Eredità colpevole
Eredità colpevole è il nuovo romanzo di Diego Zandel, pubblicato per Voland, qui recensito dalla scrittrice Rosanna Turcinovich Giuricin. Zandel oggi stesso riceverà il premio Fulvio Tomizza a Trieste, presso il caffè Tommaseo alle ore 19.30
Il lettore è una strana “bestia”, a volte mangia pagine in modo distratto per accumulare centimetri sul giro vita, a volte diventa il libro e sente, prima in sordina e poi sempre più forte, la voce dell’autore che legge, legge per lui, come in un audiolibro. Perché ciò succeda, il tema deve essere accattivante e la trama incalzante, la scrittura avvincente e la conclusione un fuoco d’artificio. “Eredità colpevole” di Diego Zandel, romanzo noir pubblicato per Voland, è tutto questo. Vediamo perché.
La trama: nella sintesi dello stesso autore. Guido Lednaz, giornalista e scrittore figlio di profughi fiumani, si interessa all’omicidio del giudice La Spina, rivendicato da un gruppo di estrema destra per il contributo dell’uomo all’assoluzione del criminale di guerra titino Josip Strčić (personaggio liberamente ispirato a Oskar Piškulić, capo della polizia politica di Tito autore degli eccidi nelle foibe). Seguendo varie piste investigative e rimettendosi in contatto con figure del suo passato, Lednaz ripercorre una delle pagine più sanguinose della storia presentando il resoconto delle atrocità della Seconda guerra mondiale e il conseguente esodo di un intero popolo. Un’avvincente indagine dalle tinte noir, condotta tra Roma e Trieste, che porterà il protagonista a una drammatica verità.
Si potrebbe dire “liberamente stimolato” dall’avere partecipato, con la moglie Alessandra Baldassari, allo spettacolo scritto con Laura Marchig sulla vicenda di Oskar Piškulić, della polizia segreta OZNA al servizio dei titini, che la giustizia italiana liquiderà con “non luogo a procedere” per vizio di giurisdizione anche se i crimini sono avvenuti durante la Seconda guerra mondiale a Fiume ancora italiana. Territorio che verrà ceduto alla Jugoslavia solo dopo gli accordi del 1947, Trattato di Parigi.
Una frustrazione immensa per i protagonisti dell’esodo da quelle terre, alcuni dei quali si erano costituiti parte civile e si sono visti ignorati, ancora una volta dallo Stato italiano per “vizio di forma”. Diventano così formalità, l’iter burocratico, la tragedia, i crimini, i lutti. Ma non esiste solo la giustizia dei tribunali, la denuncia attraverso la scrittura, può colmare in parte un colpevole vuoto.
Così il romanzo di Diego Zandel, diventa strumento di verità anche se gli agganci con la realtà sono mediati dalla finzione e la catarsi dovrà ancora arrivare nei luoghi deputati.
La trama: ecco perché spinto dalla necessità di raccontare una grande ingiustizia, la trama diventa incredibilmente complessa, fatta di piani sovrapposti, molto ben descritti nella prima parte del libro che andranno lentamente a sciogliersi nella corsa finale. Una corsa alla verità che non appartiene solo al singolo, diventa spunto corale e coinvolge un mondo intero.
Guido Lednaz vuole indagare sulla morte di un magistrato coinvolto nella vicenda giudiziaria. Il fattaccio è successo a Roma ma per scoprire la macchina che porta al delitto, Lednaz dovrà recarsi a Trieste, la città dove gli interessi del mondo mitteleuropeo s’incontrano e si intrecciano trattenendo segreti e nascondendo i mille rivoli della verità. La città di contatto del mondo diviso in blocchi, dove anche i gatti dagli occhi pungenti che si aggirano nelle vie della cittavecchia, nella percezione collettiva, sono delle spie.
Qui il giornalista incontra una donna, figura chiave nella vicenda, un Virgilio in gonnella che lo terrà per mano ma soprattutto si rivelerà fondamentale per la sua vita futura. Nascerà un amore nelle maglie dell’intelligence, nulla di ciò che lo circonda è così come appare, salvo i sentimenti; la trama diventa incalzante, con ritmi che fanno inghiottire le pagine perché la lettura acquista giocoforza velocità.
Ma attenzione, centellinare aggiunge piacere. Peccato perdersi la bellezza della scrittura, ogni tanto merita fare una sosta, una piccola pausa per ragionare sulla poesia che spunta qua e là, nella descrizione di un luogo o di un evento, in certe reminiscenze di vita vissuta che spingono per uscire alla luce del sole. Si svela così la grande curiosità dello scrittore e la capacità di cogliere gli attimi della sua esistenza con piena coscienza e determinazione: ciò che siamo è ciò che sentiamo, vediamo, immaginiamo quando la vita si schiude davanti a noi. Il cammino può essere disattento o concentrato sul bagliore degli occhi, sulla bellezza delle mani, per chi scrive ciò che emoziona è fondamentale da cogliere.
Un’attenzione che emerge nella scrittura, si fa narrazione ma anche sentimento, energia che cammina.
In un noir che si rispetti la conclusione è a sorpresa, e questo libro rispetta le regole. Ma non è una conclusione catartica. Troppe cose non dette sulle vicende a nord-est d’Italia che non si possono cancellare neanche con la caduta dei confini. La memoria pesa, come è giusto che sia, e la strada della pacificazione non può essere un gesto collettivo, altrimenti gli eventi simbolici al confine orientale avrebbero già risolto la questione. Dall’allargamento dell’Unione Europea ad est, ci sono stati diversi incontri di riconciliazione che non sono bastati a cancellare l’amarezza dei troppi, lunghi silenzi e il dolore cupo dei singoli. Solo il tempo che non dovrebbe però essere oblìo, risolverà, in un modo o nell’altro.
Qui interviene la letteratura, che accarezza le ferite, bacia gli occhi dei vecchi e apre quelli dei giovani.