Europride a Belgrado, la marcia dei 10.000
Nonostante i divieti del governo volti a limitare la manifestazione LGBT belgradese, sabato 17 settembre oltre diecimila persone hanno sfilato per le vie della capitale. Si può quindi parlare di un successo? Sì e no, il perché ce lo spiega Goran Miletić, direttore dell’Ufficio Europa e MENA al Civil Rights Defenders e tra gli organizzatori dell’Europride
Migliaia di persone hanno sfilato sabato nel centro di Belgrado per l’Europride 2022 , la manifestazione di riferimento della comunità LGBT+ in Europa. Inizialmente, la marcia è stata proibita dal governo serbo, che temeva degli scontri con hooligans, nazionalisti e ultraortodossi. "In realtà, il presidente Vučić teme soprattutto che i partiti di estrema destra – partiti satelliti dell’SNS (la formazione del capo di stato, nda.), non una vera opposizione – finiscano per rosicchiare la base elettorale del partito di Vučić, come avvenuto alle ultime elezioni, sfruttando proprio eventi come il gay pride", chiosa l’analista Srđan Cvijić. Sabato pomeriggio, l’evento è stato infine autorizzato ma sotto forma di una “camminata privata”. Per alcuni partecipanti, come il deputato tedesco Boris Mijatović , “la Serbia ha fatto un enorme passo indietro in materia di diritti umani” e “noi siamo stati delle marionette nel teatrino di Vučić”. L’Europride a Belgrado è stato dunque un successo o no? Ne abbiamo parlato con Goran Miletić , direttore dell’Ufficio Europa e MENA al Civil Rights Defenders e tra gli organizzatori dell’Europride.
Com’è andato l’Europride? È soddisfatto?
Ho ricevuto moltissimi commenti positivi, per cui direi che è andato bene. Siamo contenti che sia successo e che ci sia stata la marcia. Insomma, se guardiamo alla cosiddetta “vox populi”, è andato bene. Personalmente, quello che mi è piaciuto è che questo è stato il più grande gay pride fatto finora a Belgrado, con circa 10mila partecipanti, se consideriamo anche quelli che sono venuti la sera al concerto. Il programma si è poi svolto interamente senza problemi, è durato una settimana, con due grandi concerti e tanti ospiti. Dall’altro lato, però, l’aspetto negativo è che non abbiamo potuto seguire il percorso che avevamo inizialmente scelto, che c’è stata della discriminazione, che abbiamo dovuto fare delle concessioni, accettando di cambiare il percorso della marcia e continuare nonostante un divieto formale. Questo è stato orrendo, ma comunque abbiamo trovato un modo legale per andare avanti.
Come spiega il comportamento del governo serbo? Perché ha vietato il pride?
Inizialmente è stato il presidente [Aleksandar Vučić, nda.] a vietare la marcia, nonostante lui non sia autorizzato a prendere decisioni del genere. Solo noi, in quanto organizzatori, possiamo rimandare o annullare l’evento. Noi abbiamo reagito dicendo che non avremmo né rimandato né annullato. Poi, il ministero dell’Interno ha formalmente vietato la manifestazione, noi abbiamo fatto ricorso, ma il tribunale lo ha respinto… Quindi è emerso che le istituzioni dello Stato non volevano in nessun modo permettere il gay pride. Alla fine, abbiamo trovato una soluzione giuridica, informando le autorità che ci saremmo radunati di fronte alla Corte costituzionale e che da lì avremmo camminato fino allo stadio di Tašmajdan [dove la sera era previsto il concerto, nda.]. Si tratta di un percorso che non è molto lungo, ma che ci ha permesso di aggirare il divieto e la polizia ci ha dato l’ok. In pratica, abbiamo fatto un’acrobazia giuridica, ma ufficialmente per il governo il gay pride è stato vietato.
Non è paradossale che un governo guidato da una prima ministra apertamente lesbica abbia ostacolato l’organizzazione dell’Europride?
La Serbia continua ad essere un paese omofobo. Più del 55% dei cittadini pensa che l’omosessualità sia una malattia. È un dato scioccante. Proprio per questo il gay pride è importante, per mostrare che non abbiamo né corna né coda e che siamo persone normali. Ci sono tante contraddizioni in Serbia: la prima ministra fa parte della comunità LGBT, alcune leggi sono ok, ma la loro implementazione e quello che i cittadini pensano su alcuni temi sono ad un livello terribile. Tuttavia, le cose cambiano. Ad esempio, l’82% dei cittadini pensa che le persone LGBT dovrebbero godere degli stessi diritti delle altre persone. Inoltre, il 76% ritiene che negli ospedali bisognerebbe garantire gli stessi diritti alle coppie dello stesso sesso. Insomma, la Serbia è un paese in cui convivono diversi punti di vista, che sembrano non andare d’accordo tra di loro. Infine, solo il 3% dei cittadini è d’accordo con la violenza contro la comunità LGBT. Quindi sì, tante contraddizioni, ma è importante soprattutto come le figure politiche si posizionano su questi temi.
Negli ultimi anni il gay pride si era svolto a Belgrado senza incidenti… quello di quest’anno è da considerarsi un passo indietro?
Negli ultimi otto anni, il gay pride si è svolto a Belgrado in modo pacifico e senza alcun incidente. Purtroppo, quest’anno c’è stata invece un’atmosfera incredibile, di cui non siamo responsabili. Alcuni individui irresponsabili hanno cercato di guadagnare qualche punto politico, violando i diritti umani. Perché tanta opposizione proprio quest’anno? I motivi formali sono legati al fatto che quest’anno si organizzava un “Europride" e che ci si aspettava un’affluenza di 15mila persone. Ma chi si è opposto non è riuscito a far desistere gli ospiti né a fermare il pride. C’è stata una strana e rumorosa campagna da parte di una minoranza.
Pensa che la manifestazione di sabato abbia contribuito a far avanzare la battaglia per i diritti LGBT+ in Serbia?
Il gay pride aiuta sempre, certo. Non si può arrivare ad una buona posizione della comunità LGBT senza passare per la visibilità. Si possono votare leggi, parlare di tolleranza, ma finché la gente non vede le persone LGBT nello spazio pubblico, alla televisione e come cittadini con gli stessi diritti, non cambierà nulla. Questa visibilità è importante e non può essere bypassata. Quindi in ogni caso aiuta, non c’è dubbio, e bisogna continuare ad organizzazione il gay pride, per mostrare che siamo amici, cittadini, che abbiamo gli stessi problemi degli altri, ma oltre a quelli, anche il problema di essere parte di una minoranza come quella LGBT.
Ha detto prima che “la Serbia è un paese omofobo”. Belgrado fa differenza?
Belgrado è una grande città, la più grande di questa regione, con due milioni persone. Qui è facile avere il proprio giro di amici. Belgrado è una città tollerante, pacifica, dove è insomma più facile vivere per i membri della comunità LGBT. Anche a Novi Sad, in qualche modo. Ma tutte le altre città sono invece piccole e lì è molto difficile avere una vita normale per le persone LGBT. Anzi, è impossibile essere apertamente gay, o ammetterlo a qualcuno senza la paura di essere maltrattati e respinti.
Cosa resta da fare in Serbia per quanto riguarda i diritti LGBT+?
Si tratta degli stessi obiettivi che abbiamo da cinque anni: fare lobby per arrivare ad una legge sulle partnership civili, una legge sull’identità di genere… La lotta non è certo finita col pride e la marcia non cambia le cose, serve ad attirare l’attenzione, per mostrare perché manifestiamo e cosa chiediamo. È importante sia celebrare che protestare. Ma se vogliamo un cambiamento vero serve un dialogo con il governo.
È ottimista per quanto riguarda il dialogo col governo?
Beh, non è bianco o nero. Ci sono progressi e passi indietro. In alcuni momenti, durante la preparazione dell’Europride, ci sono stati momenti terribili nel dialogo col governo, ad esempio quando ci hanno detto che non ci sarebbe stata nessuna marcia, in alcun modo. Noi abbiamo tenuto dure e risposto che senza marcia non ci sarebbe stato proprio l’Europride a Belgrado, perché non puoi far finta che bastino due conferenze per chiamarlo Europride. Deve esserci una marcia. Insomma, è stato molto difficile ma siamo riusciti a raggiungere qualcosa di accettabile. Sarebbe facile chiudere la porta e distruggere i ponti, ma io penso che dobbiamo continuare a dialogare con l’esecutivo. Certo, non hanno tutti buone intenzioni, né al governo né all’opposizione, ma non possiamo permetterci il lusso di non parlare con il governo.