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Europa, senza paura
Una road map per i Balcani occidentali che indichi tappe, tempi e modi del percorso verso l’integrazione nell’Ue. E’ la proposta presentata da Piero Fassino e votata all’unanimità dall’Assemblea dell’Unione Europea Occidentale lo scorso 16 giugno a Parigi. Lo abbiamo intervistato
Lei ha recentemente proposto una road map per i Balcani occidentali, ci può descrivere i punti del percorso?
L’obiettivo di portare i Balcani occidentali nell’Ue è stato assunto come priorità dall’Unione fin dal Consiglio di Salonicco del 2003, e ribadito come priorità costantemente in tutti questi anni. Non c’è riunione del Consiglio europeo nel quale non vi sia stata una formale riconferma del fatto che l’Ue vuole integrare i paesi dei Balcani occidentali. Queste affermazioni tuttavia necessitano della costruzione di un percorso concreto, perché non c’è nulla di peggio che evocare continuamente un obiettivo ma non mettere in campo gli strumenti per raggiungerlo.
Ecco perché parlo di una road map. Una road map nella quale l’Ue definisca tappe, tempi, modi con cui si porteranno i paesi dei Balcani occidentali all’integrazione. E ho indicato nella risoluzione votata all’unanimità a Parigi dall’Assemblea UEO, alcuni passaggi di questa road map. Innanzitutto concludere rapidamente i negoziati con la Croazia, possibilmente entro la fine dell’anno. Poi aprire i negoziati con la Macedonia, stante che la Commissione europea ha dichiarato che gli adempimenti istruttori per aprire i negoziati sono conclusi. Terzo, implementare in tutte le loro potenzialità gli Accordi di Associazione e Stabilizzazione (ASA) con tutti i paesi che li hanno sottoscritti. Quarto riconoscere lo status di candidato a Serbia, Montenegro e Albania, che hanno fatto domanda di adesione. Riconoscere lo status di candidato è importante perché mette in moto la fase istruttoria necessaria alla successiva apertura dei negoziati. Poi, lavorare sul rafforzamento dell’unità statale della Bosnia Erzegovina incoraggiando le autorità bosniache a realizzare le riforme costituzionali che consentano di trasferire alle istituzioni della Bosnia i poteri che attualmente esercita l’Alto rappresentante europeo. Inoltre, arrivare all’ampliamento dell’accordo sulla libera circolazione sottoscritto con Serbia, Montenegro e Macedonia, anche alla Bosnia Erzegovina e all’Albania.
Tutti questi passaggi, se resi chiari espliciti e anche calendarizzati, determinano una vera e propria road map, che consente ad ogni paese di sapere qual è il suo percorso. Naturalmente, nel momento in cui l’Ue è chiamata a fare tutta la sua parte, la loro parte la devono fare anche i protagonisti della regione. Nella risoluzione che io ho presentato ed è stata approvata a Parigi indico quali sono questi passaggi che investono la responsabilità diretta dei protagonisti.
Occorre ad esempio che le autorità di Belgrado e di Pristina si mettano attorno ad un tavolo e riprendano a negoziare, perché comunque la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia non risolverà dal punto di vista politico il problema del Kosovo. Il problema del Kosovo va risolto su un piano bilaterale, con un’intesa tra le parti. Inoltre, occorre che le autorità del Kosovo siano capaci fin da ora di garantire pienamente i diritti delle minoranze, della minoranza serba e di tutte le attività della Chiesa ortodossa, perché questo è un elemento essenziale per la riduzione dei conflitti.
Occorre ancora che Macedonia e Grecia arrivino ad un accordo sulla denominazione della Repubblica macedone. Per quanto riguarda la Bosnia occorre che le due entità – la Republika Srpska e la Federazione Croato-musulmana – abbandonino l’atteggiamento reticente che hanno nei confronti dello stato bosniaco e adottino le riforme per far sì che lo stato esista davvero e non soltanto come somma di due entità distinte. Infine le forze politiche albanesi, che in questo momento sono contrapposte da un duro confronto interno, trovino il modo per avviare una vita politica parlamentare normale. Queste sono tutte cose che non può fare l’Ue, non può farle un soggetto esterno. Devono essere realizzate dai soggetti interessati, sapendo che quanto più compiono atti di questa natura tanto più questo incoraggia e accelera il meccanismo della road map europea.
Lei aveva dichiarato che la Conferenza del 2 giugno di Sarajevo doveva essere l’occasione per accelerare il cammino e che l’UEO intendeva sostenerlo e accompagnarlo. Dai risultati della Conferenza di Sarajevo in realtà emerge che le risposte sono state un po’ timide. Si è ribadita l’importanza dell’integrazione piena, tuttavia quali siano i prossimi passi per questi paesi lungo il cammino europeo resta ancora una domanda inevasa…
La Conferenza di Sarajevo da un lato ha ribadito il carattere strategico dell’integrazione dei Balcani occidentali e questo è importante anche perché segue dichiarazioni analoghe che erano state fatte sia da Catherine Ashton quando ha visitato la regione, sia dal Commissario all’Allargamento Füle. Ribadire questo impegno dell’Unione non è un fatto formale e ha un valore politico. In secondo luogo la dichiarazione di Sarajevo ha accolto la decisione che era stata annunciata dalla presidenza spagnola dell’Ue, cioè l’estensione nei prossimi mesi della liberalizzazione dei visti anche a Bosnia e Albania. E questo ha un grande valore. Perché includere questi paesi nello spazio di libera circolazione è un forte e concreto passo avanti verso l’integrazione… Ci si poteva aspettare che a Sarajevo si facesse di più? Probabilmente sì. In ogni caso io penso che sulla base della dichiarazione di principio ora si debba lavorare. A maggior ragione auspico che l’Unione si doti di una road map.
Sul nostro sito abbiamo avviato un dibattito on-line ponendo il seguente quesito: accelerare o rallentare il percorso di adesione dei Balcani occidentali nell’Ue? Lei cosa ne pensa?
Rallentare sarebbe un errore, perché si corrono dei grandi rischi. Il primo è che si compromettano i risultati ottenuti in questi anni nella stabilizzazione della regione e che alcuni conflitti possano rinfocolarsi e quindi indebolire il processo di stabilizzazione che è stato faticosamente conseguito. Il secondo rischio è che si crei nei nostri partner una frustrazione che non incoraggia certo quei paesi a mettere in essere tutte le politiche che sono necessarie per realizzare la convergenza con gli standard europei. Condizione essenziale per integrarsi. Penso dunque che non si debba assolutamente rallentare, sarebbe un errore politico, penso al contrario che si debba accelerare.
Anni fa la Commissione internazionale per i Balcani presieduta da Giuliano Amato, aveva avanzato la proposta di ingresso dei Balcani per la data simbolica del 2014, esattamente un secolo dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Secondo lei è ancora realistica?
Rimane una data di grande valore simbolico da non abbandonare. Poi come lei sa i criteri di Copenaghen per l’integrazione prevedono che ogni paese entri nell’Ue quando ha soddisfatto tutte le condizioni. Esclude che si possa a priori decidere un ingresso collettivo. Indicare la data con un ingresso collettivo rischia di bypassare una verifica specifica, paese per paese, del soddisfacimento delle condizioni di integrazione. La data, però, secondo me deve rimanere come orizzonte di valore politico. Il 2014 è comunque un punto di riferimento. Penso che si debba fare di tutto per avviare il processo di integrazione in modo tale che nel 2014 o tutti i Balcani possano entrare, o comunque alcuni paesi siano già entrati e questo faciliti anche l’ingresso dei rimanenti negli anni successivi.
Far restare “in sala d’attesa” questi paesi rischia di frustrarli. In questi giorni in molti, ad esempio Robert Gates segretario della difesa USA, hanno sottolineato che l’orientamento della Turchia verso il Medio oriente potrebbe essere legato alla freddezza dell’Unione nell’accogliere Ankara… Lei cosa ne pensa?
Sono sempre stato assolutamente favorevole all’integrazione della Turchia nell’Unione europea, perché penso che sia un interesse europeo. Per il ruolo che la Turchia svolge per la stabilità della vasta area in cui è collocata. La Turchia sta in una delle “cerniere” del mondo, basta guardare quali sono i paesi che stanno ai suoi confini, l’Iran, l’Iraq, il Caucaso, il Medio Oriente. E anche i Balcani. Tutte aree difficili, esposte a tensione. Un grande paese come la Turchia ha un ruolo di stabilizzatore essenziale.
C’è una seconda ragione. La Turchia è un paese islamico democratico. E sappiamo bene che invece ci sono paesi islamici in cui gli standard democratici sono negati o comunque fortemente compressi. Portare la Turchia nell’Ue servirà a rafforzare ancora di più il carattere democratico di quel paese e questo può diventare un utile riferimento per un’evoluzione democratica anche di quei paesi musulmani in cui invece la democrazia non c’è o c’è solo in parte.
È d’accordo sul fatto che ci sia una certa frustrazione da parte turca legata al prolungamento dell’attesa?
C’è una frustrazione per le troppe reticenze europee a cui la Turchia sta dando una risposta visibile da tutti: una strategia di politica estera che affermi il suo ruolo di potenza regionale. Questo è un messaggio molto chiaro all’Unione europea, quasi a dirci: “Guardate che noi comunque siamo una potenza con cui fare i conti!”. Prima l’Ue se ne rende conto, meglio è.
Ma quanto è pronta l’Ue ad accogliere la Turchia e i Balcani? Perché ci sono paesi come Belgio, Olanda e la stessa Germania che frenano sull’allargamento…
Le diffidenze verso l’inclusione della Turchia e dei Balcani in realtà sono l’espressione di un fenomeno di fondo, più profondo. È quella paura, quell’inquietudine che abbiamo visto crescere in Europa dai referendum olandesi e francesi in poi. E anche le difficoltà a mettere in campo il salvataggio della Grecia, così come la diffidenza verso i Balcani e verso la Turchia sono tutte manifestazioni di un unico grande tema. Quella che io chiamo “la paura della globalizzazione sull’uscio di casa”. Nel momento in cui il mondo è sempre più interdipendente, l’Europa è impaurita e intimidita. E una parte dell’opinione pubblica pensa che l’Europa riesce a reggere meglio le sfide di questa globalizzazione se si chiude.
Io penso sia vero il contrario. L’Europa sta nella globalizzazione in modo più forte se si apre e se rafforza le tue dimensioni. Ogni giorno dobbiamo fare i conti con la Cina, un miliardo e 300milioni di abitanti e il 10% di crescita del Pil all’anno; con l’India che ha un miliardo di abitanti e anch’essa il 10% di crescita del Pil annuale. Ma anche con il Sudafrica, il Brasile, l’Indonesia, il Messico e tanti altri paesi emergenti. Non c’è nessun paese europeo che da solo ce la potrebbe fare, neanche la potente Germania. Ce la può fare un’Europa di 450 milioni di abitanti che mette in comune le sue risorse finanziarie, il suo potenziale produttivo, la sua ricerca, la sua ricchezza culturale. Se i 450 diventano 470 milioni perché si aggiungono anche gli abitanti dei Balcani, e diventano addirittura 550 perché si aggiungono gli oltre 70milioni di turchi, questo rende più forte l’Europa, non la indebolisce.