Esclusione ed inclusione
”La crisi economica attuale sarà più efficace nell’aumentare i tassi di povertà di quanto sei anni di crescita lo siano stati nel ridurli”. Un’intervista a Paul Stubbs, curatore di uno studio per la Commissione Europea sulla protezione sociale nei Balcani occidentali
Quali sono le caratteristiche di questo report, e su quali fonti si basa?
Da questo punto di vista abbiamo una sorta di paradosso: da un lato, questa ricerca non contiene nuovi dati; dall’altro, è la prima volta che la Direzione generale Occupazione, Affari sociali e Pari opportunità dell’Unione europea richiede report indipendenti per la valutazione dei potenziali paesi candidati rispetto agli obiettivi comunitari di inclusione sociale. Quindi, se vogliamo, l’aspetto metodologico si traduce nella strutturazione dei report e in una chiara valutazione delle problematiche. L’aspetto innovativo riguarda dunque la raccolta e strutturazione di materiali molto eterogenei.
Esistono statistiche affidabili sulle tendenze di inclusione ed esclusione sociale nei Balcani occidentali?
I dati statistici presentano molti problemi di disponibilità e affidabilità: ad esempio, in Bosnia- Erzegovina e Kosovo non esistono censimenti recenti, e in generale le metodologie di rilevazione faticano ad uniformarsi agli standard Eurostat, con campioni statistici spesso ristretti. Altri fattori di incertezza sono rappresentati dalla difficoltà di determinare la spesa sociale, dalla presenza di vaste zone grigie nell’economia e dal ruolo – significativo ma arduo da quantificare – delle rimesse dall’estero.
Quali altre difficoltà ha presentato il lavoro?
A parte le statistiche, si poneva il problema di andare oltre la superficie – i documenti di strategia e i resoconti di vari progetti e programmi – per valutare l’effettivo impatto delle riforme. Inoltre, pur non essendo al centro dell’attenzione di questi studi, il mercato del lavoro e l’istruzione sono concordemente riconosciuti come fattori chiave nell’esclusione sociale, quindi dovevamo assicurarci che il primo capitolo, dedicato al contesto, coprisse adeguatamente questi aspetti. Infine, volevamo anche far emergere gli aspetti positivi dell’eredità del passato e i punti di forza del sistema attuale, soprattutto il ruolo dei ”Centri per il lavoro sociale” in tutti i paesi ex-jugoslavi.
Come si sono evoluti welfare e servizi sociali negli ultimi anni, con la transizione all’economia di mercato – ad esempio in termini di centralizzazione e decentralizzazione? Lo Stato rimane l’erogatore principale dei servizi o è stato affiancato da altre realtà?
L’evoluzione è stata senz’altro disomogenea. Transizione e conflitti hanno aumentato i problemi e diminuito le risorse, portando anche all’emergere del settore parallelo delle ONG, spesso dipendenti da finanziamenti dall’estero, che tuttavia non sono state autenticamente integrate nella pianificazione sociale. È vero però che alcune isole di eccellenza – in particolare la Serbia con il suo Fondo per l’Innovazione Sociale – hanno cercato un meccanismo di riforma in un finanziamento più sostenibile per le ONG, in partnership con le agenzie locali.
La decentralizzazione è la questione chiave: per quanto riguarda i livelli di regolamentazione dei servizi e la natura del loro finanziamento, direi che nella regione si trova ogni tipo di combinazione. Dove c’è stata una decentralizzazione, ad esempio in Albania, non sono seguiti i fondi adeguati ad attuarla. In Bosnia Erzegovina, sono soprattutto i comuni a gestire il welfare, quindi il livello dei servizi è essenzialmente legato alla collocazione geografica.
Qual è stato l’intervento delle organizzazioni internazionali a supporto del welfare locale? Sono riuscite ad aiutare efficacemente i governi?
Questo non è l’oggetto principale dello studio, ma – avendo recentemente curato un volume proprio su questo tema (Deacon, B. & P. Stubbs, eds., 2007, Social Policy and International Interventions in South East Europe, Edward Elagr) – posso dire che in questi report non c’è nulla che contraddica il messaggio del libro, ovvero che il campo è stato affollato da molti tipi di organizzazioni internazionali, non sempre con la stessa visione o le stesse priorità di finanziamento.
Gran parte del supporto è arrivato in forma di progetti pilota non sostenibili e con strategie che hanno creato "falsi positivi": funzionari che nell’ambito dei progetti lavoravano per le riforme, ma nel loro lavoro quotidiano le ostacolavano.
Ritengo che negli ultimi anni ci sia stata maggiore attenzione al sostegno effettivo del welfare invece che al taglio indiscriminato di tutta la spesa sociale, una volta considerata completamente improduttiva; ora però il tipo di programmi sostenuti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale sono cambiati molto e contengono una maggior dimensione sociale, ma sono convinto che solo un’ampia europeizzazione dei sistemi di tutela sociale potrà aiutare.
Sarebbe splendido pensare che questi report possano influenzare la ratifica degli Accordi di Stabilizzazione e Associazione e la disponibilità dei finanziamenti IPA (strumento di assistenza pre- accesso), ma sarebbe troppo ottimistico; l’aspetto positivo è che almeno ora l’Unione europea ha una posizione sulla dimensione sociale delle riforme sanitarie e pensionistiche, che non si concentra solo sul costo dei programmi ma anche sull’accessibilità e qualità dei servizi.
Cerchiamo di sintetizzare la situazione attuale nei Balcani occidentali: quali sono le tendenze comuni e i problemi peggiori? Ci sono differenze significative tra i paesi non appartenenti all’Unione europea e i loro vicini Ue, ad esempio Slovenia, Bulgaria, o Romania?
È difficile rispondere senza andare molto in dettaglio. Croazia e Macedonia non sono comprese in questi studi (anche se ne esistono di analoghi) e la Slovenia rimane in qualche modo estranea a questo quadro per via del suo benessere. Albania, Kosovo e parti della Macedonia non presentano lo stesso invecchiamento demografico degli altri paesi; inoltre l’Albania, a differenza di tutti i paesi post-jugoslavi, non ha ereditato la combinazione di sistemi assicurativi di stampo bismarckiano, self-management e Centri per il lavoro sociale. Tuttavia i problemi sono simili…grande povertà ed esclusione sociale, crescenti disuguaglianze geografiche, disoccupazione a lungo termine (soprattutto per giovani, donne e anziani), minoranze etnicizzate, rifugiati/ profughi e così via. Ci sono state poi insufficienti riforme in termini di assistenza non istituzionalizzata per bambini e adulti disabili. Complessivamente, con il deterioramento dei sistemi su base assicurativa e l’aumento dei pagamenti informali, istruzione e sanità sono sempre più inaccessibili per i poveri e le ineguaglianze si stanno consolidando.
Si verifica anche nel welfare, così come accade nel mercato del lavoro, una forte presenza delle reti informali per far fronte alle lacune dello Stato?
Direi di sì, anche se conosciamo molto poco queste strategie di adattamento. Quello che sappiamo è che – un po’ come alla fine degli anni ’80 in Jugoslavia – la povertà urbana è particolarmente dura per chi non ha una famiglia allargata impegnata in qualche forma di agricoltura di sussistenza. Oltre alla povertà tradizionale delle popolazioni rurali, è emersa una nuova povertà associata alla migrazione nei grandi centri urbani. Servirebbe uno studio specifico sulla natura delle strategie di adattamento, specialmente nel contesto della crisi economica. Ad esempio, potremmo vedere famiglie che vivono sul limite della soglia di sussistenza anticipare l’abbandono scolastico dei figli per massimizzare il raccolto agricolo.
Quali sono i principali fattori di esclusione sociale (etnia, genere…)? Sono adeguatamente considerati e compensati in termini di accessibilità e qualità dei servizi?
I fattori che si intrecciano sono senz’altro genere, etnia, età, disabilità e collocazione geografica. I servizi sociali tengono conto di alcuni di questi fattori, ma non hanno gli strumenti per fare molto di più che combattere le emergenze; c’è poca attenzione alla prevenzione, troppi programmi sono stigmatizzanti o di breve durata e sarebbero necessari sforzi integrati fra sanità, istruzione, lavoro sociale e servizi per l’occupazione.
Quali previsioni si possono fare alla luce di questa ricerca? Che strategie e politiche suggerisce o prefigura?
Qui ci sono due cose da dire. La maggior parte dei report è stata completata prima della crisi economica e finanziaria globale; all’inizio sembrava che la regione non sarebbe stata colpita direttamente, ma mese dopo mese le previsioni si fanno più pessimistiche, anche se gli effetti saranno eterogenei. Basterebbe il collasso del sistema bancario in un paese per scatenare una crisi reale. Possiamo già essere sicuri che il declino della crescita economica sarà più efficace nell’aumentare i tassi di povertà e disoccupazione di quanto sei anni di crescita lo siano stati nel ridurli. Le raccomandazioni del report rimangono comunque valide, direi – in particolare la necessità di una strategia coordinata per la lotta a povertà ed esclusione sociale, condotta dal governo ma con il coinvolgimento di tutti gli attori della regione. Particolarmente importante è non limitarsi a tagliare i programmi, mantenendo solo un limitato sostegno ai più svantaggiati: se la regione vuole entrare nell’Unione Europea, deve cominciare a promuoverne gli standard di tutela sociale, anche in tempi duri.