraferma. Non riuscivo ancora a crederci: ero in Europa”.
Ahmad (lo chiameremo così) ha 23 anni, è curdo e viene da Sulaymaniyah, Iraq del nord. Il fiume che ha attraversato a inizio luglio, inseguendo il sogno di una nuova vita in Europa è l’Evros (o Meriç, in turco) che per 120 chilometri segna il confine di terra tra Turchia e Grecia. Quella che, a quanto pare, sta diventando l’ultima “porta aperta” dell’Unione Europea per migranti e richiedenti asilo politico.
Di fronte ad una generale e sensibile diminuzione degli ingressi “irregolari” nell’Unione Europea, il confine dell’Evros è l’unico che, rispetto al 2009, è in forte controtendenza. Secondo l’UNHCR, nei primi sei mesi del 2010 il flusso degli arrivi attraverso il fiume è aumentato del 3-400% rispetto allo stesso periodo di un anno prima. Sarebbero più di 10mila i migranti arrivati da inizio anno in Grecia attraverso questa rotta.
La conferma arriva dall’ultimo rapporto Frontex, l’agenzia che si occupa delle frontiere esterne dell’Ue. Nel 2009 erano 8.787 i migranti fermati in Grecia dopo aver passato l’Evros, 27.685 quelli intercettati sulle tradizionali rotte di mare che dalla costa turca portano alle isole greche.
Nei primi mesi del 2010 la tendenza si è invertita e “per la prima volta, lungo l’Evros sono stati intercettati più migranti che non nel mare Egeo”.
Due le cause più probabili di questo fenomeno: da una parte il rafforzamento dei pattugliamenti lungo le rotte marittime, dall’altra il costo minore della traversata via fiume rispetto a quella sul mar Egeo.
Passare l’Evros, però, è una scelta gravida di rischi, non meno che tentare la fortuna via mare. “Per evitare le forze di polizia, i migranti passano il fiume di notte”, ci dice Dimitris Petrovic corrispondente del quotidiano greco “Kathimerini” da Alexandroupoli, capoluogo della prefettura dell’Evros. “Molti non sanno nuotare e, nel caso di incidente, sono spacciati”.
Gli incidenti sono frequenti: un vero stillicidio, solo in parte riportato da autorità e mezzi stampa. A fine giugno, ad esempio, 19 persone, soprattutto somali, sono annegate nelle acque del fiume. Uomini, donne e bambini che, secondo l’ufficio dell’UNHCR in Grecia, “con tutta probabilità avevano motivi fondati per cercare asilo e protezione in Europa”.
In totale, solo dall’inizio del 2010 sarebbero 38 i migranti morti nel tentativo di attraversare l’Evros. I corpi senza vita recuperati dalle autorità greche vengono portati all’ospedale di Alexandroupoli, dove spesso, dato il loro numero i medici sono costretti ad ammucchiare i cadaveri nelle celle frigorifere dell’obitorio.
Una situazione che il dottor Nikos Raptopoulos, direttore dell’ospedale, ha recentemente definito “orribile”, in un’intervista per il web-magazine SETimes.
Fantasmi
“Passano di notte, come fantasmi”. Mehmet si china ancora più in avanti e abbassa la voce. “Due settimane fa, raccontano in paese, la Jandarma ne ha ammazzato uno a sangue freddo, a qualche chilometro da qui. Quello si era arreso, ma il gendarme gli ha sparato lo stesso, in mezzo alla fronte”.
Küplü. Qualche migliaio di abitanti, persi nella calura d’agosto che avvolge l’ultimo lembo della Turchia europea. Campi di girasole e silenzio, poche macchine, quasi tutte di emigranti tornati per le vacanze dalla Germania. Nel mezzo dello slargo di asfalto che segna il centro del paese l’ennesima statua dorata di Atatürk, circondata di bandiere rosse con la mezzaluna.
Ad un lato due trattori pieni di cocomeri maturi, che si vendono ad una lira turca l’uno. La vita si concentra all’ombra di un locale, dove un gruppo di uomini, come Mehmet, siedono indolentemente a bere il caffè. Dei migranti qui non si parla volentieri, un’aria di sottile diffidenza e gesti indefiniti accompagnano le risposte.
“E’ in piccoli centri come Küplü, Meriç, Ipsala o Doyran che i trafficanti dirigono i migranti”, ci aveva detto ad Edirne, principale città turca a ridosso della frontiera greca l’avvocato Coşkun Molla, a lungo impegnato in progetti diretti ad informare i migranti in Turchia dei propri diritti. “Arrivano direttamente da Istanbul, con taxi, minibus, in macchina, per poi camminare verso il confine nel tentativo di evitare i controlli”.
A Küplü, l’Evros/Meriç è a un tiro di schioppo. Per arrivare al fiume, però, bisogna prima traversare una zona interdetta, pattugliata giorno e notte dalla “Jandarma” turca, corpo di polizia militarizzato responsabile, tra l’altro, del controllo delle zone di confine.
“Jandarma, problem! Jandarma, problem!”, sentiamo ripetere ad ogni cantone. I cattivi rapporti tra Grecia e Turchia creano non pochi rischi in più per chi tenta di passare da un paese all’altro lungo l’Evros.
I due eserciti, pur alleati all’interno della Nato, sul terreno si fronteggiano, anche simbolicamente. Al ponte di Ipsala, l’unico che unisce le due sponde a sud di Edirne, un fante greco ed uno turco, fucile mitragliatore in spalla e baionetta innestata, testimoniano al tempo stesso la presenza del confine e la malcelata inimicizia tra i due stati.
Speranze mutilate
E’ più a nord, però, intorno ad Edirne, che il confine militarizzato tra Grecia e Turchia ha creato la più impietosa e nascosta minaccia ai migranti che in questi anni hanno tentato di attraversarlo.
Per un capriccio della storia, questo è l’unico tratto della frontiera a non essere segnato dall’Evros/Meriç. Nel 1923, il trattato di Losanna assicurò infatti alla Turchia la stazione di Karaağaç, dall’altra parte del fiume, unico collegamento alla linea che porta verso la Bulgaria e l’Europa.
Qui l’Evros si può attraversare tranquillamente su un antico ponte di foggia ottomana, fiancheggiato da ristoranti in cui, in primavera ed estate, si festeggiano matrimoni colorati e rumorosi. Il confine, poco più avanti, è segnato solo da due strade militari parallele e lunghe file di alberi scuri.
Il pericolo, però, qui seppure invisibile, è subdolo e terribile. Dopo la crisi di Cipro (1974), per proteggere la parte più scoperta della frontiera, l’esercito greco ha seminato in questa zona 25mila mine, sia antiuomo che anticarro.
Secondo l’International Campaign to Ban Landmines (ICBL), organizzazione impegnata nell’abolizione di questi ordigni (premio nobel per la Pace nel 1997), nel periodo 2000-2008 almeno 66 migranti sono stati straziati e 44 sono rimasti feriti sui campi minati lungo il confine. Il numero reale delle vittime, però, potrebbe essere molto più alto.
“Voci insistenti parlano di trafficanti che hanno portato volutamente i migranti sui campi minati, forse per saggiarne lo stato”, ci dice Petrovic. Molti migranti, nonostante i segnali di pericolo, nella notte potrebbero aver semplicemente scambiato le reti di protezione che delimitano i campi con il confine stesso.
Oggi il governo greco (che ha sottoscritto il trattato di Ottawa sulla messa al bando delle mine) sostiene di aver terminato a fine 2009 l’opera di rimozione degli ordigni antiuomo. L’ultimo incidente riportato dalla stampa risale al settembre 2008, quando quattro georgiani sono morti vicino alla cittadina greca di Kastanies, subito dopo il confine. Sul fatto che il confine sia stato messo completamente in sicurezza, però, restano non pochi dubbi.
Sull’altra riva
Sulla sponda greca dell’Evros il paesaggio resta immerso nella calura, ma diventa meno lunare. A ovest scendono pigramente gli ultimi pendii dei monti Rodopi, punteggiati di macchie di verde. I centri abitati si fanno più frequenti, e le case dall’intonaco abbagliante mostrano un livello economico superiore all’altra riva, nonostante la crisi che ha attanagliato il paese negli ultimi mesi.
E’ da questa parte del fiume, in cittadine assonnate come Soufli, Dydimoticho e Orestiada, che i “fantasmi” di Mehmet tornano a materializzarsi. “Li vediamo da soli o a piccoli gruppi, coi vestiti ancora fradici, quasi sempre alle prime ore del mattino. Spesso vanno alla stazione degli autobus, o cercano un modo per andare a Salonicco”, ci dicono in tanti nel centro di Orestiada, principale centro greco sull’Evros. Tutti sembrano d’accordo su un punto, i migranti “non sono mai stati così tanti come quest’anno”.
Fonti diverse parlano di una nuova tendenza, sempre più evidente negli ultimi mesi: non appena traversato il fiume, i migranti non tentano più di eclissarsi, ma si consegnano spontaneamente alla polizia. La scelta dei migranti sembra legata al fatto che ultimamente le autorità greche, forse spinte dalla cronica sovrappopolazione dei centri di detenzione, tendono a trattenere i migranti fermati per un tempo minimo.
Mentre prima la detenzione durava solitamente alcuni mesi, oggi numerosi migranti si ritrovano in libertà dopo pochi giorni appena, con in tasca un foglio di via che li invita, entro trenta giorni, ad abbandonare il paese.
Il fatto che gli immigrati preferiscano consegnarsi, non significa però che il loro incontro con la polizia greca sia privo di problemi o momenti di tensione. Numerose anzi le accuse di maltrattamenti che abbiamo raccolto. “Dopo averci caricato su una camionetta, i poliziotti ci hanno portato in centrale. Qui hanno iniziato ad urlare, ci trattavano come animali”, sostiene Ahmad. “Uno dei miei compagni di viaggio è stato picchiato a sangue perché ha tentato di tenersi il telefonino, invece di consegnarlo alla polizia”.
Accuse, naturalmente, difficili da provare. Spesso si tratta della parola dei migranti contro quella della polizia. Quando proviamo a visitare a sorpresa la caserma della polizia di frontiera di Isaakio, piccolo villaggio adagiato su un’ansa dell’Evros, gli ufficiali presenti ci mandano via in modo deciso, dopo aver registrato i dati dei nostri documenti con fare vagamente intimidatorio.
“Abbiamo seguito una serie di casi in cui ufficiali della polizia greca sono stati soggetti a indagine per presunti maltrattamenti”, ci dice al telefono Mario Felice, maltese, membro del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT) del Consiglio d’Europa.
“Queste indagini, per essere efficaci, devono essere immediate, di largo respiro e condotte da organismi indipendenti. Sfortunatamente fino ad oggi, per i casi da noi analizzati, questi elementi continuano a essere insoddisfacenti”.
Vita da reclusi
Dal 2005 al 2009, Felice ha guidato quattro missioni del CPT in Grecia. Una frequenza dovuta proprio alle serie preoccupazioni sulle condizioni di detenzione degli immigrati irregolari da parte delle autorità elleniche.
“Nonostante le nostre raccomandazioni vengano recepite, purtroppo fino ad oggi questo non ha portato a miglioramenti significativi nelle condizioni di detenzione dei migranti irregolari. La Grecia, sui confini esterni dell’Ue, vive una situazione di evidente difficoltà”, sostiene Felice. “Questa, però, dura ormai da troppo tempo per continuare a parlare di crisi”.
Il suo giudizio è stato recentemente ribadito da un rapporto stilato da Medici senza Frontiere (MSF) e pubblicato lo scorso giugno. “I centri di detenzione in Grecia non raggiungono gli standard minimi in termini di igiene, spazi, protezione dal freddo e dal caldo”, sostiene l’organizzazione.
Secondo MSF questi centri sono sovrappopolati e privi di qualsiasi spazio privato. Cibo e sapone vengono distribuiti in modo irregolare. Il problema viene accentuato dal fatto che nei centri i migranti vengono sistematicamente reclusi, anche se la legge greca prevede che questa misura venga adottata solo come extrema ratio.
Tra le difficoltà più significative, anche quella di garantire ai migranti il diritto all’assistenza medica e a quella legale. Secondo Amnesty International “gli avvocati che hanno tentato di offrire la propria assistenza ai migranti trattenuti nei centri della zona dell’Evros hanno incontrato serie difficoltà e resistenza da parte delle autorità”.
Per i migranti, poi, ritrovare la libertà non significa la fine dei problemi. Di solito, una volta ricevuto il foglio di via, si recano nelle principali città greche (soprattutto Atene e Salonicco) dove, con l’aiuto di amici o parenti, cercano di trovare un lavoro oppure (nella maggior parte dei casi) di raggiungere un altro paese europeo.
La loro posizione in Grecia resta comunque precaria. Scaduti i trenta giorni, ognuno di loro può essere nuovamente arrestato per mancanza di documenti validi. E il ciclo ricomincia di nuovo.
Giochi sporchi sull’Evros
Dal 2009 il numero dei migranti e richiedenti asilo diretti verso l’Unione Europea sembra essere sensibilmente diminuito. Chi tenta di entrare in Europa, però, lo fa sempre di più attraverso la Grecia. Nel 2009, il 75% dei 106mila fermi di migranti sono stati effettuati in Grecia. I primi dati di quest’anno (fonte Frontex) parlano di una quota vicina all’80%.
Atene si sente sommersa da un problema più grande di lei. Fino al 2007, il flusso dei migranti era quasi ugualmente condiviso dalla Grecia con altri due paesi mediterranei: Spagna, Italia. In seguito però, i discussi accordi bilaterali sottoscritti dalla Spagna col Senegal e Mauritania, e quelli firmati tra l’Italia e Libia, hanno di fatto bloccato le tradizionali rotte del Mediterraneo occidentale e centrale.
I tentativi greci di raggiungere accordi simili con la Turchia, almeno per il momento, hanno avuto molto meno successo. Di conseguenza, il nervosismo di Atene nei confronti di Ankara sul tema è evidente.
Tra i due paesi, in realtà, dal 2001 esiste un accordo di riammissione, che però non ha mai funzionato. L’argomento è stato ripreso durante la recente e pubblicizzata visita del premier turco Recep Tayyip Erdoğan ad Atene, nel maggio scorso. La Turchia si è impegnata ad aprire un ufficio di riammissione permanente ad Izmir, e di riaccogliere dalla Grecia mille migranti l’anno. Anche il nuovo accordo, però, sembra più che altro simbolico.
“I turchi, in questo modo, prendono due piccioni con una fava”, ci dice a Orestiada un ufficiale di polizia che preferisce restare anonimo. “Da una parte si liberano di migranti indesiderati, dall’altra scaricano il problema su di noi”.
In mancanza di un accordo bilaterale funzionante, voci ricorrenti lanciano un’accusa pesante al governo di Atene. Quella, cioè, di aver portato avanti in questi anni respingimenti illegali verso la Turchia, al di fuori di qualsiasi cornice legale.
“Ci hanno portato con furgoni militari fino all’Evros. Eravamo 100-120 persone, di cui molti bambini. Qui ci hanno fatto scendere e ci hanno obbligato a salire su dei barconi. Con quelli ci hanno portato in mezzo ad un isolotto, al centro del fiume. In questo modo, i turchi non potevano far nulla per impedirlo. Era la notte del 15 novembre 2006”.
Il racconto di Jamal (altro nome di fantasia), palestinese, più volte respinto e rientrato in Grecia, è tragico e circostanziato, anche se difficile da verificare.
Quella notte Jamal avrebbe nuotato avanti e indietro tra l’isolotto e la riva turca per portare in salvo la moglie e i sei figli. “Ero diventato blu per il freddo. Non ho potuto far altro che urlare e urlare, in cerca di aiuto, finché la Jandarma turca non è venuta a prenderci”
Un problema europeo
In questi anni il governo greco non sembra essere riuscito a proporre una linea organica e complessiva per affrontare la questione dell’immigrazione, muovendosi sempre nell’orizzonte della crisi permanente. Gli attuali problemi economici, che hanno portato Atene all’orlo del collasso, difficilmente renderanno le cose più facili nel prossimo futuro.
Il problema, però, naturalmente non riguarda soltanto la Grecia, ma l’Unione europea nel suo complesso. L’attraversamento dell’Evros e l’ingresso nel paese ellenico, per la stragrande maggioranza dei migranti rappresenta soltanto una tappa nel viaggio verso i paesi più ricchi dell’Ue, soprattutto Gran Bretagna, Germania e Olanda.
Alla tradizionale rotta via mare verso l’Italia, sempre più sorvegliata, negli ultimi anni si sta affiancando quella che passa per i Balcani occidentali (Macedonia e Serbia, verso l’Ungheria).
Secondo Frontex, “nel 2008 e nel 2009 la rotta balcanica è stata usata sempre più spesso come via di transito da chi, entrato illegalmente in Grecia dalla Turchia, tenta di raggiungere altri paesi dell’Ue. Basti pensare che, nei primi cinque mesi dell’anno, ben 186 migranti (soprattutto afgani) sono stati fermati mentre tentavano di entrare in Ungheria dalla Serbia nella zona di Horgos.
In Grecia non si nasconde una profonda insoddisfazione verso quello che viene avvertito come un atteggiamento opportunistico da parte dei partner ricchi dell’Ue. “Credo che l’Ue trovi conveniente usarci come scudo, e che fino ad oggi non abbia affrontato il problema in modo serio”, ha dichiarato recentemente all’UNHCR Pavlos Vogiatzis, prefetto dell’isola di Lesbo, in questi anni uno dei punti di approdo più “caldi” sulla rotta dell’Egeo.
La strategia dell’Ue sembra tutta concentrata sull’aspetto sicurezza e controllo delle frontiere, poco sulla ricerca delle radici del problema e di possibili soluzioni di lungo respiro. Nel frattempo, gli stati europei continuano a fare lo scaricabarile, oppure ad appaltare la gestione del fenomeno migratorio a stati (come la Libia) con pessime tradizioni nel campo del rispetto dei diritti umani, secondo il principio “occhio non vede, cuore non duole”.
Tornando alla Grecia, oggi l’Unione finanzia al 75% il piano 2007-13 di Atene sulla protezione delle frontiere esterne (attestato intorno ai 200 milioni di euro complessivi), fondi che comunque sembrano molto lontani dall’essere sufficienti.
Anche la recente notizia dell’apertura ad ottobre di un ufficio pilota di Frontex al Pireo non sembra in grado di cambiare significativamente le cose. Nonostante le parole di circostanza, scrive l’"Economist", il governo greco lascia trasparire segni evidenti di frustrazione. Per il ministro degli Interni greco, Michalis Chrisochoidis, l’iniziativa rappresenta “una goccia nel mare”.
Nel breve periodo, non si vedono segnali di un possibile miglioramento. Nel frattempo, per dirlo con le parole di Vogiatzis “il modo con cui vengono trattati oggi i migranti non onora nessuno, né noi greci né l’Unione europea”.