Esami di riparazione

Domenica 22 marzo i cittadini macedoni andranno alle urne per eleggere un nuovo presidente e nuovi governi locali. Dopo le violenze dell’anno scorso, l’attenzione è puntata sul processo elettorale: nuovi disordini potrebbero significare l’addio alle prospettive europee del paese

20/03/2009, Risto Karajkov - Skopje

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Cartelloni elettorali, Skopje

Domenica 22 marzo i cittadini macedoni eleggeranno un nuovo presidente e nuovi governi locali. Il voto avrà luogo sotto la stretta supervisione della comunità internazionale, quindi la Macedonia farà meglio a comportarsi bene.

Secondo il governo, l’accorpamento di presidenziali e regionali nasce da semplici esigenze di risparmio. Questa decisione ha però avuto un effetto collaterale: le amministrative sono state completamente eclissate dalle presidenziali e i candidati a queste ultime hanno monopolizzato quasi tutta l’attenzione. I sondaggi vedono in testa Gjorgji Ivanov, candidato del partito di governo (VMRO), con un certo vantaggio su Ljubomir Frckoski dell’opposizione social-democratica (SDSM), ma non si escludono sorprese al secondo turno.

Tuttavia, in questa occasione gli occhi non sono puntati sul risultato, bensì sul processo elettorale. È forte infatti la pressione da parte della comunità internazionale perché le elezioni siano libere e corrette. Al momento, questa è la condizione principe per l’integrazione internazionale del paese: se le elezioni andranno bene, la Macedonia potrà sperare di ottenere una data d’inizio per i colloqui di accesso con l’Unione Europea e la liberalizzazione dei visti, forse entro la fine del 2009. In caso contrario, se lo può scordare.

Ultimamente, questo imperativo è stato ripetuto così tante volte che tutto il paese l’ha imparato a memoria, compresi gli uccellini sugli alberi e i pesci di fiume. Alcuni giorni fa, le comunità religiose hanno fatto comune appello ai politici perché le elezioni siano effettivamente libere e corrette. La settimana scorsa a Tetovo, in occasione di un incontro a beneficio dei media fra i candidati alle presidenziali, il cuoco ha decantato ai reporter il menù "europeo" preparato per pranzo ed espresso l’augurio di elezioni "libere e corrette".

Si può quindi dire, senza tema di esagerazione, che la Macedonia sia in preda a una vera mania del "libero e corretto". Tuttavia, il fatto che tutti evochino il miracolo non implica che questo effettivamente accadrà: rimane da vedere se questa consapevolezza, corale e sbandierata, si tradurrà in effettivo cambiamento.

Il voto dello scorso anno, segnato da irregolarità e gravi violenze, fu una disgrazia per il paese: ci fu persino una sparatoria davanti a un seggio elettorale a Čair (collegio della capitale Skopje), con alcuni feriti gravi. Questa fu la goccia che, traboccando dal vaso, spense definitivamente ogni speranza macedone di fissare l’inizio dei negoziati con l’UE.

Il report della Commissione Europea sul progresso del paese fu insolitamente brusco: "la Macedonia non soddisfa gli standard democratici."

Dal disastro dello scorso anno, il paese è stato sottoposto ad una crescente pressione internazionale, e oggi la Macedonia dovrà dimostrarsi in grado di organizzare elezioni democratiche o vedere le prospettive di integrazione rimanere congelate a tempo indeterminato.

La situazione rasenta l’imbarazzo: la Macedonia è infatti l’ultimo paese della regione rimasto in queste condizioni. Il numero di osservatori inviati dall’OSCE a monitorare il voto rappresenta una buona cartina di tornasole: se alcuni vicini se la cavano con una manciata di delegati in gita fuori porta, a Skopje arriva un esercito di osservatori super- addestrati, che si sparpagliano per il paese con gli occhi bene aperti. Quest’anno ce ne saranno 340, l’anno scorso erano 270: secondo alcune analisi comparative, l’unico paese europeo che riceve altrettanti osservatori è la Bielorussia.

Ma perché la Macedonia non riesce a organizzare un’elezione decente? La risposta è probabilmente da cercare nel livello di cultura politica: è ormai riconosciuto che la responsabilità delle irregolarità non è dei comuni cittadini, ma dei partiti politici. Chi esercita violenza, intimidisce gli elettori, distrugge le urne o tira fuori le armi lo fa agli ordini del proprio quartier generale: quando i partiti smetteranno di commissionarla, la violenza finirà.

Il governo ha seriamente inasprito la legislazione sulla violenza elettorale, e ora le pene prevedono significativi periodi di reclusione; però, anche se il numero di detenuti è in aumento, solo il 10 per cento delle circa 200 persone accusate per gli incidenti dello scorso anno è stato condannato. Inoltre, lo schieramento d’opposizione accusa di essere il principale destinatario delle condanne comminate, denuncia che sembra contenere una parte di verità.

Potrebbe anche darsi che, lentamente, il messaggio stia arrivando. Dopo il voto dello scorso anno, il Partito Democratico degli Albanesi (DPA) guidato da Menduh Taci – largamente considerato fra i maggiori colpevoli del disastro – è caduto in disgrazia presso l’allora compagno di coalizione VMRO. Nel corso di qualche mese, oltre al potere, ha perso una parte significativa del proprio elettorato con la secessione di una corrente guidata da Imer Selmani, ex ministro della Sanità.

Selmani, almeno per il momento uno dei politici di maggiore appeal nei confronti dell’elettorato, è ora candidato alla presidenza. Secondo Selmani, infatti, la Macedonia è pronta per eleggere un presidente di etnia albanese. Questo potrebbe essere sperare troppo, ma è certo che molti macedoni lo sosterranno. E se per caso dovesse arrivare al secondo turno, le scommesse sarebbero aperte.

La maggior parte degli incidenti elettorali avviene in territorio albanese, in un ristretto numero di collegi. I due principali partiti, l’Unione Democratica per l’Integrazione (DUI) dell’ex leader della guerriglia Ali Ahmeti e il DPA di Menduh Taci sono nemici giurati. Tuttavia, l’esacerbato antagonismo che permea la vita politica del paese è altrettanto tipico dei partiti macedoni: anche il partito di governo VMRO e quello d’opposizione SDSM sono perennemente in guerra.

Il livello di pura repulsione reciproca è fuori controllo, al punto che ad oggi non sembrano in grado di affrontare un confronto costruttivo, uno scambio di vedute o un dibattito – e probabilmente nemmeno una conversazione.

La forma di comunicazione abituale consiste in insulti e accuse – modalità più tipiche di gang di hooligan rivali che di partiti politici. Al momento, sembra difficile immaginare Nikola Gruevski (leader VMRO e attuale primo ministro) e Branko Crvenkovski (presidente uscente e leader SDSM) sedersi a un tavolo e affrontare un dibattito: l’impressione è che, probabilmente, non riuscirebbero nemmeno a tollerare di trovarsi nella stessa stanza.

È naturale che la politica sia fatta di polarizzazione e antagonismo: l’auspicio di Bruxelles di una "politica Jacuzzi" in cui tutti sguazzino d’amore e d’accordo è probabilmente un po’ troppo idealista. D’altra parte, è anche vero che l’antagonismo politico nel paese ha raggiunto, o meglio è sprofondato, a livelli distruttivi: è questo l’odio che esplode in violenza al momento delle elezioni.

C’è chi dice che sia un male giovanile della democrazia. Un candidato sindaco ha tirato fuori dal cappello un proverbio ad effetto: la democrazia è come l’erba inglese – ha bisogno di molta acqua e duecento anni. La Macedonia, però, non ha tanto tempo a disposizione: il prato della democrazia deve crescere molto più in fretta, entro questo fine settimana.

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