Europa orientale: ambiente e attivismo transnazionale

Attraverso l’attivismo politico transnazionale diversi attori sociali contribuiscono ad approfondire i processi democratici a livello europeo, anche nel settore ambientale. Un’intervista a Aron Buzogany, professore presso l’Università delle risorse naturali e delle scienze della vita (BOKU) di Vienna 

28/06/2022, Luisa Chiodi, Serena Epis -

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 © chayanuphol/Shutterstock

Può brevemente introdurre il suo ambito di ricerca?

Il mio lavoro si concentra sulle organizzazioni della società civile e sui movimenti sociali che lavorano per la protezione dell’ambiente e sul tema del cambiamento climatico nei paesi dell’Europa centrale e orientale, quindi in alcuni stati membri dell’UE – come Ungheria, Romania e Polonia – ma anche nei paesi interessati dalla politica di vicinato dell’UE. 

Nello specifico studio come queste organizzazioni lavorano, che tipo di strategie usano e come si relazionano con l’UE. In molti casi, infatti, l’UE è un attore molto importante perché fornisce opportunità di mobilitazione e li aiuta a raggiungere obiettivi politici facendo pressione sui loro governi. 

È andata così soprattutto durante il processo di adesione all’UE. Negli ultimi anni le condizioni sono cambiate e la società civile sta vivendo un momento particolarmente difficile.

Ha accennato al fatto che l’UE offre diverse opportunità alla società civile. L’UE è ancora un alleato delle organizzazioni nelle loro lotte politiche?

Quello che abbiamo riscontrato nella nostra ricerca negli ultimi 2 o 3 anni è che nei nuovi stati membri dell’Europa centrale dopo ingresso nell’UE è diminuita l’influenza delle ONG che prima ricevevano ampio sostegno dall’esterno. È quello che è successo ad esempio in Polonia e Ungheria. 

Ovviamente questo è collegato anche al cambiamento dei loro governi e delle loro posizioni rispetto all’UE. In Ungheria, ad esempio, negli ultimi 10/15 anni i governi euroscettici hanno adottato una posizione sempre più ostile verso la società civile e questo non riguarda solo i gruppi ambientalisti, ma la società civile in generale. 

Di fatto però dopo l’adesione all’UE, le organizzazioni della società civile di questi paesi hanno iniziato a ricevere meno finanziamenti rispetto agli anni precedenti e sono state dunque costrette a trovare fonti alternative per continuare a lavorare.

Quello che riscontriamo nelle nostre ricerche, tuttavia, è che le organizzazioni della società civile tendono a lavorare sempre di più a livello locale, per via della mancanza di fondi, perdendo così l’opportunità di essere influenti, di avere un ruolo nei dibattiti politici più ampi.

Aron Buzogany

Aron Buzogany

Prima dell’adesione all’UE c’era qualche forma di cooperazione tra i governi e la società civile in paesi come Ungheria, Polonia, Romania?  

Non nel caso della Romania, ma in quello dell’Ungheria e della Polonia sì. Qui dalla fine degli anni Novanta e inizio del 2000 c’era una sorta di collaborazione tra le due parti. Non era propriamente un rapporto amichevole – nessuno si aspettava che lo fosse, del resto – ma sono stati in grado comunque di stabilire una sorta di collaborazione che ad un certo punto è diventata anche abbastanza matura e funzionante. 

Oggi le organizzazioni della società civile potrebbero fare più affidamento sui meccanismi dell’UE, ad esempio le procedure di infrazione in campo ambientale, cosa che non potevano fare in passato…

Il paradosso è che ora le organizzazioni della società civile possono denunciare i loro governi e hanno molte più opportunità a disposizione, ma sembra che non siano davvero in grado di farlo. In Polonia ci sono stati casi in cui la società civile, grazie alla collaborazione con coalizioni civiche internazionali, ha potuto sporgere denuncia contro il proprio governo. Tuttavia non è facile, servono molte risorse. 

Durante il processo di adesione i governi erano aperti e interessati a coinvolgere i diversi attori nel percorso di integrazione europea; quello era il periodo in cui i gruppi della società civile erano davvero in grado di mobilitarsi. Quando il processo si è concluso le condizioni sono cambiate, non solo a causa di governi euroscettici, ma anche perché i finanziamenti esterni hanno iniziato a diminuire e lo slancio iniziale si è indebolito. 

I gruppi della società civile vedono ancora l’UE come un orizzonte politico per il loro attivismo?

La mia impressione è che dalla parte della società civile ci sia più realismo – ma anche più scetticismo – che in alcuni casi non era assente nemmeno prima. L’UE ha sempre rappresentato un’opportunità per la società civile, soprattutto per via dei finanziamenti, ma ciò non significa che ci fosse pieno sostegno alle politiche dell’UE, soprattutto perché queste sono spesso in contraddizione tra loro. 

Prendiamo per esempio la politica ambientale e la politica dei trasporti o la politica industriale e pensiamo a un progetto per costruire un’autostrada che attraversa aree naturali protette: le politiche dell’UE si contraddicono e causano conflitti a livello locale e le ONG ambientaliste si trovano coinvolte in questa dinamica. Ci sono stati esempi molto importanti in Polonia e in Ungheria negli ultimi dieci anni, per il taglio delle foreste o la realizzazione di progetti industriali in aree protette. 

C’è anche una dimensione transnazionale in termini di cooperazione regionale o transfrontaliera o forse una sorta di alleanza a livello europeo?

Sì, certamente. Ci sono collaborazioni nate intorno all’UE anche se non lavorano per forza su questioni europee ed esistono anche reti nate per una cooperazione pratica in ambiti specifici. Per esempio, i gruppi che si occupano di aree protette o di protezione degli animali collaborano ormai da molti anni, erano in rete anche durante la Guerra Fredda. Questi gruppi sono nati attorno a comunità epistemiche che hanno iniziato a collaborare per questioni pratiche o con progetti finanziati dalle Nazioni Unite. Ci sono stati anche casi di cooperazione regionale su progetti transfrontalieri.

Se si guarda all’ex-Jugoslavia, c’è stata una collaborazione tra gruppi ambientalisti slegata dall’UE: la collaborazione tra soggetti impegnati sulla qualità dell’acqua o sui fiumi, ambiti che per natura non hanno confini, ha avuto un ruolo nel riunire attivisti da tutti i paesi della regione.

Queste comunità epistemiche sono anche comunità di pratiche, perché alla fine non si tratta solo di accademici, ma anche e soprattutto di professionisti…

Molte organizzazioni hanno una natura ibrida, alcune nascono da comunità epistemiche e poi si trasformano in organizzazioni della società civile. Molte sono diventate piuttosto complesse, perché per cavarsela economicamente hanno iniziato a lavorare in diversi campi. Alcune si sono rivelate particolarmente capaci perché hanno imparato a diversificare non solo le attività, ma anche le proprie fonti di finanziamento. Nei paesi dell’Europa centrale e orientale si è rivelato importante ottenere finanziamenti nazionali e locali e lavorare con scuole o università. Dall’esterno si ha l’impressione che il loro lavoro non sia coerente, ma il fatto è che sono state costrette ad essere incoerenti. E comunque direi che sono state creative.

D’altra parte questa diversificazione è stata anche una cosa buona sul piano transnazionale: i gruppi della società civile hanno capito che in molti casi questo tipo di cooperazione era essenziale per accedere a linee di finanziamento. 

Se si pensa alla regione del Caucaso, e probabilmente anche ai Balcani, questa collaborazione transnazionale ha aiutato a rafforzare legami tra paesi che altrimenti non avrebbero realmente cooperato, oppure a ristabilire le reti che esistevano nell’Unione Sovietica o nell’ex Jugoslavia.

Per esempio le ONG armene e azere non potevano lavorare insieme, dovevano farlo solo con le ONG georgiane o sul territorio georgiano, perché non potevano attraversare i rispettivi confini. Era tutto molto complicato e lavorare agli stessi progetti era di fatto l’unica connessione che avevano. Così, anche se non potevano visitarsi nei rispettivi paesi, le organizzazioni potevano comunque collaborare. Se anche questo tipo di esperienza non ha fatto la differenza ad alto livello politico, ha avuto il merito di stimolare la cooperazione dal basso. 

Con la guerra in Ucraina le reti della società civile saranno molto importanti nella ripresa post-bellica. Non sto parlando specificamente di politica ambientale, perché ci saranno questioni più urgenti, come l’aiuto umanitario in aree che sono state completamente distrutte. Ci sono già molteplici reti che le ONG ucraine o moldave possono costruire. E questo, credo, è molto importante.

"Rivolta ecologica" Belgrado, Serbia, aprile 2021 © Stefan Milivojevic/Shutterstock

"Rivolta ecologica" Belgrado, Serbia, aprile 2021 © Stefan Milivojevic/Shutterstock

Quali sono le strategie utilizzate dalla società civile? 

Dipende da caso a caso. Prima dell’adesione all’UE c’era un certo tipo di cooperazione politica e scambio di competenze tra autorità e società civile. Questo è cambiato dopo l’adesione: da un lato c’è stato più confronto, quindi proteste, e anche casi di contenziosi giudiziari. Tuttavia, per poter arrivare davanti ad un tribunale o una corte è necessario che ci sia un sistema giuridico affidabile, ma in regimi illiberali come in Polonia e in Ungheria le condizioni sono molto difficili per le ONG. In altri paesi come la Romania e la Bulgaria, il sistema non è mai stato abbastanza trasparente e affidabile da permettere alle organizzazioni di trarre vantaggio dal ricorso alle corti: passare attraverso l’intero sistema corrotto richiedeva tempo e molte risorse da parte delle ONG, per cui non aveva senso combattere quella battaglia.

Ci sono molte strategie, più informali e probabilmente più efficaci. Nel caso della Romania e della Bulgaria e anche di alcuni paesi dei Balcani occidentali, le proteste su larga scala sono state molto importanti. Nel caso dell’ambiente, questi temi sono stati fondamentalmente avanzati dalle giovani generazioni che sono scese in strada. I movimenti ambientalisti si sono anche sovrapposti ai movimenti anti-corruzione, perché le due questioni sono spesso correlate. Lo stato di diritto è infatti strettamente legato alla politica ambientale e all’uso delle risorse naturali. Questo è il motivo per cui l’ambiente è diventato un campo di mobilitazione così importante.

Ciò che è interessante è che c’è stato, in un certo senso, un revival delle proteste degli anni ottanta. In Bulgaria, Ungheria e Repubblica Ceca ci sono state proteste ambientali piuttosto importanti negli anni ottanta anche perché i regimi socialisti si stavano industrializzando e questa pesante industrializzazione avveniva a danno della natura. La cosa interessante è che i governi socialisti non potevano reprimere questi movimenti, perché non potevano sostenere di essere contro la natura.

Oggi abbiamo nuovi movimenti con una generazione diversa e anche con una natura molto più transnazionale, anche se studiosi e ricercatori sostengono che c’erano molte reti transnazionali già allora: le ONG o i gruppi austriaci erano presenti in Ungheria e anche nei Balcani, c’era una cooperazione Est-Est tra la Germania orientale, la Polonia e la Repubblica Ceca, e persino i gruppi sovietici erano abbastanza ben collegati. Quindi i gruppi ambientalisti erano presenti anche nei regimi socialisti, la situazione era più complessa, ma comunque erano presenti.

L’impressione è che ci sia ancora una differenza tra Europa occidentale e orientale. In che misura le organizzazioni dell’Europa dell’Est fanno già parte di movimenti più ampi? Come Fridays for Future o Extinction Rebellion

Trovo che il nuovo movimento per il clima non sia così presente in Europa centrale e orientale. La Repubblica Ceca è un’eccezione, soprattutto perché c’è una lunga tradizione di movimenti per il clima e ci sono molte proteste contro l’estrazione del carbone, quindi il movimento ceco sembra essere molto più collegato a quelli dell’Europa occidentale.

Gran parte del discorso in questi paesi riguarda l’industrializzazione e il modello di sviluppo dell’Europa occidentale; raggiungere gli standard di sviluppo dell’Europa occidentale è ancora un sogno per gran parte della società, quindi i movimenti ambientalisti che criticano tali modelli non ricevono molto sostegno.

Lo sviluppo di questi paesi negli ultimi 30 anni è molto problematico e la transizione dal comunismo al consumismo è stato il problema maggiore in termini ambientali.

Molti di questi paesi sono diventati una sorta di paradisi dell’inquinamento dove si sono trasferite diverse industrie dell’Europa occidentale proprio perché è molto più facile inquinare lì che a casa, molto più economico… purtroppo, in quei paesi che ancora non fanno parte dell’UE questo succede ancora.

Inoltre, la maggior parte dei paesi dell’Europa orientale ha ancora un sistema legale poco funzionale, quindi il livello di corruzione nel campo della silvicoltura, per esempio, è alto in paesi come Romania e Ucraina. Ampie parti della regione dei Carpazi sono già sfruttate e le aziende forestali (per lo più occidentali) si stanno spostando o hanno iniziato a spostarsi negli ultimi 5/6 anni in altri paesi come l’Ucraina.

La società civile dell’Europa orientale ha perso il proprio ruolo centrale anche perché le questioni legate all’UE hanno perso la loro centralità. Prima dell’adesione questa era l’obiettivo che sostituiva tutto, mentre dopo c’è stato una sorta di risveglio, di frustrazione verso l’influenza occidentale e la volontà di trovare la propria strada.

C’è una svolta sovranista anche per la società civile?

Ci sono diverse tendenze allo stesso tempo. Alcune organizzazioni guardano più all’interno nei propri paesi e che lavorano soprattutto a livello locale perché non possono raggiungere il livello nazionale. In paesi come l’Ungheria e la Polonia le organizzazioni della società civile sono attaccate in maniera piuttosto esplicita, così molte hanno iniziato a dedicarsi a questioni non politiche.

Ci sono altre organizzazioni che sono molto più attive e critiche e cercano di usare reti transnazionali; rappresentano la società civile internazionalizzata, per così dire. 

Infine, un’altra parte della società civile molto importante è quella costituita da o legata a partiti illiberali. Alcuni di questi gruppi si occupano solo della politica locale, quindi in un certo senso non sono problematici, anche se naturalmente hanno un atteggiamento amichevole verso questi regimi o almeno non li criticano. 

Penso che questa divisione della società civile riguardi la maggior parte dei paesi della regione.

Col tempo le organizzazioni della società civile sono diventate anche più professionali…

Esattamente. Dagli anni ’90 e dall’inizio del 2000 il settore è diventato più professionale e questo sviluppo era chiaramente legato ai finanziamenti esterni. Durante il periodo dell’adesione c’era un’euforia per la società civile. Mentre alcuni gruppi sono stati esclusi da questo sviluppo, altri sono diventati più internazionali e transnazionali. Oggi alcuni di questi sono diventati altamente professionalizzati e anche molto influenti. Le organizzazioni che si occupano del disboscamento illegale in Ucraina, per esempio, hanno una certa influenza sul governo. Sono una risorsa importante anche per l’UE che sfrutta gli studi della società civile sulla corruzione nel settore forestale, ecc.

Tuttavia il ruolo dell’UE è anche controverso. Ci sono vari tipi di società civile, alcuni sono molto professionalizzati, altri lavorano più a livello locale, ma non possiamo dire che uno è solo buono e l’altro è cattivo. Penso che questo sia ciò che abbiamo imparato dopo molti anni di ricerca, che dovremmo evitare queste visioni molto naif e ottimistiche e cercare di guardare di più al lavoro della società civile nella pratica.

 

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Il supporto della Commissione europea per la produzione di questa pubblicazione non costituisce un endorsement dei contenuti che riflettono solo le opinioni degli autori. La Commissione non può essere ritenuta responsabile per qualsiasi uso che possa essere fatto delle informazioni in essa contenute. Vai alla pagina del progetto Trapoco

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