Ergastolo a Karadžić: il dialogo che manca
L’ex leader dei serbi di Bosnia è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale internazionale dell’Aja. Tuttavia la sentenza non sarà purtroppo un’occasione per dialogare su quanto accaduto negli anni ’90
La sentenza con cui la Corte d’appello del Meccanismo residuale per i tribunali penali internazionali ha condannato Radovan Karadžić all’ergastolo, modificando la sentenza di primo grado a 40 anni di reclusione, ha diviso – come c’era da aspettarsi – l’opinione pubblica dei paesi dell’ex Jugoslavia. Mentre nella Federazione BiH la sentenza è stata quasi unanimemente salutata con favore perché – seppur a distanza di quasi 25 anni dalla fine della guerra, quindi troppo tardi – rende giustizia alle vittime, in Republika Srpska è stata accolta con disappunto.
“È una sentenza arrogante e cinica“, ha dichiarato Milorad Dodik, padre padrone della Republika Srpska. Dodik non ha del tutto torto, ma semplicemente non ha la credibilità per criticare la sentenza. L’opinione secondo cui Radovan Karadžić non merita l’ergastolo è condivisa dalla quasi totalità dei cittadini della Republika Srpska, e a pensarla diversamente sono solo pochi intellettuali, marginalizzati e intimiditi dal regime, come Dragan Bursać e Srđan Puhalo. Tutti gli altri si sono schierati dalla parte del condannato.
La sentenza di condanna all’ergastolo di Radovan Karadžić ha accresciuto i timori per il futuro della Republika Srpska. La reazione ufficiale di Belgrado è arrivata solo tre giorni dopo il pronunciamento della sentenza. La premier serba Ana Brnabić ha cercato di guadagnare tempo, lanciandosi in affermazioni del tipo: “È interessante come tutti [i politici] della regione si siano affrettati a rilasciare dichiarazioni incredibili. Bisogna aspettare per vedere cosa diranno tutti gli altri, e noi naturalmente esprimeremo la nostra posizione“.
Sabato 23 marzo il presidente serbo Aleksandar Vučić ha finalmente deciso di esprimersi in merito alla sentenza, dichiarando: “La Serbia deve guardare al futuro e al proprio sviluppo […] La Republika Srpska è un’entità prevista dagli Accordi di Dayton e dalla costituzione [della Bosnia Erzegovina] e non sarà cancellata“. In altre parole: siamo grati a Radovan Karadžić per aver contribuito a rafforzare la posizione della Serbia dopo le guerre degli anni Novanta, ma in questo momento non possiamo dirlo pubblicamente.
Dall’altra parte, assistiamo a un vero e proprio paradosso: praticamente tutti gli ispiratori e creatori della Republika Srpska sono criminali di guerra condannati – oltre a Karadžić e Mladić, anche Biljana Plavšić, Momčilo Krajišnik, e molti altri generali e ufficiali di grado inferiore dell’Esercito della Republika Srpska sono stati condannati per crimini di guerra – , ma la loro creazione è ancora saldamente in piedi, e la loro eredità, a giudicare dal sentimento popolare, continuerà ad essere custodita e coltivata.
Viene da chiedersi come possa sopravvivere la Bosnia Erzegovina in una situazione simile. La sentenza di condanna di Radovan Karadžić avrà un senso solo se servirà come punto di partenza per un dialogo tra i popoli ex jugoslavi sulle guerre degli anni Novanta. Ma dal momento che le loro posizioni su questo argomento sono ancora radicalmente opposte, la sentenza a carico di Radovan Karadžić probabilmente finirà per approfondire ulteriormente il divario. Mentre gli abitanti di Sarajevo, i suoi ex vicini di casa, ritengono che Karadžić abbia meritato l’ergastolo, in Republika Srpska lo considerano un eroe, gli intitolano scuole e asili nido, e lo glorificano in tutti i modi possibili.
Nella sua prima reazione alla sentenza, affidata ai suoi avvocati, Radovan Karadžić ha dichiarato: “Questa sentenza non c’entra nulla con la giustizia […] Il popolo serbo e io con esso abbiamo già vinto. La Republika Srpska è stata creata, e il popolo serbo è libero nel proprio stato. Il mio sacrificio è più piccolo di quello compiuto dagli altri. Migliaia e migliaia di giovani uomini hanno dato la vita per la Republika Srpska […] Il sacrificio maggiore lo hanno sopportato le madri, i cui figli, nella maggior parte dei casi figli unici, hanno dato la loro vita per la libertà del popolo serbo. Questo è il vero sacrificio […] Preserviamo la dignità, non odiamo gli altri e difendiamo con orgoglio ciò che è più grande di noi – la Republika Srpska“.
Queste le parole di Radovan. L’uomo che auspicava “l’estinzione di un popolo“, quello bosgnacco, e che nel 1993 cercò di procurarsi armi nucleari, ha chiuso con parole concilianti l’ultima pagina della sua attività politica. Il fatto che Karadžić si fosse messo completamente al servizio dell’idea della Grande Serbia, sacrificandosi per essa, mentre Belgrado non lo ha nemmeno ringraziato, sicuramente suscita in lui e nei suoi sostenitori un certo disagio, ma è così che funziona il mercato politico. Visto che la Serbia non è mai stata condannata per il suo coinvolgimento nella guerra in Bosnia Erzegovina, può darsi che Karadžić sia stato condannato all’ergastolo per adempiere al dovere di “fare giustizia”. E la Serbia, a giudicare dal comportamento di Vučić, non piange troppo per Karadžić, almeno non pubblicamente.
Questo sembra essere l’epilogo dell’intera vicenda. Ancora una volta è emersa la prassi secondo la quale si giudicano i criminali di guerra non per tutti i crimini commessi (le prove su Tomašica e Prijedor, che per certi versi assomigliano a Srebrenica, non sono state prese in considerazione) quanto per dimostrare loro quanto siano piccoli di fronte all’immensa struttura del tribunale, che non si chiama più nemmeno tribunale, bensì Meccanismo residuale per i tribunali penali internazionali.
All’interno di questo Meccanismo Radovan Karadžić – che probabilmente pensava di essere un dio, visto che si era arrogato il diritto di decidere della vita e della morte di decine di migliaia di persone – è risultato essere un piccolo pesce. Ha ottenuto quello che meritava. E nessuno lo rimpiangerà a lungo.
Quello che spaventa è che l’idea per la quale Karadžić si era battuto non è mai stata condannata. E continuerà ad aggirarsi come uno spettro per i Balcani, in attesa di una prossima occasione.
Occasione che Karadžić, per fortuna, non avrà più.