Erkin Koray, la favola musicale del Jimi Hendrix turco

Erkin Koray è oggi riconosciuto come uno dei più grandi artisti turchi del dopoguerra. Non ha dato solo al rock, ma anche alla psichedelia, alla world music e alla musica prog. Tanto da guadagnarsi il soprannome di Jimi Hendrix turco

24/01/2013, Gianluca Grossi -

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Erkin Koray

Il suo ultimo disco è uscito pochi mesi fa e s’intitola Mechul: Singles & Rarities. Prodotto dalla Sublime Frequencies – etichetta di Seattle, da sempre attenta alle novità musicali provenienti da oriente ed estremo oriente – comprende una serie di canzoni registrate fra il 1970 e il 1977, nel pieno della sua attività artistica, all’indomani delle partecipazioni all’Altin Mikrofon: la kermesse musicale, organizzata dal quotidiano «Hurriyet» dal 1965 al 1968, coinvolgeva i primi rappresentanti del rock’n’roll turco e band aventi come scopo prioritario quello di trasformare i brani folk tradizionali in pezzi elettrici, modernizzandoli e interpretandoli a proprio piacimento. Nello stesso periodo comincia a essere conosciuto col soprannome di Jimi Hendrix turco e il suo genere musicale a essere battezzato ethno-rock.

Erkin Koray è oggi riconosciuto come uno dei più grandi artisti turchi del dopoguerra, a fianco di figure cult come Mehmet Baris Manco e Selda Bagcan. Non ha dato solo al rock, ma anche alla psichedelia, alla world music e alla musica prog. La progressive, in particolare, proprio grazie al suo estro, ha attecchito in Turchia più che in ogni altra parte del mondo, facilitata dal ricchissimo bagaglio musicale tradizionale che contraddistingue l’Anatolia e che ha permesso ai suoi rappresentanti di elaborare forme musicali innovative, senza indisporre l’ortodossia locale. Al contrario, gruppi leggendari come i Kaleidoscope o il supergruppo Emerson, Lake e Palmer, veri capostipiti del movimento progressive in Inghilterra, non sono mai riusciti a imporre con altrettanto vigore in occidente la nuova realtà musicale.

Il nuovo disco

Mechul: Singles & Rarities offre un’ottima panoramica della carriera artistica di Koray e permette anche a chi non l’ha mai incontrato di apprezzare il frutto del suo lavoro. La title track, "Mechul", è un brano tipicamente psichedelico, con incedere ‘sinuoso’ e una melodia che strizza l’occhio a universi pentagrammati orientali. I suoni, però, scaturiscono dagli amplificatori e da modus vivendi all’occidentale, incentrati sulla sperimentazione, stanchi dei consolidati quattro accordi derivanti dal rock’n’roll anni Cinquanta.

"Krallar" ha un groove che nulla ha da invidiare ai brani più "caldi" degli anni Settanta anglo-statunitensi. E’ più diretta della prima e mette in luce un artista che, anche dal punto di vista estetico e scenografico, ha da dire la sua, sollecitando l’immaginario collettivo con un look che in Turchia nessuno aveva mai esibito. L’intro ricorda un rock’n’roll tradizionale: dopo un paio di minuti incalzanti, la voce lascia spazio a un assolo chitarristico figlio del genio hendrixiano. "Gun Dogmuyor" fa il verso al pop anni Sessanta, con rimandi addirittura alla musica francese, periodo ye-ye. Sono undici canzoni complessive, in grado di far luce su un abilissimo musicista turco, il primo ad abbracciare una chitarra elettrica e a dar vita all’Anatolian rock.

La sua storia

Erkin Koray nasce nel 1941 a Istanbul e forma la sua prima rock band nel 1957, cimentandosi con brani di Elvis Presley e Fats Domino. Nel 1959 battezza il progetto Erkin Koray and Ritimcileri’ni: inizia a registrare i primi singoli, non avendo ancora preso piede la stampa dei 33 giri. Registra un 45 giri dopo l’altro, affiancando agli strumenti elettrici, oggetti musicali tipici dell’universo anatolico: il saz, simbolo dei liuti lunghi e la darabouka, un membrafono ben noto in nord Africa e medio oriente e in tutti i paesi che hanno subito la dominazione ottomana. Il suo nome comincia a diffondersi e i suoi concerti ad attirare sempre più persone: oggi sono almeno tre le generazioni che affollano i suoi live.

Nel 1963 parte per il servizio militare e nel 1966 fonda un quartetto di musica rock psichedelica. Nei primi anni Settanta è la volta dei Ter: al suo fianco ci sono Aydin Cakus, chitarrista e Nur Yenal, esperto suonatore di davul (percussione usata nei brani folk turchi, bulgari e iracheni). Incidono il singolo “Hor Gorme Garbi”, una cover di Orhan Gencebay, musicista e suonatore di banglamas, cantante e attore. Le case discografiche nicchiano di fronte alla proposta avveniristica di Koray, tuttavia è il pubblico che lo osanna e chiede in continuazione nuove produzioni. Sulla base di questi presupposti, nel 1973, vede la luce il primo 33 giri di Koray, interamente composto dai 45 giri registrati nel corso degli ultimi anni, dal 1967 al 1973. Si intitola Erkin Koray e viene ristampato nel 2006 con otto bonus track.

Nel 1974 tenta nuove strade firmando un contratto discografico con la Doglan Records e rilascia uno dei suoi pezzi più rappresentativi: “Saskin”. Parafrasa una danza folk di origine araba, particolarmente popolare in Libano, Palestina e Siria. Nello stesso anno esce il 33 giri Elektronik Turkuler, l’album della consacrazione, rilasciato dalla World Psychedelia, un mix di musiche provenienti dall’antico oriente e dal moderno occidente. Il disco è ancora oggi considerato un capolavoro da tutti coloro che fanno musica in Turchia. Erkin suona chitarre, banglamas, piano, organo e canta. Con lui ci sono Ahmet Guvenc, al basso, e Sedat Avci, alla batteria e alle percussioni.

Negli anni Settanta produce altri due titoli miliari: Erkin Koray 2 (1976) e Tutkusu (1977). Nel primo, ristampato nel 2005 con cinque bonus track, viene dato ampio respiro al sound etnico: risaltano gemme come "Fesuphanallah", "Estarabim" e "Sevince". Il secondo disco, rimasterizzato nel 2006, è invece, un inno alla musica rock, con due brani cantati in inglese.

La carriera di Koray prosegue negli anni Ottanta e Novanta con la pubblicazione di nuovi lp originali, come Benden Sana del 1982, che risente addirittura della musica indiana. Altrettanto significativi sono Illa Ki (1983), Askmiz Bitecek (1986), Cukulatam Menim (1987), Hay Yam Yam (1989), Tek Basina Konser (1991) e Devlerin Nefesi (1999). Negli anni Duemila compare in numerose compilation fra le quali spiccano Istanbul 70: Psych, Disco, Folk Classics (2011), Turkish Freakout: Psych-Folk Singles 1969-1980 (2010) e Obsession (2008). Nel 2005 suggella la sua incedibile parabola artistico-esistenziale partecipando al documentario Crossing The Bridge: The Sound Of Istanbul, diretto da Fatih Akin, regista e sceneggiatore tedesco. L’opera viene presentata fuori concorso al 58esimo Festival di Cannes.

 

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Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa

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