Europa: un allargamento senza Balcani
I Balcani rappresentano un nodo politico fondamentale nel processo di costruzione europea. Per questo ne restano esclusi. Una ricognizione sullo stato dei negoziati con i diversi Paesi dell’area. Il buco nero delle Entità
Il più grande allargamento nella storia dell’Unione, che il primo maggio scorso è passata da 15 a 25 membri, è avvenuto senza i Balcani. Tra i Paesi del sud est Europa, infatti, solo la piccola Slovenia è entrata a pieno titolo nella famiglia europea. Per gli altri, la prospettiva della integrazione è rimandata ad un futuro più o meno indefinito. Nel cuore dell’Europa rimane così un buco nero, l’area balcanica che, nell’immaginario dei cittadini europei, rappresenta soprattutto instabilità e conflitti.
Secondo diverse analisi, la distanza tra l’Europa dell’Unione e i Balcani, dopo l’allargamento, aumenterà. I tempi di "digestione" di 10 nuovi Paesi, per le strutture comunitarie, allontanerebbero a breve la prospettiva di nuovi ingressi. Il primo maggio, inoltre, avrebbe segnato il distanziarsi del baricentro politico europeo – ormai saldamente nell’Europa centrale e baltica – dall’area danubiano-mediterranea. La retorica sullo scontro di civiltà non favorirebbe infine politiche di inclusione di un’area, quella balcanica, nella quale l’Islam è presente da secoli, con una minoranza di otto milioni di persone divise nei vari Paesi della regione.
Il SAP
In realtà, già dal 1999 la Commissione Europea ha creato uno strumento specifico, lo "Stabilisation and Association Process" – SAP – come cornice per sostenere la integrazione europea dei Paesi della ex Jugoslavia (esclusa la Slovenia) e dell’Albania. La settimana scorsa, il 20 aprile, il Commissario europeo per l’Allargamento Gunther Verheugen ha reso noto a Zagabria il parere positivo ("Avis") della Commissione alla ratifica dell’Accordo di Associazione con la Croazia. Se questo orientamento verrà confermato dal Consiglio Europeo nel prossimo mese di giugno, la Croazia potrebbe diventare membro della UE già nel 2007, insieme a Romania e Bulgaria.
Nel documento, la Commissione afferma di sostenere l’avvio dei negoziati sull’adesione, segnalando al tempo stesso le aree problematiche sulle quali invita le autorità croate a fare sforzi ulteriori: la riforma del sistema giudiziario, la protezione dei diritti delle minoranze, il ritorno dei rifugiati serbi, la lotta alla corruzione e la cooperazione regionale (con un esplicito accenno alla questione della "Zona ittica ed ecologica" proclamata unilateralmente dalla Croazia in Adriatico). Sulla collaborazione con il Tribunale dell’Aja, la Commissione formula un parere generalmente positivo, sottolineando però che "il ricercato rimanente" (leggi: Ante Gotovina) deve essere consegnato alle autorità internazionali.
Dal punto di vista economico, la Croazia – secondo la Commissione – può essere considerata una "funzionante economia di mercato." Per quanto riguarda invece l’accoglimento del cosiddetto "acquis communautaire", il corpus della legislazione comunitaria che ogni Paese deve dimostrare di aver acquisito o poter acquisire, e che insieme ai criteri politici ed economici forma la base per l’adesione (Copenhagen 1993), le difficoltà evidenziate sono soprattutto nel campo della legislazione ambientale.
Per la Croazia, il recente documento della Commissione ha avuto un enorme significato, sottolineato a titoli cubitali dalla stampa locale nei giorni successivi alla sua pubblicazione. La apertura dei negoziati sulla adesione potrebbe portare con sé i fondi per la pre-adesione, maggiori di quelli disponibili sotto il SAP, e la accelerazione della rimozione delle barriere commerciali esistenti con la UE. Lo stesso parere della Commissione – che certifica la stabilità della Croazia sotto il profilo economico e politico – potrebbe fungere da volano per attrarre investimenti diretti dall’estero.
In Macedonia, primo Paese dell’area a stipulare l’Accordo di Associazione e Stabilizzazione, nel 2001, come contropartita per la firma degli Accordi di Ohrid, che portarono fine a mesi di scontri armati, la discussione sulla ratifica è in corso. La lunga serie di scadenze elettorali che impegnerà il Paese nel corso del 2004, tuttavia, potrebbe rallentare il ritmo delle riforme richieste dalla UE per continuare sulla strada della adesione.
A Dublino, nel marzo scorso, lo stesso giorno del tragico incidente che è costato la vita al presidente Boris Trajkovski, la Macedonia ha presentato ufficialmente la propria candidatura. Dopo l’esame del Consiglio, la Commissione dovrà fornire il proprio parere – come nel caso della Croazia – sulla possibilità che il Paese acquisti lo status di candidato. L’intero processo potrebbe durare un anno e mezzo.
Il problema centrale del Paese, tuttavia, oltre alle tensioni sotterranee tra comunità albanese e slavo macedone, resta lo stato dell’economia, una delle più povere in Europa.
Considerato che Bulgaria e Romania sono Paesi candidati – nonostante i recenti moniti di Bruxelles mostrino che niente può essere dato per scontato – gli unici Paesi per i quali non esiste, allo stato attuale, una chiara prospettiva, sono l’Albania (dove tuttavia la negoziazione su di un Accordo di Stabilizzazione e Associazione è in corso), la Bosnia Erzegovina e la Unione Serbia-Montenegro.
Questi ultimi, quelli più lontani da Bruxelles, paradossalmente sono proprio quelli nei quali si concentrano le principali questioni ancora aperte nella regione: lo status del Kosovo; la situazione di protettorato internazionale in cui ancora si trova, a nove anni dalla fine della guerra, la Bosnia Erzegovina; la "Unione" Serbia e Montenegro.
Il vero buco nero: le "Entità"
La situazione di assoluta incertezza nella quale si trovano Bosnia Erzegovina e Serbia-Montenegro, a partire dal livello istituzionale, ne provoca una sostanziale stasi, che continua da anni. Non vanno avanti, né indietro. Segnano il passo. Basta poco per capire che questo scenario – definito dalla assenza di prospettive – è estremamente rischioso.
Gli scontri in Kosovo del marzo scorso hanno rappresentato un primo inquietante segnale. Il Paese, che in base alla risoluzione 1244 delle Nazioni Unite è formalmente parte di uno Stato che non esiste più – la Repubblica Federale di Jugoslavia – è di fatto un protettorato internazionale, del quale la maggioranza degli abitanti reclama l’indipendenza. Dopo le recenti violenze, l’amministrazione internazionale si è chiusa in una sorta di autismo, che rende ancora più difficile valutare la possibile evoluzione di questa "Entità".
Entità? Parlare oggi del Kosovo, in effetti, implica una estrema difficoltà, a partire dal livello semantico. Non sapendo come sbrigarsela, si attinge al linguaggio dei romanzi di fantascienza, e alla categoria delle "Entità". Cioè, riuscendo a concordare solo sul fatto che esiste, possiamo perlomeno definirlo così. Dato il livello (assente) di sviluppo, la forte presenza di attori internazionali e la mancanza di un governo sovrano, qualcuno, più concretamente, preferisce definire il Kosovo una organizzazione non governativa – ong.
Definizioni a parte, il nodo irrisolto del Kosovo è amplificato dalla (irrisolta) Unione di Serbia e Montenegro (USM). Creata nel 2003, nel 2006 i cittadini delle due Repubbliche potranno pronunciarsi sul suo mantenimento o risoluzione. Bruxelles, che ha tenuto a battesimo l’USM nel tentativo di arginare l’ennesima secessione balcanica, ha dichiarato che Serbia e Montenegro entreranno insieme nella UE, come Unione, o ne resteranno fuori. Per il momento, un Accordo di Associazione e Stabilizzazione non esiste.
Anche l’USM, Stato senza bandiera né inno, è una "Entità", le cui istituzioni esercitano una autorità simbolica. La vera sovranità resta a livello degli Stati membri, Serbia e Montenegro per l’appunto. La comunità internazionale, dopo aver a lungo sostenuto le aspirazioni indipendentiste di parte delle forze politiche montenegrine, ha cambiato rotta dopo la consegna di Milosevic all’Aja. Nel frattempo, però, il solco tra le due Repubbliche si è approfondito.
Dal punto di vista del processo di integrazione europeo, secondo alcuni osservatori sarebbe meglio se Serbia e Montenegro negoziassero in maniera separata la propria adesione alla UE. Nel caso un referendum, nel 2006, deliberasse la fine dell’Unione, il processo dovrebbe infatti ricominciare da capo. In alcuni settori, peraltro, gli interessi di Belgrado e Podgorica sarebbero addirittura divergenti.
Le due economie, che in questi anni hanno seguito percorsi differenti e utilizzano valute diverse – il dinaro e l’euro – rimangono separate anche a livello doganale, nonostante la faticosa approvazione nell’agosto scorso di un piano d’azione per l’armonizzazione dei sistemi economici.
La creazione di un unico spazio economico, e di un unico sistema doganale, rappresenta uno dei requisiti fondamentali richiesti dalla UE per l’apertura dei negoziati. E’ proprio qui, tuttavia, che nascono i problemi maggiori.
"La Serbia, con un importante settore agricolo, vuole mantenere un sistema di forte tassazione sulla importazione di prodotti alimentari dall’estero per proteggere la propria agricoltura mentre il Montenegro – che produce poco – vuole un livello di tassazione basso o nullo sulle importazioni alimentari, così da mantenere bassi i prezzi al consumo." (v. "Serbia e Montenegro, un matrimonio infelice", di Dragana Nikolic Solomon, IWPR, 22.04.04)
Mentre lo stesso sistema giudiziario non è integrato – due separate forze di polizia e due distinte Corti Supreme – dal punto di vista politico, dopo l’assassinio di Djindjic, la situazione non potrebbe essere più lontana dagli auspici della UE, specie per quanto riguarda il punto cruciale della collaborazione con il Tribunale dell’Aja. In Serbia, gli imputati Milosevic e Seselj sono stati recentemente eletti al Parlamento, e c’è voluto l’intervento della Corte Costituzionale per sospendere la controversa legge voluta dal governo Kostunica sugli aiuti alle persone sotto giudizio all’Aja e alle loro famiglie. All’inizio del suo mandato, del resto, Kostunica aveva affermato significativamente che: "La cooperazione con il Tribunale dell’Aja non sarebbe stata una priorità dell’esecutivo." (cit. in "Serbia e Montenegro, un matrimonio infelice", v. supra)
Anche la Bosnia Erzegovina (BiH), infine, non ha ancora firmato un Accordo di Associazione e Stabilizzazione. Il Paese, governato dall’Alto Rappresentante Paddy Ashdown, è una sorta di federazione atipica le cui parti costitutive, le Entità (di nuovo, la fantascienza), hanno prerogative maggiori rispetto al governo centrale. Anche in questo caso, sono la stessa indeterminatezza istituzionale e la debolezza dello Stato a rappresentare l’ostacolo maggiore ai negoziati. Ma lo Stato non può essere rafforzato fino a quando il Paese sarà governato dagli internazionali, che sono in Bosnia per rafforzare lo Stato. Come dire, di Europa si parlerà più avanti.
La Commissione ha tuttavia redatto uno "studio di fattibilità", nel quale dichiara la possibilità di aprire le negoziazioni per l’Accordo con la BiH il prossimo anno, a condizione che vengano fatti significativi passi avanti in alcune aree definite prioritarie, identificate in una lista di 16 punti. Si va dalla riforma del sistema doganale e fiscale, alla creazione di un unico spazio economico e di un mercato energetico integrato, dalla riforma della pubblica amministrazione a quella del sistema radiotelevisivo pubblico ed altro ancora. Naturalmente, finché il dossier Karadzic resta aperto, non si parla di negoziati.
In estrema sintesi, la Commissione chiede che la Bosnia Erzegovina abbia un governo e istituzioni centrali funzionanti. Questo, oggi, non è semplicemente possibile, dato che il governo e le istituzioni sono nelle mani della comunità internazionale e delle tre maggiori comunità etniche. I cittadini sono una categoria assente dallo scenario politico bosniaco. Finché questa situazione non cambia – e a livello internazionale tutti sembrano temere un cambiamento in una direzione purchessia – Sarajevo e Bruxelles si guarderanno da lontano, e dall’alto in basso, dato che dall’anno prossimo sarà proprio l’Europa ad avere una propria forza militare nel Paese, che sostituirà la Stabilization Force (SFOR) guidata dalla Nato.
Questa mera circostanza – una forza militare europea in Bosnia Erzegovina a partire dal 2005 – unitamente alle statistiche sulla quantità di denaro speso dall’UE nell’area, evidenzia che i Balcani non sono stati dimenticati da Bruxelles, al contrario.
La Commissione opera con una propria delegazione in ogni Paese dell’area. Forze di polizia europee (missione EUPM) sono presenti da tempo sia in Macedonia che in Bosnia Erzegovina. Anche i soldi, per i Balcani, non diminuiscono. Per il quinquennio 2001-2006 la UE aveva stanziato 4,65 miliardi di euri. Nel recente vertice di Salonicco sono stati deliberati ulteriori 210 milioni di euri (v. Jehona Gjurgjeala, "La Ue ha bisogno di un nuovo approccio ai Balcani Occidentali", IWPR, 22.04.04). I timori che le necessità dei 10 nuovi Stati, entrati nell’Unione il primo maggio scorso, porteranno a stornare fondi dai Balcani sembrerebbero quindi infondati.
Il problema, semmai, è che per i Balcani soldi e soldati non sono il problema. Crocevia di culture, religioni, nazionalità, i Balcani rappresentano in nuce la stessa essenza della identità europea e le ragioni del suo processo di unificazione.
Gli anni ’90
All’inizio degli anni ’90, di fronte alla crisi balcanica, l’Europa ha opposto una chiusura di tipo autistico, presentandosi in ordine sparso nei conflitti nati dalla dissoluzione della Jugoslavia. Nasceva l’Europa di Maastricht, e il percorso che porterà qualche anno dopo alla creazione della moneta unica traeva nuovo e decisivo impulso. Il nostro palinsesto televisivo, in quegli anni, era affollato di immagini violentemente contrapposte: l’orrore delle guerre balcaniche e la litania sui parametri di Maastricht.
Mentre la Germania si riunificava, l’Europa rinunciava a svolgere un ruolo politico. L’intervento di Bruxelles, allora, avrebbe potuto contribuire a disinnescare le tensioni dando una chiara prospettiva di sviluppo alla regione, depotenziando la valenza simbolica dei confini interni, del territorio, le rivendicazioni su cui i nazionalisti costruivano la propria fortuna.
Oggi, la UE prosegue un approccio di tipo tecnico, che considera in maniera separata la situazione dei diversi Paesi della regione, lasciando indietro proprio quelli che avrebbero maggiormente bisogno di una chiara prospettiva di integrazione europea. Accanto ai parametri tecnici, tuttavia, si è fatta strada anche la consapevolezza della necessità di un ragionamento di tipo politico.
Nel suo intervento al recente congresso delle Acli, il presidente Prodi, rispondendo alla precisa domanda di una operatrice dell’Ipsia che lavora nel Kosovo, ha dichiarato: "Ci ho messo quattro anni perché fosse votata dal consiglio di Salonicco l’idea della prospettiva di entrare nell’Unione Europea per tutti i Paesi della ex Jugoslavia e dei Balcani… Il Kosovo non si mette a posto se non ha questa prospettiva politica di ingresso nell’Unione, ndr. Non si può tenere un paese con i soldati e pensare che i soldati accompagnino i bambini a scuola e così avvenga per sempre. Una soluzione politica ci vuole. Noi offriamo questa soluzione politica a cominciare dalla Croazia, dalla Macedonia, con cui abbiamo già cominciato a muovere i primi passi e poi si farà per gli altri Paesi."
Si tratta di una prospettiva che muove i propri passi in maniera ancora incerta. Quand’anche il punto di vista della Commissione restasse lo stesso alla scadenza – ormai prossima – della squadra attuale, il punto di vista "realpolitiko" del Consiglio Europeo – l’Europa dei governi – non mancherà di trovare la propria rappresentazione. Molto dipenderà dalla evoluzione di questa prima tornata di allargamento. Il segnale che arriva da Cipro, dove pochi giorni fa la prospettiva politica di riunificazione del Paese come contropartita all’ingresso nella UE ha subito una cocente sconfitta, per la intransigenza dimostrata dalla comunità greco-cipriota, non è di buon auspicio.
Quale Europa?
Molto dipenderà naturalmente dal tipo di Europa in costruzione. Nel settembre scorso, diverse associazioni della regione hanno partecipato con "Osservatorio sui Balcani" ad un simbolico viaggio sul Danubio da Vienna a Belgrado, ponendo non solo la questione della "riunificazione" europea, ma anche quella di "quale" Europa costruire.
Si tratta di una questione centrale. Ancora oggi, non è chiaro che cosa sarà l’Europa. Una gigantesca area di libero scambio o un soggetto politico costituitosi a partire dai valori della pace, della solidarietà, dell’inclusione, del welfare, con un proprio peso nello scenario internazionale? Non essendo stato sciolto questo nodo, non è ancora chiaro quando le diversità dei Balcani, che oggi in Europa rappresentano la questione politica per antonomasia, potranno entrare a farne parte.
All’inizio degli anni ’90, di fronte alla crisi in ex Jugoslavia, l’Europa ha rinunciato a svolgere un proprio ruolo. Quella opportunità non è perduta per sempre. Anche perché quella crisi, purtroppo, non è conclusa.
Nel frattempo, sono trascorsi dieci anni e il più grande allargamento nella storia dell’Unione, senza i Balcani. Non era un destino. Una politica europea di segno opposto, negli anni ’90, avrebbe prodotto oggi uno scenario diverso. Tornano in mente le parole della filosofa e scrittrice Rada Ivekovic, che imputa all’Europa non la colpa, ma la "corresponsabilità" nella tragedia jugoslava:
"Non c’è alcuna fatalità nella guerra di smembramento dell’antica Jugoslavia, fino all’episodio del Kosovo; avrebbe potuto essere evitata ma, nel costruire l’Europa, si sarebbe dovuto puntare sull’inclusione e non sull’esclusione. A lunghissimo periodo, i Balcani saranno senz’altro una regione d’Europa e tutti questi Paesi si troveranno in un unico Stato; sarà allora difficile comprendere perché si siano fatti la guerra. Per quanto possa sembrare sorprendente, questa è una guerra (da parte di tutti, compresi i nazionalisti) per l’inclusione in Europa, e non il contrario. Nel frattempo, ci sarà spazio per una tragedia infinita." (Rada Ivekovic, "Autopsia dei Balcani", Raffaello Cortina ed., pag. 62)
Parte dei materiali utilizzati per la redazione della parte centrale di questo articolo provengono dal dossier "European Union Special Issue", IWPR, Balkan Crisis Report n. 493